Quando giunge il 25 aprile e la Liberazione Maria Luisa Torti ha una sola certezza. Il peggio è passato. Purtroppo sbaglia. Mentre osserva senza favori l’ingresso degli americani a Milano, è vittima di una ritorsione immotivata da parte dei partigiani

Il diario di Maria Luisa Torti (foto di Luigi Burroni)
Era il giorno che era logico pensare che chiunque avrebbe come minimo avuto la forza di alzare la testa, di guardare avanti, perché ognuno di noi sopravvissuti potevamo dire “io ho già pagato!”. Invece io, proprio io, non avevo ancora finito di pagare. Il tempo, le ore non avevano misura, so che non era ancora del tutto buio [… so che la porta venne spalancata improvvisamente ed entrarono due partigiani, ovvero così si presentavano in quei momenti di caos, tutti coloro che avevano voglia di alzare la voce. Questi due ragazzi (perché non avevano più di sedici-diciassette anni) che conoscevo bene perché abitano due palazzi oltre il mio, prima buttarono all’aria la casa, cassetti e armadi in cerca di che cosa non so, perché infatti non presero nulla, poi guardandomi dissero “tu vieni con noi”.

Ricordo solo le labbra di papà che erano diventate due fessure dipinte di bianco. I vicini di casa silenziosi che avevano riempito la stanza e io (ancora oggi per quanti sforzi faccia, non ricordo come scesi le scale, come mi trovai in quel piccolo giardino di quella villetta) io mi vedevo lontana, non vivevo in prima persona.

C’era una macchina accanto a me da dove scendevano tanti partigiani, erano aggrappati alle portiere, e avevano tutti i capelli e la barba lunghi, e tutti avevano intorno al collo un fazzoletto rosso, e tutti cantavano continuamente fino a drogarsi col canto “…e bandiera rossa sempre vincerà…e bandiera rossa sempre vincerà…”.

I due stupidini che mi avevano prelevata a casa dissero al compagno Lupo: “Questa è una repubblichina”. Dieci, cento mani mi spinsero, mi toccarono, mi spinsero, i bottoncini della camicetta bianca erano saltati ed il mio seno era semiscoperto. Ero una fanciulla di una figura meridionale bruna e prorompente, perciò maggiormente tutti erano eccitati.

I due ragazzi che mi avevano portata non c’erano più; forse chi era più grande di loro e che mi conosceva sapeva che io non c’entravo per niente con tutto ciò, ma la voce del compagno Lupo mi portò alla realtà perché mi gridò: “Bacia la bandiera”.

Davanti a me c’era una specie di tovaglia rossa, lercia, sporca, bagnata, strappata, puzzava di sudore e di sangue e il tessuto (non il simbolo) mi fece schifo e voltai la faccia…non l’avessi mai fatto! Il volto mi fu riempito di schiaffi, il primo mi colpì subito la bocca, mi si ruppe il labbro superiore e sentivo il sapore dolciastro del mio sangue, i mei capelli lunghi si sparpagliavano intorno al mio volto e ogni tanto sentivo: “Bacia la bandiera”. E io cretina continuavo a voltare la faccia finché i miei capelli, che mi coprivano il volto, e che mi entravano in bocca quando prendevo fiato per urlare di nuovo…improvvisamente il mio volto era libero. E i miei bei capelli neri e riccioluti, erano in terra più in là. E quelli ridevano e quello con la forbice che faticava a tagliare. E quelli che mi tenevano la testa. E io che urlavo e poi una voce forte che grida “Basta!”. Basta.

[…] Fui sollevata da terra e Glauco, un ragazzo che conoscevo da piccola ed ora già adulto, pulito, con gli occhiali i capelli normali e diventato qualcuno di importante durante la vita partigiana, presami per un braccio mi disse: “Stai tranquilla, è stato un errore…”.


Maria Luisa Torti (Milano, 1926)