Così la guerra dei dazi tra Usa e Cina danneggia anche le nostre imprese

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Alimentare, made in Italy, meccanica.  Un export di altissima qualità che è riuscito a superare la crisi. Ma ora rischia di finire schiacciato dai contendenti

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Tremano i distillatori di Marsala e di Prosecco, s’intimidiscono gli esportatori dei bikini fantasiosi e delle felpe colorate Made in Italy, si fanno i conti in tasca i produttori specializzati del Nord Italia in raffinati coltelli da tavola o pregiate lenti per le telecamere di sicurezza. Soprattutto, si chiedono cosa c’entrino con gli aerei dell’Airbus. Ma la guerra è guerra, sia pure commerciale. E i danni collaterali sono indiscriminati. I settori appena elencati fanno parte di una minuziosa lista di centinaia di voci elencate con maniacale precisione dall’Office of the United States Trade Representative: si va dalla “carta per decalcomanie in rotoli larghi più di 36 centimetri” (codice 4809.90) fino appunto al “Marsala wine di gradazione superiore al 14% in contenitori di non oltre due litri”, matricola 2204.21. I dazi americani si applicheranno su tutti questi prodotti “fabbricati in qualsiasi Paese dell’Unione europea”.

Il “Federal register” che li contiene, disponibile su Internet, reca la data del 12 aprile 2019 ed è stato pubblicato in occasione dell’annuncio dell’amministrazione Trump di voler procedere con dazi punitivi fino al valore di 11 miliardi di dollari in risposta ai presunti aiuti di Stato elargiti al costruttore di aerei. L’Airbus è una joint-venture franco-tedesca-spagnola, l’Italia partecipa con una piccola quota di forniture (della Leonardo, l’ex Finmeccanica), diversi Paesi europei sono totalmente estranei. Non importa. L’Europa, come se non bastassero i guai che attraversa, e senza neanche accorgersene, è finita nel tritacarne della “trade war” proclamata da Trump, che già ha portato nel 2018 gli Stati Uniti ad imporre dazi su 283 miliardi di dollari di importazioni, come ricorda il Fondo Monetario in una nota in cui definisce quella in corso «la prima crisi commerciale su larga scala dagli anni ’30». La cifra verrà probabilmente aumentata nel corso di quest’anno. «Poco conta l’irrazionalità di questi provvedimenti», commenta Paolo Guerrieri, economista internazionale della Sapienza con un insegnamento anche all’Università di San Diego, in California. «Oltretutto gli europei hanno già eccepito che il concorrente americano Boeing gode di sussidi enormemente superiori se non altro per tutte le forniture militari al Pentagono».

Ma questo è ancora niente in confronto alla minaccia sul settore auto: il 24 maggio Washington ha accordato una tregua di sei mesi per l’applicazione di dazi del 25% sulle macchine europee d’importazione, che doveva scattare stando ai preannunci il giorno dopo. L’accusa è di applicare sulle auto americane in vendita in Europa una tariffa del 10-12 e fino al 20 per cento, e la risposta anche qui è stata immediata: sui Suv europei venduti in America la tariffa è già del 25%. Ma nulla è valso perché Washington abbassasse le armi, e tanta è la paura che i colossi tedeschi come la Volkswagen, già fiaccata dallo scandalo Dieselgate (nato peraltro in America) oltre che da un calo delle immatricolazioni europee, hanno rivisto al ribasso conti e produzione per quest’anno con conseguenze dirette sui tanti fornitori italiani di componenti: dalla Brembo di Alberto Bombassei di Bergamo alla Psc (Prima Sole Components) di Maurizio Stirpe di Frosinone, entrambe con stabilimenti in tutto il mondo. «L’Italia ha un campo di eccellenze assai più vasto di quelle che comunemente si crede, la moda o il cibo, e queste risiedono nella meccanica di precisione, nei semilavorati di alta gamma, nelle apparecchiature per le fabbriche», spiega Rafael Di Tella, economista di Harvard, in Italia per il Festival dell’Economia di Trento.

«Un insieme pregiatissimo di export, che in forza della sua qualità resiste alla competizione globale e ha tenuto incredibilmente bene all’ultima crisi, ma che ora rischia di venir devastato da queste insensate rappresaglie». Le guerre commerciali sono come un incendio che quando divampa diventa incontrollabile, conferma Andrea Montanino, capo economista della Confindustria. Che ci mostra con preoccupazione un documento appena sfornato dal Department of Treasury in cui a sorpresa fra gli otto Paesi da osservare con attenzione dal punto di vista commerciale, rispetto ai quali, si legge nel report «c’è un ampio e sproporzionato deficit commerciale americano», appare anche l’Italia a fianco delle scontate presenze di Cina, Germania, Giappone, Corea del Sud. Con una nota da far tremare le vene ai polsi: «L’Italia ha avuto un deficit di bilancio pari al 2,5 per cento del Pil eppure il suo surplus verso gli Usa è arrivato a 32 miliardi nel 2018». Come dire, c’è qualcosa che non torna. «È la prima volta», dice Montanino, «che il nostro Paese figura in quest’elenco di sorvegliati speciali. Quando venne inserita la Cina, fu il preludio allo scatenarsi della guerra commerciale».

