Gadamer, Mattarella, Falcone, Sciascia. E Palermo. Il regista-scrittore Roberto Andò conversa con il sindaco Leoluca Orlando che dice no a Salvini: "Il mio è stato un gesto di leadership etica, oggi l’unica opposizione. Ma non sono il capo, non c’è bisogno di capi"

Leoluca Orlando
Caro Luca, parafrasando una battuta che Nanni Moretti pronunzia nel suo ultimo, e bellissimo, film, Santiago, Italia, io sono di parte. E sono convinto che mai, come in questo momento, l’Italia debba impegnarsi per salvare la propria anima. Sono quindi orgoglioso di essere palermitano e che il gesto più efficace contro la linea inumana, e propagandistica, assunta dal ministro degli Interni Salvini nei confronti dei migranti, sia venuto da Palermo, cioè da te.

In questa nostra chiacchierata non voglio parlare solo di quanto sta accadendo in Italia, ma ripercorrere il cammino che, attraverso la tua azione politica, ha portato Palermo a fare questa scelta di disobbedienza. Preferirei di no, è il ritornello di Bartlebly lo scrivano di Melville, ma anche di quel pugno di professori universitari che dissero no al giuramento fascista. E anche di quel lungo elenco di politici, sindacalisti, poliziotti, magistrati, giornalisti che in Sicilia hanno lottato contro la mafia, e pagato con la vita la loro inflessibilità. È una disciplina che ha una lunga tradizione alle spalle, quella del no. E non è un caso che in Italia, oggi, a difendere la nostra Costituzione, e i nostri valori democratici, siano due palermitani, Sergio Mattarella, il nostro amato Presidente della Repubblica, e il sindaco di Palermo, cioè tu. D’altronde, la tua storia politica comincia da lì, da Piersanti, il tuo maestro e amico. Ecco, io penso che, in questi anni, tu sia riuscito a dare voce alla tradizione più intelligente e civile di questa città, alla sua parte meno appariscente, quella che non ha mai avuto potere. Palermo è diventata una città leggera, questo possiamo dirlo, e non è poco, finalmente è riuscita a liquidare la pesantezza mortuaria che a lungo ne ha segnato l’umore. In questa Europa impaurita e egoista, è diventata un grande snodo di vitalità e fraternità, concreto e simbolico, non un piccolo casello. In un bellissimo libro-intervista che Michele Perriera dedicò alla tua prima sindacatura, era il 1988, lo scrittore definiva Palermo «una capitale - aristocratica e stracciona - dello scetticismo e del sarcasmo». Come ha fatto a diventare la capitale dell’accoglienza, il laboratorio del no?
«Caro Roberto, Palermo è ancora una capitale aristocratica e stracciona, solo che adesso è animata dalla fiducia nel futuro e dal rispetto dei diritti, il che fa la differenza. In questo modo, l’aristocrazia non è solo una traccia del passato e la straccioneria non è solo lo stigma di una immodificabile mortificazione sociale. Mi fa piacere ripercorrere con te le date che hanno portato Palermo dov’è arrivata e partirei dal 6 gennaio, trentanovesimo anniversario dell’agguato in cui è caduto il presidente della Regione, Piersanti Mattarella, una ricorrenza per me fondamentale. Sono stato, unico ospite insieme alla stretta cerchia dei familiari, in una piccola chiesa del centro storico, Sant’Annuzza, a pregare il mio amico e maestro. Lasciami però saltare all’ultimo capitolo di questa lunga storia, e cioè al 1° dicembre del 2018, giorno in cui mi è stato conferito l’Heinrich Heine di Düsseldorf, il premio letterario più importante in Germania, negli anni passati attribuito a personalità come Amos Oz, Simon Veil, Jurgen Habermas. La laudatio è stata tenuta da Wim Wenders, che per un’ora ha parlato dei miei libri nel Parlamento del Land, sottolineando come loro leitmotiv quello che è anche il logo della città di Palermo “Io sono persona, noi siamo comunità”. Per me è stata una vera e propria vertigine, mi sono commosso, considerando che per quindici anni sono andato in Germania accolto da un blindato, tre macchine di scorta, una ambulanza e un elicottero pronti a intervenire in caso di attentato».

