Abbiamo chiesto ad alcune nostre firme diverse per cultura ed esperienza di segnalare la loro parola-chiave, un segno di luce per provare a trovare una speranza per il futuro. Segnalateci la vostra

Oggi più che mai sento quanto avesse ragione la Bachmann quando diceva «Non date ai vostri pensieri un unico fondamento, potrebbe essere pericoloso». Bisogna dare moltissimi fondamenti ai propri pensieri per scardinare pregiudizi, visioni sclerotizzate, superare distanze dettate dall’incomprensione, e accogliere prima di tutto questo mondo in cui viviamo, dove i destini dell’umanità, le lingue e le culture si stanno intrecciando in modo inestricabile, o comunque si ritrovano a vivere una prossimità come mai forse era accaduto prima. Ciò che oggi ci è straniero è prima di tutto questo tempo, che fatichiamo a decifrare, e dunque ad accogliere.

È scomodissimo dare più fondamenti al proprio pensiero. Bisogna mettere in discussione certezze su cui si è edificata la propria vita e quella della collettività in cui siamo cresciuti. Per farlo bisogna compiere un gesto difficile: mettersi in ascolto.

È stato ascoltando un film realizzato da Itastra (Scuola di Italiano per stranieri dell’università di Palermo: «Io, Souleymane Bah») che ho capito come la lingua possa diventare non solo uno strumento di inclusione, come si dice spesso, ma una forma di salvezza per chi vive tutta la vita da analfabeta (come lo erano milioni di italiani nel dopoguerra, spesso costretti a migrare: «migranti economici», li definiremmo oggi). È la storia di Souleymane Bah, un ragazzo di un villaggio della Guinea Conakry, arrivato nel nostro Paese nel 2016 senza possedere una lingua con cui leggere e scrivere, dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorsa a cercare lavoro ovunque spingendosi sino in Libia. E lì: solo lavoro, fatica, «bastone e fucile», come racconta… finché non è giunto a Itastra e lì ha imparato l’unica lingua che oggi sa leggere e scrivere, o come precisa: una lingua con cui «capire meglio il mondo e me stesso».

Ecco, per me «accogliere» ha a che fare con questa urgenza di imparare anche noi una nuova lingua con cui provare a comprendere il mondo e noi stessi, per non rischiare di finire a vivere da stranieri in questo nostro tempo.

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