Europa e Usa sono uniti da un patto di civiltà. Oggi tutto questo corre 
il rischio di svuotarsi di significato, riducendoci a un Ovest qualsiasi 
che per di più ha perso il suo Est

Essere il luogo del tramonto ?ci è sempre sembrato un privilegio, come se l’identità fosse un paesaggio. Oggi ci appare una metafora, con la forza inquietante della profezia. Apparentemente tutto è intatto nella storia, molto è migliorato nella geografia, nulla è cambiato nella religione politica che vede il dio occidentale al centro dell’universo, non certo creatore del mondo, ma detentore della sua unità di misura, del suo sistema di calcolo, del mistero delle proporzioni e del segreto della regola.

Con la caduta del Muro, quando con l’Urss è venuto meno il fantasma del “nemico ereditario”, il mondo è sembrato farsi piatto, l’hybris dei vincitori nella sfida del Novecento ci ha fatto pensare che i nostri valori potessero davvero sfiorare l’onnipotenza e sfondare ogni resistenza, diventando universali: anche le “democrature”, l’ambiguo ibrido geopolitico tra i due secoli, avevano dovuto adottare almeno la forma esteriore del nostro meccanismo politico e istituzionale, dunque il contagio era avviato, anche se il risultato rimaneva nella sua sostanza così gravemente imperfetto da sembrare un’impostura. Ma l’Occidente aveva vinto. Quella forza terribile capace di produrre proprio qui le due ideologie totalitarie aveva anche prodotto i concetti e le forme del meccanismo democratico, in grado di sconfiggere infine quei demoni e di sbarrare loro la strada nel mondo fuori dall’inferno, chiudendo il cerchio del Novecento.

D’altra parte questo è il luogo dov’è nata l’agorà che si contrappone al castello coi suoi ponti levatoi, la piazza del discorso pubblico orizzontale invece della torre da cui veniva annunciato l’ordine verticale del Sovrano, il diritto che codifica per la prima volta la libertà, e combinandola con la vita degli altri fa nascere il sistema di relazione tra le facoltà e i doveri, la rete sociale che ne deriva.

Tutto ciò ha avuto bisogno di istituzioni capaci di coniugare questo sistema di valori con la materialità della vita associata, nella convinzione che le leggi sono negli mani degli uomini e non degli dei, dunque non sono scritte nella pietra ma nei parlamenti, dove in caso di conflitto la legge delle creature prevale sulla legge del creatore perché tutela i diritti - tutti - ma di tutti, e cioè di chi crede come di chi non crede. In quei parlamenti nessuna verità entra con la maiuscola ma tutte le verità sono minuscole o almeno relative, si confrontano pubblicamente - si chiama “politica” - e vince la regola banale e neutrale dei numeri, almeno da quando si è stabilito che le teste si contano e non si tagliano. Poi, naturalmente, gli dei abitano spesso la coscienza individuale e la determinano, anche nel suo agire pubblico. Così come la storia e i valori del cristianesimo fanno parte del codice genetico di quella parte di mondo che chiamiamo Occidente.

Proprio il raccordo tra la coscienza e le leggi, la combinazione con le vite altrui, la definizione dei diritti, l’individuazione di una sfera pubblica ci ha resi responsabili: e la responsabilità è un’altra categoria dell’Occidente, che porta con sé il dovere del rendiconto. Significa accettare di farsi carico di un disegno complessivo, di un orizzonte più vasto, di un obiettivo comune (il cosiddetto bene pubblico) che ci obbliga a sentire un dovere più grande della nostra individualità, a tener conto di un’obbligazione reciproca, a valutare il sistema di relazione tra le nostre azioni e gli altri. E nello stesso tempo, la consapevolezza di dover rispondere di sé, il rifiuto della tentazione più pericolosa, la dismisura, che porta il potere legittimo a non accontentarsi della sovranità che ha conquistato ma a volerne anche la quota illegittima, semplicemente perché è a portata di mano. La consapevolezza della misura e del rendiconto determinano il sentimento del limite, che è un’autoregolamentazione dei singoli e una tutela del sistema.