Me lo ricordo, anni fa siamo andati insieme a Wuppertal a trovare Pina Bausch e ho ancora davanti agli occhi il corteo che ti ha accolto all’aeroporto.
«Ecco, ma forse allora non sapevi che viaggiavo sotto falso nome. Sai qual era il nome che aveva scelto la sicurezza tedesca?».

No.
«Brusca. Con un ragionamento paradossale, la polizia aveva ritenuto che quel nome potesse giustificare il trambusto che provocava la mia presenza. Ovviamente, quando l’ho scoperto, ho chiesto che venisse cambiato, per ragioni non solo estetiche. La mia richiesta fu accettata e da allora il mio nome divenne Angioni, quello del generale che comandava le truppe italiane. Comunque, il premio Heine, attraverso me, lo ha vinto anche Palermo e il suo cambiamento. È stato un cammino lungo quarant’anni, e anche se io non credo all’anno zero e neppure all’anno mille, per la mia esperienza personale e politica, tutto è cominciato il 6 gennaio dell’80. Quel giorno, davanti al corpo di Piersanti Mattarella, ucciso dalla politica e dalla mafia, cioè dai politici del nostro stesso partito e dagli uomini della mafia, ci siamo ritrovati suo fratello Sergio, docente universitario, il giovane procuratore di turno, Pietro Grasso, ed io che ero il consulente giuridico del presidente. Di fronte a Piersanti io mi sono trovato a dover fare una scelta, che mi è stata anche suggerita da Sergio: “Non puoi consentire che Piersanti muoia una seconda volta”. Come avrei potuto sottrarmi? A quel punto, invece di tornare all’università, mi sono dato un obiettivo: la liberazione della mia città dal governo della mafia. E il 31 gennaio del 2015, quando alle 13,31 Laura Boldrini ha letto la scheda 505 che determinava il quorum di Sergio Mattarella, ho chiamato il Presidente e gli ho detto: “Sergio, la missione è compiuta. Posso smettere di fare politica.”
Si era infatti chiuso un cerchio che ora si è riaperto con l’accoglienza ai migranti. Siamo passati da Palermo capitale della illegalità - sono seduto sulla stessa sedia che occupava Vito Ciancimino, e credo di essere tra i pochi palermitani che pur essendo del medesimo partito non l’ha incontrato neanche per sbaglio, neppure in ascensore - a un momento in cui la legalità del diritto non basta più, nel senso che è passato il tempo del giustizialismo - io e Piersanti siamo stati due “giustizialisti”, due “professionisti dell’antimafia”, come Falcone e Borsellino, perché negli anni ’80 era inevitabile diventare un simbolo, un modello, e trovavi i tuoi avversari non di fronte, ma di dietro, a fianco, o alle spalle. Successivamente però siamo passati dall’illegalità del crimine alla illegalità del diritto, e oggi alla illegalità dei diritti. Io continuo a dire che a Palermo non ci sono centomila migranti, perché coloro che vivono a Palermo sono tutti palermitani. Gli emigranti mi aiutano a mandare questo messaggio. Dire io sono persona, noi siamo comunità, è alternativo a dire io sono individuo, noi siamo gruppo».

