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Certo: rispetto al passato, quando arrivava a contare decine e decine di migliaia di miliziani, l’Isis ha oggi una capacità militare assai ridotta. Circa un migliaio di combattenti siriani e iracheni, assieme a un pugno di miliziani stranieri, costituiscono oggi quel che rimane dell’Isis tra Iraq e Siria. Questo territorio transfrontaliero ha costituito dal 2014 al 2017 il pilastro del movimento jihadista, desideroso di mostrare l’esistenza di un’entità amministrativa e politica in continuità col mito di un “califfato” unito e sovrano in realtà mai esistito.
Alcuni gruppi di jihadisti sono affiliati direttamente a quel che rimane della dirigenza dell’Isis, in continuo movimento tra l’Eufrate e l’Anbar, tra la città siriana di Mayadin e il vicino deserto dell’Iraq occidentale. Altre formazioni mantengono invece un legame solo ideologico. E adottano la retorica e i simboli dell’organizzazione per legittimare la propria presenza e azione.
In trincea fuori Damasco
Ci sono poi cellule dormienti attive nel sottobosco di regioni non più in mano all’Isis. E ci sono formazioni che operano invece alla luce del sole. In Siria, miliziani dell’Isis combattono ancora lungo l’Eufrate, tra Dayr az-Zawr e il confine. Ma ci sono altre sacche di presenza nella Siria centrale: nella steppa a sud di Raqqa; a nord-est di Hama al confine con i distretti sud-orientali di Idlib; nel Qalamun orientale, e attorno a Palmira. A macchia di leopardo, ci sono poi gruppi affiliati allo Stato islamico nella Siria sud-occidentale: nella valle dello Yarmuk, a ridosso sia del confine con la Giordana sia delle Alture del Golan, controllate dal 1967 da Israele. Elementi dell’Isis si trovano ancora alla periferia meridionale di Damasco, a pochi chilometri dal palazzo presidenziale siriano, tra quel che rimane del campo profughi palestinese di Yarmuk e la “favela” di Hajar al-Aswad.
Dalla Siria all’Iraq l’elemento di continuità è l’Eufrate. Il corso d’acqua collega le due aree e riporta lo Stato islamico al suo alveo originario: l’Anbar, dove tutto era cominciato circa quindici anni fa all’ombra dell’invasione anglo-americana. Le milizie filo-governative irachene e le forze di Baghdad hanno nel 2017 dichiarato “liberati” i centri urbani dell’area. Ma le campagne lungo il fiume sono ancora intrise di jihadismo, inteso come unica possibile alternativa alla perdurante esclusione delle comunità sunnite locali da ogni prospettiva di riscatto sociale, politico ed economico in un contesto iracheno sempre più avvolto dall’abbraccio iraniano e americano. Dall’Anbar, l’influenza dell’Isis si allarga verso il medio corso del Tigri, a Shirqat, risalendo la parte occidentale della piana di Ninive, lambendo l’area suburbana a ovest e a nord di Baghdad. Poi oltrepassa il Tigri, a sud-est di Kirkuk e risale fino a Diyala verso il confine con l’Iran.
Il passato, il presente e il futuro dello Stato islamico sono incisi nella sua breve ma fulminante parabola storica stretta tra il 2013 e il 2017. Ma il fenomeno va compreso in un arco temporale più dilatato, considerando quel che è avvenuto nella regione negli ultimi decenni, ben prima della presa di Mosul nel 2014: dal primo jihadismo in Afghanistan, passando per gli albori di al Qaeda fino alla sua più recente versione irachena nell’immediato post-Saddam. È in Iraq che nasce l’Isis. La dimensione locale, legata alle caratteristiche dei luoghi e delle comunità siro-irachene, è una delle tre che caratterizzano la vicenda Isis. C’è poi la dimensione regionale, dettata dagli interessi delle potenze straniere e dei loro alleati. E una terza, internazionale, alimentata dalla profonda crisi sociale e culturale presente tanto in Medio Oriente quanto in Europa e Nord America. Sono tre ambiti che servono a capire cosa è stato l’Isis, ma anche a delineare il futuro del fenomeno jihadista su scala siro-irachena, mediorientale e globale.
