Nel mondo in cui viviamo c’è sempre meno spazio per argomentazioni razionali e complesse. L’attimo è il criterio di verità. Così, da gradino più basso del sapere, sono diventate regine della conoscenza
Sono la parte più volatile, la più sensibile, le nostre antenne alzate sul mondo. Che stiamo educando, a scapito di tutto il resto, consapevolmente o inconsapevolmente. Questa è l’èra del primato delle emozioni. E non è soltanto questione di marketing o di pubblicità, da cui pure siamo accerchiati. Tutte le sfere del sapere hanno stabilito di combattere la battaglia sul campo in cui è più veloce vincerla, non facile, ma veloce. Del tempo lungo ormai si è persa traccia. I top manager e i governi giocano le loro partite sui prossimi tre mesi: questo è il nuovo tempo della cosmologia pubblica contemporanea.
Che sia sui social, sulla carta stampata, in tv o in radio, che sia su WhatsApp o su messenger: ogni informazione oggi viaggia utilizzando la propulsione atomica delle emozioni, non più quella dell’argomentazione razionale (più ardua da far arrivare, più lungimirante, ma più difficile poi da estirpare. Solo che in un mondo senza “poi” questo non conta). Tutto è giocato sulla pelle delle emozioni: si attivano immediatamente e restituiscono consenso simultaneo.
Ma cosa sono, le emozioni? Sono “moti dell’anima” autoevidenti come li chiamava Aristotele, stati psichici associati a modificazioni dello stato di cose, sia esso interno o esterno a noi. Stati psichici vividi, convincenti della loro verità per la forza della loro presenza. Le emozioni sono tanto più forti (rabbia, paura, disgusto, gioia, tristezza, sorpresa) quanto più potente è il loro detonatore. Tradizionalmente, le emozioni sono sempre state considerate il primo gradino della conoscenza: il più basso. Poi - attraverso un percorso di astrazione, la conoscenza si innalza alla ragione, e infine all’intelletto, e diviene coscienza sociale: la scienza dei libri di scuola. In quanto primo stadio della conoscenza (che abbiamo in comune con gli animali), sia nella tradizione occidentale che in quella orientale le emozioni erano considerate fallaci. Per il buddismo, addirittura ostacoli da rimuovere per raggiungere la piena conoscenza di sé: ingannevoli, istantanee risposte a un forte evento (interiore o esterno), che si è presentato in un modo ma avrebbe potuto presentarsi altrimenti, o non presentarsi affatto, e dunque macigni (esempio: la morte di una persona vicina potrebbe portarci a credere che la vita in sé non abbia senso, e quindi a volercela togliere, sbagliando). Per la filosofia occidentale, invece, le emozioni sono false, e per il medesimo motivo: non hanno (ancora) subìto il vaglio della ragione.
Qualcosa che ora ci appare vero (poiché ci ha colto con la forza di un’emozione), potrebbe in seguito rivelarsi falso, o falsissimo (il limone la prima volta che si assaggia è disgustoso perché amarissimo, e invece fa bene alla salute; l’eccesso di zucchero, molto piacevole, al contrario fa male). Fu solo all’inizio del Novecento - con Husserl - che l’emozione venne riabilitata, e ne fu sottolineata l’importanza al fine della conoscenza del mondo (Husserl ne parla la prima volta in “Idee I” e “Idee II”). Finché, poco più di vent’anni fa, non si giunse alla teoria dell’“intelligenza emotiva” di Salovey e Mayer, che aprirono la strada alla rivincita delle emozioni come chiave per interpretare il mondo. Con un cambiamento di senso: non più con pretesa di oggettività. Al contrario: il mondo è visto come oggetto della mia motivazione personale. Il libro di Goleman, che porta proprio questo titolo (“Intelligenza emotiva”, 2011) si presentò infatti come un manuale di self-motivation.
Da reietta, l’emozione è diventata regina della conoscenza. Oggi il discorso pubblico non punta più sul dispiegamento di un ragionamento articolato. Nessuno punta più sulla durata, ma sull’emozione-presente: luce, timbro, registro, colore, dimensione. Una ricerca della Stanford University ha mostrato che per l’82 per cento dei ragazzi il parametro per l’attendibilità di una notizia è la dimensione della foto che l’accompagna. Una ricerca di Save the Children segnala che il 40 per cento, tra adulti e ragazzi, considera che qualsiasi notizia (che sia politica, scienza o salute) è tanto più attendibile quante più condivisioni ha. Ma se viene a mancare il tempo necessario a dispiegare un ragionamento, veniamo a cambiare noi. Più siamo bersagliati da stimoli “emotivi”, da pillole di emozioni, più perdiamo la capacità di pensare. Un’infinita serie di soddisfazioni immediate (anche se di minor intensità) annulla la necessità di una soddisfazione più profonda, ma unica. E proprio poiché pensare richiede uno sforzo (e quindi, dopo, concede un piacere maggiore), e l’emozione no, lasciamo che il nostro arbitrio si faccia “solleticare” dalle emozioni, che non costano niente e agiscono da droga: ne vogliamo sempre di più, sempre più forti, a patto che siano brevissime. Secondo quanto raccontato da De Rita e Galdo in “Prigionieri del presente” (Einaudi, 2018) dal Duemila a oggi abbiamo ridotto a 8 secondi il massimo della soglia di attenzione a uno stimolo, meno dei pesci rossi.