Roberto Andò

Tu sei un politico anomalo, lo sei sempre stato. Hai lottato per liberare la politica dall’ossessione dell’appartenenza, hai studiato con Gadamer in Germania, sei uno studioso del diritto, e sei un uomo politico che usa l’immaginazione, cosa che i tuoi avversari ti hanno sempre rimproverato. Hai corso dei rischi, primo tra tutti quello di apparire un velleitario, o un kamikaze, di certo hai voluto segnare con le parole il perimetro delle tue battaglie. Oggi in cima al tuo vocabolario c’è la parola accoglienza, e naturalmente è un potente grimaldello per fare opposizione in un tempo in cui non c’è opposizione. Cosa dovrebbe fare una vera opposizione per svegliare le coscienze incerte, per far uscire dal torpore gli italiani che cominciano ad accorgersi che la paura, l’ossessione dello straniero, è solo la merce ammuffita di un ignobile mercato delle illusioni? Cosa fare per far capire agli italiani che la politica deve sempre avere a cuore la vita, non la morte? Per far capire che una nave alla deriva con a bordo degli esseri umani è il segno di una politica che invece ha scelto la morte?
«È vero, quando la politica non ha idee e cuore sceglie la morte. Vedi, il mio è un approccio comunitario, circolare, che mi porta ad essere indifferentemente nei salotti palermitani e nei vicoli dei centro storico, o con i disperati delle periferie. L’obiettivo è di far vivere insieme quelli che sono in guerra. Noi siamo l’unica comunità al mondo che nel 1997 ha dato sepoltura a un condannato a morte. Anche quello è un modo di dire no in maniera concreta. La difesa della vita non ammette deroghe. Questa è anche la ragione per cui, in termini concettuali, io non riesco a condannare chi si toglie la vita. Non sto teorizzando il suicidio, amo la vita, quindi se mi si dovesse trovare suicidato, è opportuno si chiami la polizia. Ma non si può togliere la libertà di lasciare il mondo a chi non sopporta il dolore della propria vita. Analogamente, progettare di fare uno spettacolo di Pina Bausch a Palermo nei giorni dell’interrogatorio a Buscetta, o comprare Villa Niscemi un mese dopo l’apertura del maxiprocesso, ha implicato una scommessa sul futuro e, se mi permetti, una visione. Anche nei momenti in cui a Palermo era in atto una furia distruttiva c’era un mondo di valori che finalmente, adesso, grazie ai migranti, emerge con chiarezza.
Come fa l’Europa a non capire che il rispetto dei diritti dei migranti è una garanzia nei confronti dei nostri diritti. Il migrante ti interpella su due aspetti oggi fondamentali, i diritti della persona e l’interculturalità. In ogni caso, io sono orgoglioso di essere sindaco di una città dove si è celebrato il primo matrimonio tra omosessuali e dove si organizza il più grande Gay Pride del Mediterraneo. Oggi, Palermo è la città dei diritti. Se vuoi un riferimento teorico, lo farei risalire al personalismo comunitario di Mounier, ma oggi questa impalcatura è diventata una pratica amministrativa, è azione quotidiana nel Comune di Palermo. Oggi posso veramente dire di essere riuscito a interpretare l’anima della città, anche quella dei sordi, dei ciechi, dei muti. Non c’è dubbio sul consenso, i palermitani sono con me. C’è voluto un po’ di tempo - Palermo è cambiata in quarant’anni. Vedi, io sono antipopulista in nome del tempo. Il populista è uno che pensa di poter cambiare le cose subito. Il populista non ha il senso del passato, né vera speranza nel futuro. Vuole ottenere i suoi risultati subito, va all’incasso dell’oggi. E nel nostro tempo il populismo è una cultura, non un partito. È diventata una attitudine, se fosse solo un partito sarebbe limitato al 40 per cento. Invece, io a Palermo ho fatto l’orologiaio, ho costretto i palermitani ad avere rispetto del tempo».

Se dovessi rintracciare una linea di pensiero siciliana per la buona politica, quali maestri citeresti, oltre Piersanti e Sergio Mattarella? Nessuno se ne ricorda, ma anche Sturzo, di cui tra poco ricorrerà l’anniversario, aveva in sospetto il partitismo, e metteva al centro della società gli ultimi.
«Sturzo lo rispetto come rispetto la dottrina sociale della Chiesa, sono espressioni importanti del mio essere cattolico ma non mi sembrano proiettate nel futuro. Per me i soggetti di riferimento sono don Milani, don Tonino Bello, Dossetti. Luigi Sturzo ha sdoganato i cattolici rispetto alla politica, ed è un suo merito storico. Resterà per questo. Come pure è profetico il suo municipalismo. Ma se io parlo a un giovane di Sturzo non vibra, vibra se gli parlo di Don Milani. O se parlo di Tonino Bello. La dimensione etica di Don Milani è ancora viva. Semplificando, Sturzo è il chiodo, non il quadro. Se mi chiedi di altre letture che hanno contato, ti dico che a dieci anni ho letto “Delitto e castigo” di Dostoevskij e, ovviamente, è stata una esperienza sconvolgente, che ha influito più di quanto abbia influito ogni altra lettura successiva. In generale, mi hanno sempre colpito i personaggi che hanno creato una rottura, da San Francesco a Nietzsche, a Einstein, a Bach. Persone, filosofi, scienziati, musicisti, artisti che hanno cambiato la nostra visione delle cose».