Eravamo usciti da una guerra scoppiata all’interno della nostra civiltà, producendo l’orrore dell’Olocausto: dunque bisognò prendere atto di questo testa-coda che dimostra come la cornice culturale, artistica e spirituale dell’Europa da sola non è in grado di salvarci, perché il Male non è nato dall’irrazionale ma da un processo di moderna, tecnologica razionalità. Dopo questo “fallimento della cultura” (come lo ha chiamato Adorno) e dopo la stagione coloniale, si è dunque scelto il principio democratico come prima pietra delle nuove Costituzioni, un impegno e insieme una difesa, un programma e una garanzia. Noi siamo diventati la terra della democrazia dei diritti, della democrazia delle istituzioni, salvo poi rivelarci testimoni infedeli di queste premesse, che però restano il punto di riferimento e la forma della nostra identità culturale, politica e morale.

L’alleanza militare, in presenza dell’altro totalitarismo novecentesco ancora vivo e armato – il comunismo sovietico – era la parte materiale e visibile dell’Occidente, e per lunghi periodi ha rischiato di assorbirne il concetto, sovrastandolo. Oltre la Nato c’era però un progetto di società o addirittura di civiltà: unire la forma democratica della politica allo stato di diritto, ai diritti individuali, al diritto internazionale come metodo di regolazione dei conflitti, nel rispetto della libertà di pensiero e di parola, della libertà politica, della libertà economica. Tenere insieme la configurazione europea della democrazia pluralista anche nei valori e nei riferimenti ideali, con il pubblico diritto alla felicità americano. Con un punto di riferimento comune: la contendibilità perenne del comando, attraverso un’articolazione delle culture e delle opzioni che si confrontano pubblicamente, nella libertà di scelta dei cittadini-elettori.

Oggi tutto questo rischia di svuotarsi di significato, mentre l’Occidente si riduce ad un Ovest qualsiasi, che per di più ha perso il suo Est. Putin certo torna ad essere un attore imperiale, ma il contrasto ideologico non è più con Mosca perché il nuovo Oriente è la Cina ed è l’Isis che eleva a nemico mortale l’identità occidentale centrando nelle Torri il simbolo della nostra vita moderna. Quando porta i suoi omicidi rituali dentro un giornale, una sala da ballo, un caffè, un centro commerciale, uno stadio, una scuola ebraica, una chiesa, l’islamismo jihadista attacca in realtà la normale banalità quotidiana della nostra democrazia, esaltando la grandiosità del suo valore d’uso comune, perché la democrazia occidentale nel suo consumo pratico è esattamente questo: un sistema di continue garanzie reciproche che ci scambiamo vivendo, nella libertà, senza nemmeno più accorgercene.

Non è nemmeno questa l’insidia più grande per il concetto di Occidente. È piuttosto nella crisi della post-modernità, cioè nel passaggio dalla società industriale su basi territoriali e nazionali, allo sfondamento spazio-temporale della contemporaneità, che cambia la nozione di lavoro, smaterializza il comando, nasconde il potere, fa saltare le interdipendenze, scioglie i vincoli, rompe la rappresentanza, allarga la portata del conflitto fino a renderlo impraticabile, o inutile. In questo nuovissimo buco nello spazio e nel tempo, il mercato è più largo della sovranità, la paura è più forte del governo, l’insicurezza prevale sulla libertà.

Si cercano nella politica domestica risposte impossibili a problemi globali. Le istituzioni sovranazionali hanno la dimensione adatta alla fase che viviamo, ma non hanno l’anima, dunque la legittimità, e forse nemmeno gli strumenti. Il cittadino si sente deluso, abbandonato, tradito. L’antipolitica fa da specchio e da amplificatore ai suoi problemi, lo illude che abbiano una superficie collettiva, mentre in realtà la sua solitudine è essenziale al populismo che coglie gli sradicati ad uno ad uno nell’impotenza dell’isolamento. Perché rimangano un eterno stato d’animo, puro istinto ribelle, semplice sensazione antagonista: senza elaborare uno spirito di classe, un progetto politico, una cultura del cambiamento.

La crisi ha fatto il resto. Da un lato, se i canali che collegano la solitudine privata e la vicenda pubblica sono saltati, anche la ribellione è condannata alla marginalità. Dall’altro, la crisi finora ha sorprendentemente prodotto un’egemonia culturale della “necessità”, quasi una superstizione che parla attraverso i parametri finanziari sovraordinati ai governi, al punto da diventare simbolici, trasformandosi in politica loro stessi, senza popolo, senza rendiconto, senza una competizione con un pensiero concorrente e alternativo - che non esiste -, senza porsi il problema supremo del consenso e della verifica. Il risultato di questa confisca egemonica è che l’opinione pubblica ha introiettato i codici della crisi, con il decalogo conseguente delle nuove colpe e delle moderne virtù, producendo un sentire comune intimidito e colpevolizzato, a partire dai ceti più deboli e meno autonomi. Con la politica che come conseguenza ha uniformato il suo pensiero, lo ha omogenizzato, producendo una sorta di “indistinto democratico” in cui svaporano le differenze, le tradizioni, le rappresentanze, le alternative, i segni di riconoscimento.