L’emozione presente, ciò che io provo adesso e qui, è il mio unico criterio di verità. La mia signora e unica padrona, a cui sono pronto a cedere tutto, purché venga continuamente solleticata, e mi faccia sentire vivo: a lei posso cedere sovranità, pensiero, tutele, sicurezza. La storia non è più lineare, il tempo non è più scandito in ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà, ma è un continuo è, è, è. Il tempo non è più tempo perché non c’è più niente in relazione a cui cambia: il tempo è solo un’infinita successione di attimi presenti e slegati, in cui viene a mancare un’evoluzione. La rappresentazione di questo continuo presente-emotivo è la timeline di un social network: un tramonto dai colori brillanti, una frase di Neruda su sfondo bianco, una news di guerra dalla Siria, uno stralcio di un video di Ed Sheeran, la foto di un vecchio compagno di classe imbolsito in spiaggia, il ministro degli Interni travestito da pompiere che manda bacini. Dove sono io, mentre scorro e dopo avere scorso? Sono, sono, sono. È, è, è. Il tempo è una continua copula (è) senza amore. L’emozione così intesa, infatti, è l’opposto dell’amore per come lo vede Lacan e per come lo racconta Recalcati in “Mantieni il bacio” (Feltrinelli, 2019). L’amore è, per Lacan, «incontro con un amur, qualcosa che resiste nella sua alterità, come un muro, un amuro». La continua copula emotiva serba al contrario più l’immagine dell’amore che ne aveva Freud: un accecamento, una maschera di se stessi («amo di te il mio Io ideale»). Non è amore, ma sembra tale. A ben vedere, della copula, questo accecamento mantiene l’esito finale: è onanismo, autocompiacimento ripetuto.
Ci sono due romanzi e un film recenti che, per opposti versi, mettono in scena questo spalancamento dell’emozione come unico orizzonte possibile. Uno dei romanzi è “Fedeltà” di Marco Missiroli (Einaudi, 2019), dove i due sposi protagonisti non fanno che mancarsi pur stando assieme, accecati dalla coazione a ripetere del proprio smarrito autocompiacimento: convivono senza forse mai incontrarsi davvero, ognuno chiuso dentro il suo Io. L’altro, opposto per tema, ma simile nell’ostinazione a sostare dentro una sola emozione, è un romanzo che con durezza e insieme struggimento racconta l’abbandono: “Addio fantasmi” di Nadia Terranova (Einaudi, 2018).
Il film, invece, è “Cold war” di Pawel Pawlikowki, ed è un lungo, ininterrotto, innamoramento, che dura decenni: il mondo attorno ai protagonisti cambia di continuo, loro non sembrano accorgersene; vivono, in un montaggio forsennato, la loro emozione dentro un eterno presente. Il montaggio è appunto forsennato, le scene si susseguono rapide e brevi perché mimano il nuovo ritmo della vita, il suo nuovo respiro sincopato ed emotivo. L’essere bombardati da emozioni - sui social network, in tv, alla radio, sui giornali, sulle pubblicità - ha come contraccolpo quello di essere sempre in astinenza da nuove emozioni. Guardiamo gli smartphone nell’astinenza da un nuovo messaggio, la timeline nell’astinenza dal numerino dei like totalizzati. Il primato dell’emozione presente ha rimosso l’attesa a favore dell’astinenza. Ma è soltanto nell’attesa, vista come tempo sprecato e quindi aberrazione del tempo; è solo nella noia, nelle pause della giornata, nello sforzo dell’immaginazione, che si crea lo spazio necessario al desiderio, che letteralmente è la distanza che ci separa dalle stelle, la distanza che ci dà il coraggio di colmarla e diventare stelle.
È solo dentro l’attesa che ricordiamo la risposta alla domanda su chi siamo. È soltanto quando attendiamo qualcosa o qualcuno (la nostra amata a un appuntamento, la soluzione meditata a un problema, l’estro creativo) che siamo qualcuno.