Tu sei un leader che nel tempo ha saputo imprimere al proprio percorso delle svolte spettacolari, uno che ha fatto polemiche che hanno segnato il nostro tempo, con personalità ben più consistenti di quella di Salvini, a parte la nota contrapposizione ad Andreotti, Craxi e Ciancimino, voglio ricordare quelle con Falcone e Sciascia. Non so cosa abbia offerto il tempo alla tua valutazione su quegli strappi. Sono certo che quelle con Falcone e Sciascia ti abbiano molto pesato e che ancora ti pesino. So che in questo hai anticipato un certo modo di fare politica. Ma, alla fine, per vocazione e carattere, in te ha sempre prevalso il rispetto della persona, ed è questo che ti fa messaggero di certe istanze umanitarie. L’impressione è che nel tempo tu abbia assunto tutte le tue contraddizioni e ne abbia fatto il perno del tuo essere un intellettuale che ha scelto di fare politica.
Racconto di una città
Palermo, capitale dell'accoglienza: la grande lezione della Sicilia a tutta l'Italia
2/1/2019
«Io faccio collezione di elefanti, secondo me è l’animale che riassume meglio il peso delle contraddizioni. È un animale incredibilmente grasso, ma è vegetariano. È grande ma scappa davanti a un topo. E ha anche una enorme capacità di memoria. È una contraddizione vivente. Anch’io mi sento contraddittorio. D’altronde, sono diviso a metà, da un lato c’è mio padre, e dunque il borghese dello studio e del dovere, dall’altro mia madre, cioè l’aristocratica della trasgressione e della fantasia. Io ho fatto di loro due una miscela esplosiva. Ho potuto fare quello che ho fatto perché ho trasformato i miei handicap in risorse. Lo stesso essere cattolico è diventata una risorsa nel mio essere trasgressivo. Mi piace ripetere che rendo meglio quando sono in difficoltà, quando c’è l’emergenza. Oggi di fronte alla globalizzazione, la categoria di destra e sinistra non è proponibile, rende meglio la divisione tra progressisti e conservatori, tra chi vuole cambiare la realtà e chi la vuole mantenere com’è. Dopo di che, ovviamente, ci sono conservatori di sinistra e progressisti di destra. Oggi in Italia governano due populismi, quello intollerante e conservatore di Salvini, quello progressista di Di Maio, ma sono entrambi due perversioni. Il problema è che gli altri sono inesistenti. Oggi con questa iniziativa, che è la prima vera forma di opposizione a questo governo, io ho dato un segnale a una eventuale leadership futura, ma non è detto che sia necessario trovare un capo. Il mio è un gesto di leadership etica. Io non sono un capo, e d’altronde in Italia abbiamo visto come finiscono i capi. I capi sono quelli che vivono nell’eterno presente delle dichiarazioni, il principio guida del populismo. Il loro motto è: ora cambierà tutto. Renzi, l’ultimo della catena, è finito per questo. Il populista considera ogni piccola vittoria un trionfo. È l’errore di chi pensa solo ai numeri, ai voti.
Quanto ai mei errori, ecco, poco fa, tra i nomi dei miei maestri ho dimenticato di citarti Sciascia. A questo proposito, ti racconto un fatto accaduto anni fa. Nel settembre dell’85 Sciascia riceve il premio Mondello, e Pippo Baudo mi chiama per consegnarglielo. Durante la cerimonia si rivolge al grande scrittore presentandomi come uno sul punto di scomparire, chiedendogli “lei, Maestro, a questo giovane sindaco cosa consiglierebbe?”, e Sciascia, appoggiandosi al bastone, con gli occhi semichiusi del saggio, rispose: “Gli consiglio di farsi opposizione da sé”. Posso dire che questa è stata una grande lezione e la chiave di lettura