Tre ultracentenari che erano bambini nel 1915 raccontano l’olocausto armeno. Che il papa ha avuto il coraggio di chiamare genocidio. Aprendo una crisi con la Turchia (Kathryn Cook - Agence VU)

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Allons enfants de la patrie, le jour de gloire est arrivé... Voce stentorea e piglio fiero, Khostor Frangyan, 105 anni, strappa le note della Marsigliese dagli squarci di antiche memorie. Le imparò dai francesi che nel 1915 lo salvarono dal genocidio inflitto al popolo armeno nel disegno di pulizia etnica ispirato da Talat Pasha, l’ideologo dei Giovani Turchi nel crepuscolo dell’impero ottomano. Quel genocidio che oggi Papa Francesco chiama col suo nome durante la messa in San Pietro in ricordo del “martirio armeno”, provocando l’immediata reazione turca e la convocazione per chiarimenti ad Ankara del nunzio apostolico.

Khosrov è uno dei 28 sopravvissuti ancora in vita nell’anno in cui, il prossimo 24 aprile, sarà commemorato il centesimo anniversario del genocidio. Che durò fino a quasi tutto il 1916, fece circa un milione e 300 mila vittime e rappresentò per Adolf Hitler il modello dello sterminio contro gli ebrei. Gli ultracentenari vivono oggi in Armenia, la repubblica (tre milioni di abitanti) che ha conquistato l’indipendenza nei primi anni Novanta dopo la caduta dell’Unione Sovietica, e ha un territorio dieci volte inferiore a quello della Grande Armenia che si estendeva dal Caucaso e dall’Iran fino alla Turchia e alle sponde del Mediterraneo.
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Quasi tutti sono originari dell’Anatolia, dove agli inizi del secolo scorso era concentrata la maggioranza del popolo armeno e dove furono commessi i più orrendi massacri. Deportazioni di massa verso i campi di concentramento in Siria. Ferocia disumana delle squadracce dell’esercito turco contro i perseguitati privati di cibo e acqua, spinti dalla disperazione (come documentano alcuni terribili filmati) a succhiare dagli abiti a pezzi le gocce della pioggia o del sudore. Epidemie incontrollabili durante le marce forzate. Eccidi brutali di tutta la popolazione maschile in interi villaggi. Decine di migliaia di donne stuprate e poi avviate nei bordelli o negli harem. Bambini brutalizzati, perfino bloccati nel corso delle tragiche migrazioni dai ferri da cavallo che inchiodavano i piedi. Villaggi e chiese bruciate. Preti trucidati davanti ai fedeli atterriti nei luoghi di culto. “Metz Yeghern”, la traduzione armena del Grande Male. Un progetto di sterminio concepito per rendere più omogenea la Turchia. E che il governo di Ankara continua a negare.
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Frangyan, 6 figli (fra cui un sacerdote che vive in Olanda) e 7 nipoti (fra cui un apprezzato medico trasferito a Los Angeles), è uno dei più lucidi fra i sopravvissuti, a tratti annebbiati dal peso dell’età e dall’orrore inciso sulla pelle fin dalla prima infanzia. Frangyan segue gli avvenimenti da una tv sempre accesa e sa fare ancora di calcolo. Vive a casa di una figlia alla periferia di Etchmiadzin, il centro spirituale della Chiesa Apostolica Armena (nel 301 dopo Cristo l’Armenia fu il primo Paese ad adottare il cristianesimo come religione di Stato). Le sue radici sono a Kobusie, il distretto della famiglia (genitori e tre figli) lungo le coste del Mediterraneo orientale. «I turchi», ricorda animandosi e bisticciando con la figlia quando cerca di correggerlo, «piombarono nelle nostre terre con lo scopo di sterminarci. I miei parenti furono tutti uccisi. Solo mio nonno scampò al massacro. Riuscì a nascondersi portandomi con sé in Siria.

Nei paesini rurali dell’area i più combattivi cercarono di sottrarsi alla strage scalando il Mussa Dagh, la montagna di Mosé, dove resistettero per quaranta giorni agli assalti dell’esercito ottomano. Finché, allo stremo delle forze, elevarono alte croci per segnalare la loro presenza alle navi francesi e inglesi che incrociavano le acque del Mediterraneo. Furono salvati dall’arrivo di un incrociatore inviato dal governo di Parigi, che trasportò migliaia di persone in Egitto».
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Il racconto ha vuoti temporali. Ma torna circostanziato a partire dal ’38. «Tornarono nel nostro villaggio i turchi, cui i francesi avevano riconsegnato il territorio», riprende togliendosi la papalina e agitando un dito per aria. «Pretendevano il pagamento delle tasse. Noi non avevamo soldi, possedevamo solo un piccolo terreno e qualche capo di bestiame. Ci sequestrarono tutto. Scappammo a piedi in Siria e i francesi ci radunarono in un campo profughi vicino a Kessab. Vivevamo in tende. Migliaia di noi furono falcidiati dalla malaria. Il Libano, terrorizzato dalla possibilità che dilagasse un’epidemia, non ci consentiva di entrare. Intervennero di nuovo i francesi che distribuirono dosi di chinino e ci concessero alcune terre ad Anjar, località libanese al confine con la Siria che oggi è una nota meta turistica.