Rinchiusi nella valle
A livello locale il fenomeno Isis si è affermato riempiendo dei vuoti geografici, politici, militari, socio-economici, ideologici. La geografia ha svolto e svolge un ruolo determinante: le pianure tra il Tigri e l’Eufrate disegnano il territorio in cui l’insurrezione jihadista ha trovato spazio: in un contesto di perdurante violenza e nell’assenza, di fatto, di autorità politiche forti.
C’è poi l’aspetto sociale, confessionale ed etnico, anch’esso influenzato dalla geografia: dall’Eufrate al Tigri una società tribale e rurale, intrisa di conservatorismo e non ostile al jihadismo, vive chiusa al suo interno, meno incline all’incontro con l’altro rispetto a chi abita vicino al mare o nelle grandi metropoli.
Sul piano regionale, da secoli le potenze straniere si confrontano attorno ai rispettivi interessi energetici, commerciali, politici: l’area tra Siria e Iraq è infatti molto ricca di petrolio, gas e acqua; e dalle origini della Storia è al centro dei traffici tra Asia ed Europa, tra Mediterraneo e Oceano Indiano. Ecco perché lo Stato islamico non ha solo rappresentato una minaccia, ma da alcuni attori è stato visto come un’opportunità per difendere la propria area di influenza e contrastare l’espansionismo dei rivali.
Lo Stato islamico è stato inoltre alimentato da oltre ventimila combattenti stranieri, provenienti non solo da altri paesi musulmani, ma anche dall’Europa, dall’area dell’ex Urss, dal Nord America. Questa componente internazionale è quella che ha più preoccupato i governi dei paesi da cui provenivano i miliziani andati a combattere in Iraq e Siria. Queste decine di migliaia di giovani stranieri hanno portato con sé conoscenze e prospettive che hanno contribuito a conferire allo Stato islamico un carattere extra-mediorientale, transnazionale.
Proseliti in mezzo mondo
Sul livello di insurrezione armata tradizionale, fortemente radicata nel territorio mesopotamico e legata ai bisogni delle comunità locali siro-irachene, si è così sovrapposto il livello di una mobilitazione globale, veicolata da un jihadismo populista passe-partout: efficace nella propaganda ma inconsistente sul piano dottrinale, le sue parole d’ordine appaiono applicabili ai più disparati contesti socio-economici, culturali e politici e a quasi tutte le latitudini. Lo Stato islamico sembra dunque trascendere la dimensione geografica e spaziale (Siria-Iraq) e quella temporale della sua ascesa (2013-14) e caduta (2017).
Nonostante la sconfitta militare tra Eufrate e Tigri, il suo messaggio insurrezionale globale può ancora continuare a fare proseliti in quasi ogni angolo del pianeta. Le reti jihadiste hanno perso il loro legame organico con la testa dell’organizzazione, ma la loro forza non è stata intaccata: possono operare in maniera indipendente, anche a livello individuale, con un alto grado di autonomia logistica e decisionale e con un apparato propagandistico sempre pronto, duttile ma comunque riconducibile al marchio vincente dello Stato islamico.
Di fronte a questo fenomeno, le politiche di sicurezza e di militarizzazione dei contesti urbani europei e di altre aree del mondo si sono dimostrate efficaci solo in parte.
La flessibilità e la versatilità della rete terroristica assicurano agli artefici del terrore un ampio margine di manovra per aggirare gli ostacoli ed escogitare tattiche e soluzioni sempre nuove, così come tra Iraq e Siria la guerra al terrorismo offre risultati positivi solo parziali sia nel tempo sia nello spazio. La repressione e il controllo non sono sufficienti a far fronte al fenomeno Isis. Sia in Oriente sia in Occidente, l’Isis appare sempre più come il sintomo e non la causa della malattia.
Questa appare invece avere le sue radici nella profonda crisi da tempo presente nella società euro-mediterraneea: senza prospettive di crescita socio-economica ed esclusi di fatto dalla partecipazione politica, sono moltissimi i musulmani arabi ed europei che si sentono umiliati, privati della loro dignità individuale e collettiva. E che chiedono di essere ascoltati, considerati, inclusi nel processo del benessere.
L’idea del Califfato islamico quindi potrà ripresentarsi e perfino tornare vincente, o quanto meno molto minacciosa. Magari con insegne ancor più terribili dei vessilli neri. Con un leader ancor più evanescente di Abu Bakr al-Baghdadi. E con un nome dal suono ancor più esotico dell’acronimo arabo Daesh.