di tutta la mia vita. Vado ancora un po’ avanti per raccontarti la complessità di questa città: un sabato mattina, novembre 1989, una persona molto vicina a me, mi dice che l’ha chiamata Calogero Mannino per comunicargli che Leonardo Sciascia sta morendo e che ha pensato fosse opportuno che il sindaco della città lo sapesse. Io con Mannino non parlavo da dieci anni, questo lo racconto per dire qual è la stoffa del personaggio. I particolari, purtroppo, sono finiti in cronaca giudiziaria. Dunque, immediatamente, mando un biglietto a Sciascia che abitava a pochi passi da casa mia, a viale Scaduto, e la sera, quando torno a casa, mia moglie Milly mi dice che il professore ha chiamato e aspetta la mia visita l’indomani mattina alle dieci. Era una giornata di novembre, molto grigia, io suono alla porta e mi apre lo stesso Sciascia, vestito alla meno peggio, come uno che sta molto male, che si è alzato dal letto per stoica volontà di non apparire malato. Lui si siede sulla poltrona, in controluce, alla finestra, io invece ho di fronte la vista delle palme di Villa Sperlinga, stagliate nel grigio del cielo. Lui, subito, mi ringrazia della visita inaspettata. Io allora gli dico: “Maestro, la cronaca ci ha separato, ma lei è la Storia e anche la lingua italiana del nostro paese. Solo uno sciocco si mette contro la Storia e la lingua italiana”. E a quel punto Sciascia mi dice una cosa veramente forte: “Sono contento di incontrarla, perché lei è finito, sindaco, e anch’io sono finito”. E io, emozionato, gli rispondo: “So che sono finito, maestro. Ma non consentirò di finire senza che sia chiaro che qualcuno mi ha ucciso”. Dopo un mese, infatti, mi dimisi, e quel gesto portò alla crisi del 1990, e a tutto il caos che ne derivò. In quella circostanza, Sciascia mi rivelò anche com’era nato l’attacco ai professionisti dell’antimafia, e ho giurato di non dirlo mai a nessuno. Quando mi sono alzato per salutarlo, gli ho detto che la mia generazione aveva capito cos’erano la mafia e l’impostura leggendo i suoi libri - “Il Consiglio d’Egitto”, un capolavoro, mi ha fatto compagnia nel corso di una polmonite. Quando ormai ci eravamo lasciati, sul pianerottolo, mi sono ricordato che avrei voluto dirgli che mi aveva insegnato anche a farmi opposizione da me. Ho detto a uno dei miei agenti di scorta: “Ricordiamoci di tornare a trovare il professore domenica prossima”. Ma, purtroppo, quel giovedì Leonardo Sciascia è morto. Nel 1999, l’ultimo atto della mia sindacatura è stato intitolargli una strada. Io non ho mai parlato male di lui, solo degli sciasciani di borgata, quelli che hanno manipolato il suo messaggio a loro uso e consumo. Ma resta che per me un intellettuale ha il sacrosanto diritto di dire tutto quello che ritiene opportuno, anche le cose che sembrano inopportune. Mi ricordo che commentai quell’articolo sui professionisti dell’antimafia con Giovanni Falcone, in volo per Mosca. E vado dritto alla mia polemica con lui, se io dovessi tornare indietro, cambierei i toni con cui dissi quelle cose. Ma la sostanza resterebbe quella. Nel senso che, in quel momento, il mio dovere era quello di richiamare l’attenzione sulle responsabilità politiche, il suo quello di provvedere all’accertamento giuridico dei fatti. Su quella polemica c’è un illuminante post di Salvatore Borsellino: “Se io fossi stato Giovanni Falcone mi sarei comportato come Giovanni Falcone, se fossi stato Leoluca Orlando come Leoluca Orlando”. Io ho interpretato un ruolo politico che non può dipendere dalle prove. Ma ho sbagliato i toni».

