Qui, negli Stati Uniti profondi, è dove tutto ha avuto inizio. 
E dove poi qualcosa si è inceppato. Fino a evaporare trasformandosi in rancore. E a generare un fenomeno chiamato Donald Trump (Foto di Daria Addabbo)

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Quanto è grande il cielo in America. Cielo e terra si promettono a vicenda. La magia e l’imprevedibilità dello zodiaco, della volta celeste, sembrano riflettersi nella vastità di una terra che si concede come una promessa. C’è tanta fatalità, in America. Tutto può accadere. E per chiudere, rievocando i personaggi di “Furore” di Steinbeck, c’è la speranza di un’inesauribile rinascita, quasi fosse un mondo in cui trovare tutto. Basta cercarlo.
Strade che congiungono punti di fortuna dispersi in desolati paesaggi d’attesa. Basta percorrerle. Il futuro è là, da qualche parte. Vi ci porta(va), dal 1926, la Route 66, una sorta di via della prosperità (o della sua speranza) che collegava Chicago alla spiaggia di Santa Monica e attraversando quindi Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, Nuovo Messico, California.

Per una lunghezza che supera quella che congiunge Trento a Palermo, e ritorno. Oggi esiste ancora, la Route 66, ma si chiama Historic Route 66: pesa, su di essa, la storia di drammatiche migrazioni interne, infelici eredi delle libertà di chi l’America l’aveva “scoperta” e conquistata. Storie di povertà e orgoglio di riscatto. Su tutte, quella magistralmente narrata da Steinbeck. La storia di “Furore” (narrata da Steinbeck e poi portata sugli schermi da John Ford, che vinse proprio grazie a quella pellicola, aiutato da uno splendido Henry Fonda nel ruolo di Tom Joad) è celeberrima. Quanto, nell’essenza, attuale.
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La famiglia Joad, perfetta espressione di quell’American dream dove a chiunque abbia la volontà di rimboccarsi le maniche è data la possibilità di trovare il proprio spazio vitale, trascorre la propria esistenza nella classica fattoria americana, in Oklahoma, fino a che non intervengono con violenza i prodromi apocalittici di qualcosa che si manifesterà anche in tempi recenti, prima in America e poi nel mondo intero: le banche: «Vi ripeto che la banca è qualcosa di più di un essere umano. È il mostro.

L’hanno fatta degli uomini, questo sì, ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo», dice Tom. Saranno infatti le banche, dopo aver prestato i soldi a centinaia di famiglie come quelle di Tom, a non rinnovare i crediti ai contadini, espropriando loro i terreni e spianando con i trattori le loro abitazioni. E così, improvvisata carovana di varia umanità, la famiglia di Tom inizia la propria odissea verso la California, ripartendo da zero. Odissea dei penultimi aggrappati alle parole attribuite alla Statua della libertà, pronta ad accogliere tutti per poi lasciarli al proprio destino, che è sottomesso più che alle effettive capacità di emergere dei più meritevoli (è tutto qui, in fondo, il “sogno americano”) a un sistema economico brutale.

Cieli immensi e spazi sterminati come infinite periferie di centri di aggregazione spesso scosse da telluriche variazioni finanziarie, più potenti delle carestie o degli uragani che si scatenano su una terra in buona parte ancora selvaggia quanto spaventata dalle bizzarrie del tempo e della finanza. Paesini che spuntato come miraggi nelle piatte desolazioni desertiche che hanno accompagnato la cinematografia americana, dallo stesso John Ford all’allucinatorio David Lynch passando per le denunce esplicite di Michael Moore. Tutta un’umanità che certo non filtra nell’America che siamo soliti vedere mediata dalla macchina d’immaginario hollywoodiana. Un’umanità che difende con qualsiasi mezzo la propria frazione sempre più risicata di libertà. Libertà che diventa autosegregazione. Resta mitica la storia del pacioso contadino americano che si corica ogni notte con il suo fucile tra le braccia. Sulle tracce di Tom Joad, oggi, troviamo realtà residuali e pulsanti, in credito nei confronti di una vita che si dimostra altro da quello che si sperava fosse.

