La paura è contagiosa. Le leggi e la politica non possono fermarla. Così in ogni Paese sembra in atto una guerra civile tra chi usa la mente e chi preferisce la pancia, delegando ad altri di pensare per loro

Donald Trump
Mai si era parlato tanto di politica quanto in questa epoca detta della "post-politica". Mai si era visto un partito così immenso, trasversale a tutto il mondo. Il partito degli spaventati, del no globale. Senza un accordo tra loro, trasportati dalla universale paura dei troppi cambiamenti, gruppi simili hanno compiuto votazioni a prima vista simili nei luoghi più diversi: il No all’Europa in Gran Bretagna, ai partiti negli USA (un sì alla post-democrazia di Trump), alla pace in Colombia, a Renzi in Italia. La paura è collettivamente contagiosa, quindi leggi o politica non possono frenarla. Il mondo sofisticatissimo dei sondaggi non aveva previsto queste "scelte": tra virgolette, perché esse sono disomogenee, accomunate dalla emozione calcistica del gol più che da programmi politici.

Questa ricerca di un orgasmo sociale si era andata accumulando nell’inconscio collettivo: come una marea che si innalza dappertutto, non era stata avvertita da chi vi sta sopra. Ogni paese sembra dividersi in due campi pronti a una guerra civile: chi impiega la mente e chi le viscere, delegando il pensiero a portatori simbolici. Una spaccatura tanto socio-economica quanto geografica. Fra i 50 Stati americani, 27 dei 28 con il livello di istruzione più basso hanno votato per Trump; per Clinton quelli con i livelli più alti (Census Bureau).

In realtà, le onde epocali dell’inconscio collettivo sono sempre esistite. Una loro invariante è la tendenza alla formazione di gruppi chiusi, nazionali o etnici. L’uomo è un animale sociale. Ma entro certi limiti, finché permane la sensazione di un "noi omogenei". Una ingenuità marxista è stata la convinzione che questi impulsi fossero superabili e la solidarietà trasferibile alle classi sociali. Essendo un istinto animale più che un dato cosciente e appreso, il "noi" tende a fermarsi a chi parla la stessa lingua o ha la pelle del nostro colore. Poiché essa è parte di impulsi profondi e irrazionali, pensare la "lega globale dei No" all’interno di quadri più ridotti è insufficiente: rischia di lasciarci attoniti davanti all’elezione di un "clown a tempo parziale e psicopatico a tempo pieno" (Trump secondo Michael Moore).

In Italia molti hanno appoggiato il No criticando le proposte di Renzi da prospettive specifiche: economiche, sociali, giuridiche. Ma esse possono essere viste come spuma della superficie, se si guarda all’onda che travolge il mondo. Oggi è accettato che, sotto una veste politica, i fascismi fossero nella sostanza una psicosi collettiva, anche se in alcuni settori contenevano intuizioni valide (una precoce attenzione a temi ambientali o sanitari, come la lotta contro il fumo del nazismo). I differenti No di oggi potrebbero saldarsi in un nichilismo epocale con tendenza espansiva?

La massa tende ad auto-generare le proprie emozioni: anche oggi, quando si compatta virtualmente anziché in piazza. Al cittadino globale è richiesto di sopportare in un decennio cambiamenti che prima si vedevano in una generazione o in un secolo. Lo stress non è più la condizione particolare di certi individui ma lo stato permanente della maggioranza. Di per sé la psiche saprebbe adattarsi alle novità: una fase necessaria della crescita è quella in cui il bambino acquista una identità specializzandosi nel dire No. Oggi però l’adulto ricade stabilmente nella precarietà del bambino in un mondo sconosciuto: il lavoro è fragile, mentre la schiavitù da internet diventa solida. Sommandosi a milioni, invece di preparare l’autonomia i No ammassano la negatività. Siccome provocano un vuoto, creano anche uno spazio per i pifferai magici.