È un fatto che quella vicenda ha rappresentato una lacerazione terribile per una generazione che era interessata a capire e a lottare contro la mafia.
«Figurati quanto sia stato dilaniante per me. Quanto abbia pesato l’equivoco a cui mi ero sottoposto. Io sopravvivo solo perché non domando scusa. Anzi, ti faccio una confessione. Dopo un mese di attacchi, dopo la morte di Francesca e Giovanni, una persona molto vicina a loro mi fece arrivare questo messaggio: sono dispiaciutissimo per le aggressioni che subisce Luca ma per il ruolo che rappresento non posso intervenire pubblicamente. Voglio però che Luca sappia che prima di morire Francesca ha votato per lui, non avrebbe mai votato per un nemico. Devo dire che mi è stato di consolazione».

Ora che sei esposto, i tuoi avversari cercano di denigrarti approfittando della spazzatura. Ecco, tu hai rimesso in moto il centro storico di Palermo, la sua ricostruzione e il suo restauro, hai lavorato per ridare a Palermo una forte identità culturale, ma non sei riuscito a liberare Palermo dall’immondizia. Vuoi spiegare agli italiani perché è così difficile amministrare le nostre scorie?
«Palermo non è una città europea, non lo è nella vita quotidiana, nel modo di vivere dei suoi cittadini. Il mio progetto è di fare di Palermo una città che mantenga le sue caratteristiche e abbia il wifi e il tram. Un progetto che sconfigga il senso di emarginazione dei quartieri periferici, e anche il loro degrado. Quindi bisogna liberarla dall’immondizia. C’è un concentrato di vizi intorno a questo problema, e l’azienda simbolo del degrado è proprio quella preposta alla raccolta dei rifiuti, l’Amia, non a caso fallita. Ci sono alle sue spalle reati come falso in bilancio, truffa, non perseguiti perché l’allora sindaco non sporse querela. Abbiamo dovuto ricominciare daccapo, mettendo in garanzia la nuova azienda, la Rap, che oggi non è più esposta al fallimento. E finalmente io sono in condizione di pretendere che Palermo sia più pulita. Dieci giorni fa ho comunicato ai miei dirigenti di aver dato disposizione all’amministratore unico di recedere dal contratto di chi non opera perché questo avvenga. Credo che le cose stiano cambiando. E vigilerò perché cambino».

Da scrittore e regista, ho sempre pensato che un politico vero lo si vede da come sa perdere. Dalla sua capacità di elaborare la sconfitta. Oggi, in giro c’è un’idea del politico invincibile, che si compiace del proprio comportamento disturbato, e in genere chi è così finisce la sua carriera ripetendo le stesse cose come un disco rotto, vedi Berlusconi o Renzi. In realtà, come ogni essere umano, anche il politico dovrebbe essere in grado di accettare i propri errori, o la propria debolezza. In questo senso, trovo grandioso il gesto di dimissioni di papa Ratzinger. Tu cosa ti rimproveri? E cosa vedi nel futuro dei nostri figli?
«Condivido perfettamente. La mia forza sono state le mie sconfitte. Le sconfitte sono salutari quando hai una visione, e quando hai rispetto del tempo. Berlusconi, Salvini, Renzi sono finiti quando sono diventati populisti e hanno cominciato a comportarsi da capi, li ha uccisi proprio il non aver rispetto del tempo. Detto questo mi rimprovero di avere dedicato tutte le mie energie solo a Palermo, con la presunzione di poter dialogare da qui col mondo. Penso che sia stato un errore, ma paradossalmente oggi ne colgo i frutti. Amministrare una città è un atto di umiltà. In Italia, la classe politica mi percepisce come uno che sostanzialmente è ingestibile. Nella opinione internazionale, invece, sono un riferimento etico. Questa doppia percezione è significativa. Per il futuro dell’Italia, la scommessa è che una leadership etica diventi un partito in grado di cambiare le cose. Ma oggi si rifiutano le organizzazioni partitiche. Non mi risulta che Salvini convochi riunioni di partito, o che lo facciano i Cinque stelle. Preferiscono parlare ai loro elettori con i social, fanno politica in diretta. Si illudono di fare comunità. Ma se non si fanno delle opportune correzioni, il web non fa comunità. Tutt’al più, fa gruppo. Invece occorre far ripartire la politica dal suo senso primario, dal dialogo con le persone, dal senso di comunità. Anche l’Europa, un malato terminale, può rinascere solo se riuscirà a diventare ciò che rappresenta un comune, quindi oltre a dotarsi di una visione, deve occuparsi della vita quotidiana delle persone, non del denaro».