Pare che tutto ritorni, dal disastro finanziario che portò all’epopea di Tom alla crisi dei mutui facili e avvelenati dai subprime, con conseguente aumento della povertà questa volta non solo in America ma, in un mondo globalizzato, in ogni estrema propaggine di un sogno americano diventato incubo (le disavventure militari in Medio Oriente, l’irresponsabile partecipazione all’incomprensibile guerra in Libia e il ritorno del fantasma della guerra fredda). Ma lì, dove il sogno ha avuto origine e dove si è come inceppato nel tempo, restano emblematiche le immagini di un paradosso esplicito. Sogni piccoli per grandi paesaggi. Grandi paesaggi per sogni piccoli. E ancora, gli ultimi sussulti di un mostro merceologico di cui rimangono quasi solo le insegne, quelle di una guerra perduta, e una forse per noi inimmaginabile legione di arrabbiati che spera di riscattarsi attraverso la velenosa furia razzista di Donald Trump.

C’è un tempo dell’attesa che ha superato ogni dimensione di senso. Una raggelata provvisorietà che osserva dalle tapparelle, in penombra, il sogno di una metropoli novecentesca che evapora quasi nelle fantasie di infanzie deluse e pronte a farsi maturità infantili e aggressive, con i sacchetti della spesa pieni di sfolgoranti buste di cibo spazzatura da consumare in garage che sono tinelli, tra supereroi e Madonne, cascami di un meticciato culturale che trovi i propri templi avventizi attorno ai tavoli di “ristoranti” semideserti che hanno fatto e fanno l’iconografia di una certa America (quella che va dalla storica Twin Peaks, diciamo - dove ancora permane, per quanto sotterraneamente, mostruosamente corrotta, un’apparenza di “normalità” - al recente successo delle estreme “Breakin Bad” o “True Detective”).

Sono le serie televisive a mostrarci oggi un’America che, sospesa tra il reale e la surrealtà di un quotidiano che pure si perpetua. Un’America che non a caso si mette in scena popolata da zombie. Né vivi né morti. In attesa, appunto. È forse ardito ma non improbabile accostare l’odissea di Tom Joad a quella della serie di grande successo “The walking Dead”. Territori sconosciuti da attraversare dopo avere perso tutto, verso il sogno di una città ancora integra, ancora come prima. Quel prima mitico eppure reale che in Steinbeck, nel 1938, si allontanava da presente per finire in mano alle banche, che con quel prima si divoravano anche il futuro.

Rimane il presente, con tutte le sue incognite, sempre più ristretto, messo all’angolo. All’angolo di spazi infiniti.
Diceva Ezra Pound che un classico è «il nuovo che resta nuovo». “Furore” è un classico perché queste immagini ci rappresentano quanto nell’essenza la realtà non sia mutata se non nei colori, nelle insegne, in dettagli che soli stanno a indicarci il cambiamento. I poveri, gli emarginati, gli spaventati, sono sempre lì, ai margini di quella “Terra promessa” un tempo sogno del mondo intero, o quasi (vi ricordate un giovanissimo Eros Ramazzotti che ancora negli anni Ottanta cantava «Siamo ragazzi di oggi / pensiamo sempre all’America»?) che non sa più pensarsi. Eppure una ragazzina la guarda, lì, da lontano, in un improbabile, pesante, opprimente presente. La guarda come si guarderebbe una televisione. Una visione da lontano, quindi. Anche per chi ci abita dentro. Ma sempre separata da quel minimo scorcio che proibisce a milioni di americani di esserlo davvero. Tra gli Americani e l’Americano ci stanno una strada, per molti impercorribile e, per tutti, un muro. Detta in sintesi, Wall Street.