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Illustrazione di Giuseppe Fadda
L’Oxford Dictionary ha classificato post-truth come parola del 2016. Spalleggiati dalla sua autorità, i mezzi di comunicazione considerano la post-verità un avvento rivoluzionario da spiegare al pubblico: nelle grandi tendenze, le emozioni conterebbero ormai più della verità. Ma il fenomeno non è nuovo: accusare senza prove una congiura interna che aveva fatto perdere la Guerra alla Germania, e una esterna dell’ebraismo mondiale, era stata proprio la piattaforma di Hitler.

Altro tema usato impropriamente per spiegare l’orgia di negatività è quello della ingiustizia economica che cresce. Esso è evocato addirittura in un manifesto di intellettuali, pubblicato dalle maggiori testate d’Europa (Repubblica 18.11.16). Ma l’argomento economico è irrilevante o addirittura contraddetto dai fatti. Agli operai americani i cui salari reali sono fermi dagli anni 60, Trump ha promesso il Paradiso Perduto, archetipo della speranza universale: le fabbriche torneranno! Andando contro il loro interesse quanto i disoccupati tedeschi degli anni ’20 che scelsero Hitler, i ceti americani più deboli hanno votato Trump: il quale prevede tagli mai visti nella storia sia ai programmi sociali sia alle tasse dei ricchi. Le scelte politiche degli elettori nel XXI secolo dipendono sempre più da figure in cui ci si può identificare, indipendentemente dalla politica che praticano. Durante le fratture epocali i motivi del voto non appartengono tanto alla politica quanto alla psicologia della autoillusione.

Se si annullano le mediazioni della politica e della informazione decente - grigie, aneroiche, ma necessarie alle società complesse - l’irrazionalità prende il sopravvento sia alla base sia al vertice dei popoli. Hitler ha sterminato popoli e sconvolto l’Europa: ma è stato sconfitto e ha incoraggiato gli uomini a combattere per la memoria. I programmi di Trump che negano il cambio climatico potrebbero invece rappresentare un "civilization ending event" (Paul Krugmann, NY Times 10.12.16). Al quel punto non avrebbe più significato neppure proteggere la memoria, che richiede un futuro in cui vivibilità e consapevolezza sopravvivono.

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Fin dalla sua nascita, l’argomento più potente della psicoanalisi non è stato la dimostrazione clinica delle sue singole cure, tutto sommato limitate, ma il ricorso alle analogie con l’archetipo e il mito. Poco importa che di Edipo non si possa provare l’esistenza storica, se a milioni lo riconosciamo come modello di un rapporto fra le generazioni.

Plutarco (Le vite parallele, 9) aveva già raccontato il nichilismo del cittadino semplice: che, esposto alla complessità della politica, "sceglie" quel danno che patirà sia collettivamente sia come individuo. Nel 482 a.C. Aristide – che già Erodoto aveva chiamato "l’uomo migliore e più giusto di Atene" (VIII, 79, 1) – venne sottoposto a ostracismo: l’esilio di un cittadino non per aver commesso un crimine, ma solo perché si temeva che potesse usare male il suo potere. Come si può immaginare per un voto basato sul sospetto, l’elemento paranoico prevaleva su quello razionale. Un ateniese si sarebbe avvicinato ad Aristide: sicuramente era analfabeta e non lo aveva riconosciuto, perché gli chiese di scrivere per lui "Aristide". Dopo averlo scritto, questi gli chiese se Aristide gli avesse fatto qualcosa di male. Niente, rispose l’anonimo, non lo conosco neppure. Ma mi dà fastidio sentirlo chiamare "Il Giusto".

Chi entra in politica ponendo questioni etiche difficilmente ha successo. L’entusiasmo premia invece chi semplifica i temi, indicando un capro espiatorio: come il terrorismo, i migranti o i politici che propongono sacrifici. Per buona parte degli elettori riflettere, soffermarsi sui problemi prima di affrontarli con visceralità costituisce il costo più insopportabile.