Ed ecco che l’alternativa al pensiero dominante arriva: ma arriva da destra. Con Trump, con Le Pen, con gli imitatori gregari di casa nostra che parlano di razza, pelle, colore, nazione, gli elementi costitutivi della radicalità pura di una destra allo stato naturale, primitivo, primordiale, fuori persino dall’elaborazione di decenni del partito repubblicano d’America, dalle esperienze storiche del conservatorismo europeo, dal paternalismo reaganiano, dalle ideologie del bushismo. Trump sfonda la cultura di destra e la risucchia fuori dalla sua tradizione trasformandola in pura prassi, qui e ora, in interpretazione delle pulsioni popolari, raffigurazione delle esclusioni, rappresentazione dei bisogni elementari, senza un’elaborazione concettuale: si potrebbe dire senza politica, perché nel risentimento tutto diventa politica, ma in forme nuove, con un nuovo linguaggio, addirittura con un nuovo rapporto tra la verità e la propaganda.

Tutto questo è possibile perché salta il canone occidentale. In parte per la sensazione di ingovernabilità della crisi, l’angoscia di un mondo che ha perso il suo controllo e spinge il cittadino senza cittadinanza a mettersi in proprio, cercare vie d’uscita individuali e sentimentali, nell’emotività della rabbia e della frustrazione, perché politica, governo e Stato non garantiscono protezione. Poi per la dimensione sovranazionale delle emergenze - sfida terroristica, ondata migratoria, precarizzazione della vita - che sembrano incontrastabili e determinano un senso di insicurezza crescente a cui il potere legittimo non sa più rispondere. Infine per il venir meno del lavoro che non incide soltanto sul reddito e sul futuro delle famiglie ma sulla materialità stessa della nostra democrazia, che ha avuto il lavoro come obbligazione volontaria al centro dell’alleanza occidentale tra capitalismo, welfare e rappresentanza politica.

Qui si innesta l’azione del populismo. La coltivazione degli istinti, la decisione di promuoverli di rango trasformandoli in politica non ha bisogno di responsabilità, di misura, di doveri, di senso del limite, di confronto di culture. Anzi, vive tutto questo come un vincolo improprio. Quando si regredisce alle categorie del sangue, della razza, del colore della pelle il concetto dell’”altro” svanisce e riappare come un fantasma minaccioso, perché precipitiamo nella nozione primitiva dell’uomo bianco, dell’indigeno nativo: ciò che certamente noi siamo, ma ciò che non ci siamo mai accontentati di essere, elaborando l’unilateralità di questa dimensione basica nella complessità della vicenda storica, degli incontri culturali, degli innesti di esperienza e di conoscenza che ci hanno fatti crescere dentro quel sistema complesso di articolazione delle differenze che è stato l’Occidente. Ecco perché oggi lo spazio occidentale si restringe, e soffoca i concetti e le pratiche che lì dentro si muovevano in libertà, anzi fungevano da elementi costitutivi dell’identità democratica generale: compresi i concetti di destra e sinistra, la filosofia della politica, il patto implicito di riconoscimento tra le parti nel confronto-conflitto, il linguaggio e le posture che ne derivavano, cioè la cultura politica occidentale e i suoi principi.

Non è un caso che insieme con lo spazio occidentale finisca sotto attacco il pensiero liberal-democratico, che ha costruito qui le condizioni politiche e istituzionali perché destra e sinistra modellassero nel tempo se stesse come culture di governo, facendosi distintamente carico dell’edificio occidentale che insieme abitano, in cui si riconoscono e di cui si sentono responsabili. Oggi il pensiero liberale è già probabilmente minoranza nel mondo in ci viviamo: che continuiamo a chiamare Occidente mentre si sta riducendo a puro segno geografico senza una proiezione culturale e politica che lo renda riconoscibile nelle sue diversità. È una civiltà in gioco, qualcosa in più di una partita di potere. Ciò che noi siamo, o almeno ciò che vorremmo essere.