Mentre da noi riprende il dibattito sulla candidatura di Roma, ecco scoppiare il caso Rio de Janeiro, il cui governatore lancia l'allarme sui conti a poche settimane dall'inizio dei giochi, e chiede più soldi al governo federale. La maledizione continua

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L'unica Olimpiade che non è stata un bagno di sangue per le casse pubbliche? Quella di Los Angeles. Ma solo grazie al fatto di essere rimasta l'unica candidata in lizza, e di aver quindi potuto trattare da una posizione di forza con il Comitato olimpico, riducendone pretese e capricci. In tutti gli altri casi, le Olimpiadi passano come una piaga biblica nelle località dove si sono svolte, bruciando non solo spese astronomiche mai preventivate, ma lasciando anche la delusione di un mancato effetto vetrina. Dopo l'evento, altro che code di turisti e nuovi business: come sanno bene in Norvegia, dove a Lillehammer, sede delle Olimpiadi invernali del 1994, il 40 per cento dei nuovi alberghi appositamente costruiti è fallito.

Mentre da noi riprende il dibattito sulla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024, e tra gli argomenti per forzare la svogliata nuovo sindaco Virginia Raggi c'è la promessa del presidente del Coni Giovanni Malagò che sarà «a costo zero per i cittadini romani», ecco scoppiare il caso Rio de Janeiro, il cui governatore lancia l'allarme sui conti a poche settimane dall'inizio dei giochi, e chiede più soldi al governo federale. La maledizione continua.

Un'analisi su quanto siano fallaci le promesse mirabolanti del momento della candidatura nella realtà del dopo, viene dal lavoro di due economisti americani, Robert Baade e Victor Matheson appena uscito sul Journal of economic perspectives, intitolato “Going for the Gold: the economics of the olympics”. Il cui risultato in sintesi deve suonare come una campana d'allarme per chi è tentato dall'avventura romana: le promesse di effetti benefici sono di solito sovrastimate, quelle dei costi sottostimati (e di molto), e anche il feel-good effect, cioè quel beneficio difficilmente misurabile che nasce nel paese per l'essere protagonisti per tre settimane di un evento mondiale beh, anche questo lascia il tempo che trova.

Ma partiamo dal meccanismo della selezione. Per partecipare alla scelta che farà il Comitato olimpico occorre presentare una serie di analisi, di piani, di stime (su costruzioni, impatto economico, sforzo di marketing), che costano non poco: Chicago ha bruciato tra i 70 e i 100 milioni di dollari solo per gareggiare con Rio ai giochi di quest'anno. Naturalmente tutto deve rispondere alle pretese del Comitato internazionale, che vuole un certo numero di stanze di hotel disponibili per gli spettatori (almeno 40 mila), e un villaggio per atleti e delegazioni da 15 mila posti. Forse troppi? Tanto per dire: Rio, che non è proprio l'ultima destinazione del Sudamerica, ha dovuto creare altre 15 mila stanze d'hotel che non aveva.

Per non parlare degli stadi. Quelli che già ci sono generalmente non incontrano i requisiti del Comitato, che vuole strutture specializzate per le varie discipline, per le quali i soliti campi di calcio esistenti ovunque non bastano. Così Boston, che si era candidata per i giochi estivi del 2024 (ma si è ritirata), avrebbe dovuto costruire uno stadio nuovo di zecca da 400 milioni di dollari pur possedendo già ben quattro stadi in città. Una spinta al faraonismo sportivo che spesso lascia le nuove strutture al sottoutilizzo dopo, o nel migliore dei casi alla riconversione (con spese aggiuntive). È il caso del grande stadio simbolo delle Olimpiadi di Pechino del 2008, convertito in parte in appartamenti.

Una volta deciso il candidato, è poi il meccanismo della realizzazione dei progetti che nei sette anni successivi resta piuttosto opaco, facendo arrivare le fatture finali a cifre da capogiro: di solito il 150 per cento del preventivato, ma in certi casi anche moltiplicate per 10 volte come a Montreal (1976) e a Sarajevo (1984). L'ultima Olimpiade, quella di Londra del 2012 doveva costare 2,4 miliardi di sterline, nel giro di due anni il budget è lievitato a 9,3, e quando il costo finale si è chiuso a 8,7 gli organizzatori hanno sostenuto di aver risparmiato. E non è stata in effetti la spesa più alta della storia. Barcellona, nel 1994 è costata 16,4 miliardi di dollari, Pechino nel 2008 45 miliardi, Sochi nel 2014 (invernale) 51 miliardi.

Ma tutto questo sforzo economico promette meraviglie per il paese ospitante. Intanto il ritorno legato all'evento: visitatori, spettatori che pagano il biglietto, sponsorizzazioni, diritti tv. E poi una spinta per la ripresa economica e per i posti di lavoro. Vero?

Gli autori della ricerca ci riportano con i piedi per terra. A Vancouver per le Olimpiadi invernali del 2010 si prevedevano 244 mila nuovi posti, mentre a Salt Lake City si erano limitati a stimarne 35 mila, mentre Atlanta si teneva sui 77 mila e Londra calava a ottomila. Una variabilità sospetta che fa pensare a cifre sparate a caso. La realtà dei fatti lo dimostra. Nel caso dei giochi invernali nel 2002 nello Utah, dei 35 mila posti promessi non c'è stata evidenza statistica né prima né dopo: semmai si è trattato di 4-7 mila posti legati allo svolgimento dei giochi, la cui creazione è costata 300 mila dollari ciascuno tenendo conto delle spese sostenute dal governo federale.