Da lì mi trasferii a Beirut, dove mi guadagnavo da vivere facendo il lavapiatti. Poi mi sposai e mi sistemai a Damasco, dove lavoravo per un uomo d’affari armeno. Solo nel ’46, alla fine della seconda guerra mondiale, sentii il richiamo della patria. Partii con la famiglia per Erevan, che allora faceva parte dell’Unione Sovietica, con l’intenzione di stabilirmi. Ma la mia odissea non era ancora finita. Fui di nuovo deportato, è il mio destino, perché i dirigenti comunisti sospettavano che aderissi a un partito socialista molto popolare fra la diaspora. Stavolta mi ritrovai in Siberia, dove guidavo i trattori. Dopo il crollo dell’Urss sono tornato in Armenia e mi sono occupato di Borsa. Prima di morire coltivo ancora un sogno. Non quello, impossibile, di rivedere i luoghi in cui sono nato. Solo il riconoscimento da parte dei turchi delle loro responsabilità per il genocidio».

Le pagine dell’eroica resistenza nel Mussa Dagh ricorrono anche nei ricordi di Silvard Atajyan, 103 anni, quattro figli sparsi per il mondo e sette nipoti, eloquio ancora fluente e sguardo fiero. Vive in casa di una nipote a Erevan, nel quartiere Western Armenia. Ha da poco subito una delicata operazione al femore (la prima in Armenia su un paziente così anziano), eseguita da un altro suo nipote. Si muove per casa aiutandosi con il girello, coltivando fiori e giocando con una pronipote che frequenta ancora le elementari. «Avevo tre anni, ma le immagini sono ancora nitide, quando all’arrivo delle squadracce ottomane mio padre - che era un soldato dell’esercito turco - decise di disertare e di combattere nelle file della resistenza. Ordinò poi a mia madre di mettere in salvo la famiglia cercando rifugio sulla montagna di Mosè. Ricordo che c’era con noi un prete armeno che ci dava conforto spirituale. Ma i problemi erano la fatica fisica della scalata e la mancanza di cibo. C’era una tremenda carestia. Quando andava bene ci abbuffavamo di harissa, una zuppa d’orzo tipica delle nostre terre che è diventata un simbolo della resistenza. Mia madre cercava di collaborare alla lotta procurando i rifornimenti alimentari e qualche capo di vestiario. Ma i turchi…».

La donna scoppia a piangere. Si deterge le lacrime e si riprende a fatica. «…I turchi avevano mezzi troppo potenti per le deboli forze armene. I nostri combattenti cadevano come mosche. Mio padre fu ucciso. Mio zio fu trucidato e il suo cadavere fu gettato in un fiume. Da quel giorno nessuno della mia famiglia ha più mangiato pesce. Saremmo morti tutti se non fosse arrivato in soccorso un vascello francese. Ci trasportarono in Egitto dove vissi cinque anni e imparai l’arabo. Ma neanche dopo il ritorno a casa trovammo pace. Nel ’39 le nostre terre furono riconsegnate alla Turchia. Scappammo ad Aleppo, dove conobbi Housep, un colonnello dell’esercito francese che diventò mio marito. Ci trasferimmo nell’Armenia orientale nel ’46, sistemandoci in una cittadina ai confini con il Nagorno Karabakh. E nel ’53 ci stabilimmo a Erevan. Ma incontrammo nuovi problemi. Le purghe russe si accanirono contro mio marito che perse il posto di insegnante di francese e cominciò a lavorare con me in una fabbrica di tappeti. Quella armena è una tragedia rimossa. Se anche avessi ancora le energie non avrei desiderio di tornare nella mia terra, è stata violentata. Il mio solo desiderio è che per il centenario il mondo ricominci a parlare dell’olocausto armeno». Almeno papa Francesco l’ha accontentata.

Ad Arabkir, un altro quartiere di Erevan, vive in casa di una nipote Arevaluys Amalyan. Ha 103 anni, ha messo al mondo quattro figli e ha una sessantina fra nipoti e pronipoti. Passa le giornate su una poltrona, a braccia conserte, lasciando vagare lo sguardo fuori dalla finestra e passandosi ogni tanto un fazzoletto sugli occhi. Sembra serena. Ma si stizzisce quando i parenti rompono il suo isolamento, e si infuria quando a qualcuno sfugge un accenno ai turchi. Non le va più di parlare della sua drammatica vicenda. La riassume per lei la nipote. A voce bassa, per non riaprirle le ferite.

«Nonna Arevaluys è nata in una famiglia di artigiani in un villaggio dell’Armenia orientale inglobata oggi nella Turchia. Il padre fu brutalmente ucciso dagli ottomani nell’aprile del 1915. La madre Vergine, una bellissima ragazza di 25 anni, fu rapita da un pascià turco. Che le propose di sposarla garantendo in cambio la salvezza dei figli e degli altri membri della famiglia. Vergine accettò e con il nuovo marito mise al mondo altri tre figli. Di Arevaluys si occuparono il nonno e le sorelle del padre. Suo fratello Houhannes, di un anno più grande di lei, venne ospitato dai fratelli della madre ad Aleppo. Arevaluys si trasferì nel 26 a Batumi e nel ’30 a Erevan, dove conobbe e sposò nostro nonno Sargis, fabbro. Era anche lui un rifugiato, scampato nel 1915 al massacro dell’intera famiglia e salvato da un gruppo di armeni in fuga.

Negli anni Ottanta, dopo la morte del pascià, Vergine raggiunse i fratelli ad Aleppo, e cercò di mettersi in contatto con Arevaluys. Sondò il terreno mandando a Erevan uno dei suoi figli di secondo letto. Ma la nonna si rifiutò di rivederla. “Come ha potuto sposare un turco?”, ripete ancor oggi. “Avrei preferito che ci avessero uccisi tutti”. Vergine è morta a 111 anni. Fino all’ultimo ha sperato di riabbracciare la figlia. Ma Arevaluys non l’ha mai perdonata».

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