TUTTO INIZIÒ CON LE LAVATRICI
Già, la Cina. Tutto è partito da lì. Era il 23 gennaio 2018 quando l’amministrazione Usa introdusse i primi dazi sulle importazioni di lavatrici e pannelli solari, seguiti un mese dopo da quelli sull’alluminio e sull’acciaio. «Sebbene fossero diretti a tutto il mondo, la maggior parte delle importazioni americane di quei prodotti era cinese e si capì subito quale fosse il bersaglio di tanta bellicosità», spiega Alessandro Terzulli, capo economista della Sace, l’azienda per il sostegno all’export del gruppo Cdp. È seguita un’escalation di misure e contromisure. Alcune operative, altre minacciate con scadenze ravvicinate. Le ultime tappe sono state l’avvio dei dazi su 200 miliardi di importazioni cinesi in America del 10 maggio e quello di ritorsioni analoghe su 60 miliardi di merci americane in vigore dal 1° giugno. «Oggi si può dire che la totalità degli oltre 500 miliardi di import americano dalla Cina e dei 120 miliardi di export americano verso Pechino siano parte in causa di questa battaglia». La Sace ha elaborato un rapporto con le simulazioni delle conseguenze delle “trade war” sull’economia mondiale. Il rallentamento dell’interscambio globale è già una realtà, si legge nel report, e porterà nel 2019 il commercio a crescere nel complesso del 2,5% contro il 4,8% nel 2018. Per il 2020 sarebbe previsto un ritorno a una crescita del 3,6% ma se dovessero essere implementati tutti i dazi previsti si scenderà di nuovo al 2,9%. «Per l’Italia, Paese a fortissima vocazione esportatrice - chiarisce Terzulli - le conseguenze sarebbero ancora più marcate: dal 4% di miglioramento dell’export previsto per il 2020 si scenderebbe di colpo al 3,4%».

TENSIONE GLOBALE
Si è creato un clima di tensione globale «che oltre ai danni diretti, paralizza le trattative in corso per una serie di accordi commerciali che invece darebbero una spinta straordinaria al nostro commercio estero», commenta Luigi Scordamaglia, numero uno di Filiera Italia, associazione che riunisce la Coldiretti e cinquanta brand dell’agroalimentare. «Si sono bloccate all’ultimo momento ad esempio le trattative per il trattato di libero scambio Europa-Usa, il “Ttip” (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Invece per noi italiani sarebbe cruciale perché, oltre alla liberalizzazione dei commerci, potrebbe regolare una volta per tutte la questione delle denominazioni di origine». Oggi si vendono in America con la massima libertà il Pekorino con l’immagine delle campagne romane o il Parma Ham con la Certosa di Parma sull’etichetta: «Ai 4,2 miliardi di export regolare», dice Scordamaglia, «se ne aggiungono 24 dovuti all’italian sounding, l’evocazione di italianità contenuta nelle confezioni. Il trattato dovrebbe vietarle, ma è naufragato sugli scogli delle guerre commerciali e chissà quando potranno riprendere i negoziati». Che su questi problemi possa intervenire il Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, sembra da escludere: «Gli Stati Uniti su questi problemi esplicitano tutta la loro idiosincrasia per le alleanze internazionali: non aderiscono alle disposizioni del Wto», puntualizza Claudio Dordi, economista della Bocconi e della voce.info, «e ora hanno anche bloccato il rinnovo delle nomine quadriennali del comitato esecutivo paralizzandone l’attività».

NESSUN VINCITORE
Ma la guerra dei dazi potrebbe avere sul nostro Paese conseguenze ancora più complesse. Persino nel caso di una conclusione favorevole, a dimostrazione che da una guerra nessuno esce mai vero vincitore. «Paradossalmente, se ora Usa e Cina firmeranno un accordo nel senso voluto da Trump, con una maggior esportazione dall’America verso Pechino a condizioni favorevoli, mettiamo per 200 miliardi di dollari l’anno per sei anni, i fornitori del Dragone risulteranno spiazzati», spiega Brunello Rosa, economista della London School of Economics. «La Cina dovrà privilegiare l’import americano, a detrimento degli acquisti da altri Paesi. E così come compreranno la soia americana lasciando a secco i coltivatori argentini, dall’Italia potrebbero ridurre l’acquisto di macchinari per l’automazione industriale, una delle eccellenze del nostro export particolarmente verso Paesi alle prese con una massiccia transizione manifatturiera. Cina in primis, ovviamente».

È uno scenario verosimile che si accompagna a uno in atto: «Gli effetti della guerra commerciale sono già fra di noi, e derivano dalla balcanizzazione in atto delle catene del valore globale», aggiunge Rosa. «Pensiamo per esempio all’ostracismo dichiarato da Trump a Huawei». Il gruppo cinese ha importanti attività industriali e di ricerca in Italia e diverse partnership sulla tecnologia 5G (per la quale i provider italiani hanno pagato oltre 8 miliardi in licenze), che ora non è chiaro se potranno continuare ad operare. Le esperienze delle precedenti competizioni commerciali sono frustranti, dal caso dell’Iran a quello della Russia, sottoposti dagli americani a embarghi e sanzioni, comminate unilateralmente ma con pesanti conseguenze sui partner a partire dalle industrie italiane che in quei Paesi vendono e lavorano: dai fornitori di frutta a Mosca a quelli di componenti per l’industria petrolifera a Teheran. Il tutto perché gli americani non rinunciano al ruolo-guida dell’Occidente.

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