Insomma, concludono gli autori, se proprio si vogliono dare delle cifre sull'impatto economico dei grandi eventi, meglio dividere le stime presentate all'inizio per dieci, e ci si avvicina meglio alla realtà. Come mai tanta distanza?

Perché i comportamenti reali delle persone durante i giochi sono assai poco prevedibili. Prendiamo la spesa per i consumi: ebbene, se si acquista un biglietto per lo sport di solito si taglia la spesa per altri eventi come concerti e teatri (il distretto teatrale londinese non ha praticamente funzionato durante i giochi); l'afflusso turistico non è detto che aumenti, come hanno dimostrato i casi di Londra e Pechino: nel primo caso in quel mese i visitatori sono calati di 400 mila persone rispetto all'anno precedente, nel secondo si è registrato un crollo del 30 per cento perché i turisti “normali” si tengono alla larga temendo l'effetto folla.

Infine, è assai difficile stimare davvero il moltiplicatore di spesa e la ricaduta economica dei giochi. Il caso del costo della stanza d'albergo spiega tutto: è vero che diventa più salata, ma non aumentano in proporzione gli stipendi di chi fa le pulizie nel suddetto albergo, o di chi prepara il pranzo, anzi in percentuale sul fatturato dell'albergo diminuisce. E poiché in gran parte gli alberghi fanno parte di catene nazionali o internazionali, i benefici non rimangono nella città che ospita l'evento e neanche nel paese.

I ricercatori ammettono che solo in certi sporadici casi il gioco è valso la candela. E analizzare questi casi può servire a far capire il perché. Uno di questi casi è Barcellona, alla quale ospitare le Olimpiadi del 1992 è servito per scalare la graduatoria delle città turistiche europee dal 13mo al quinto posto, sorpassando Madrid, e Salt Lake City ha aumentato stabilmente la sua attrattiva come meta sciistica del 20 per cento, facendo meglio del Colorado. È dovuto a quello che gli autori chiamano effetto “gemma nascosta”, eppure non altrettanto è successo a Calgary né a Lillehammer. In che vuol dire che la visibilità conquistata dai riflettori olimpici va però saputa gestire abilmente.

L'altro caso è Los Angeles. La città restò la sola candidata alle Olimpiadi del 1984, perché pesava in quel momento il fallimento finanziario di quelle di Montreal e nessuno si fece avanti. Così riuscì a dettare le sue condizioni al Comitato olimpico: innanzitutto l'uso delle infrastrutture già esistenti, incluso il Coliseum, vecchio di 60 anni, per le cerimonie di apertura e chiusura. Se la cavò con una spesa totale di 546 milioni di dollari, ai valori d'oggi 1,244 miliardi di dollari: la metà di quanto voleva spendere il Giappone per il solo stadio Nazionale per i giochi del 2020, prima di essere ridimensionato a furor di popolo.

Se nessuna metodologia scientifica usata riesce a dimostrare la convenienza economica delle Olimpiadi per chi le ospita, perché ci sono città che continuano a candidarsi? Certo, c'è l'ego del paese (che ha spinto Russia e Cina a spendere cifre da capogiro, come s'è visto), ci sono paesi con poco controllo democratico che decidono la candidatura per favorire le lobby industriali che li sostengono (sarà per questo che è tanto aumentata la quota di candidati che vengono dalla parte in via di sviluppo del mondo?), e ci sono gli interessi dell'edilizia che sono in tutti i paesi e che lavorano più o meno nell'ombra. Ma persino il Comitato olimpico ha incominciato a chiedersi se era giusto andare avanti così quando le candidature più prestigiose si sono fatte indietro, come quelle di Boston e di Amburgo per le Olimpiadi del 2024, e quando sono rimaste solo in due a gareggiare per i giochi invernali del 2022.

Quindi ha proposto di cambiare la procedura: la selezione si farà ad inviti e valutando rischi e opportunità, verrà ridotto il costo legato alla sola candidatura, tutto quanto verrà fatto dovrà passare il vaglio della “sostenibilità”, e poi più attenzione alla corruzione e alla trasparenza.

Meglio tardi che mai.

Caso strano tocca ancora a Los Angeles di mettere alla prova il nuovo corso: così ha proposto di usare i dormitori delle università per ospitare gli atleti per le Olimpiadi del 2024 che vorrebbe ospitare, tagliando così di un miliardo di dollari le spese previste. Verrà accettato dal Comitato olimpico? Che dovrebbe, dicono gli autori della ricerca, anche venire a più miti consigli sulla costruzione di nuovi stadi, che sono una delle spese maggiori, e su cerimonie meno rutilanti. E magari accettare un'idea: introdurre la regola che i giochi vadano alla stessa città per due volte di seguito, per ammortizzare meglio i costi. La candidatura di Roma sa rispondere a questo nuovo corso?