Alla fine degli anni Ottanta il divario fra paesi ricchi e poveri era enorme. Oggi la povertà mondale è diminuita a livelli mai raggiunti prima. Ma la classe media, dagli Stati Uniti all'Italia ne esce impoverita. Con un dato comune: la situazione migliora per gli anziani, peggiora per i giovani

Dall’anniversario del G8 di Genova del 2001 fino alla diffusione dei populismi di ogni tipo e colore, di motivi per cercare di capire cosa ne è stato della globalizzazione ce ne sono parecchi. Esiste un filo che lega lo sviluppo economico degli ultimi decenni alla questione della disuguaglianza del reddito – e che forse può spiegare persino parte del successo dei Trump e delle Le Pen; dei Grillo e dei Salvini di tutto il mondo.

Per capire se l’idea ha senso o meno conviene fare un passo indietro. Grazie ai dati compilati da Branko Milanovic e analizzati dall’economista Max Roser – fra i principali studiosi mondiali della disuguaglianza – intanto possiamo cercare di capire come stavano le cose alla fine degli anni ‘80: prima che la globalizzazione sviluppasse i suoi effetti più dirompenti. Era un mondo bipolare, con un divario enorme fra paesi ricchi e poveri. Europa, Stati Uniti e Giappone erano già sviluppati, ma centinaia di milioni di persone in Africa e Asia continuavano a vivere – letteralmente – nella fame.

Da allora le cose sono cambiate molto. Un quarto di secolo più tardi buona parte dell’oriente è cresciuto a velocità sorprendente così che – in Cina ma non solo – la povertà è diminuita a livelli mai raggiunti prima in tutta la plurimillenaria storia del paese. Oggi basta fare un giro fra le strade di Pechino per trovare persone con un tenore di vita non troppo diverso da quella di Roma. Certo nelle campagne le condizioni sono peggiori, ma è difficile negare gli enormi progressi materiali – opposti al grande balzo in avanti di Mao che solo pochi decenni prima aveva portato a decine di milioni di morti per fame.

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D’altra parte che in Asia molti stiano meglio non significa che siano tutti diventati ricchi d’un colpo. Mettiamo le cose in prospettiva: per quanto il tenore di vita sia parecchio più elevato anche solo rispetto a vent’anni fa, secondo le ricerche del progetto Maddison tutto sommato i cinesi sono ancora leggermente più poveri rispetto agli italiani del centro-nord di fine anni ‘60; leggermente più rispetto agli spagnoli nello stesso periodo di tempo.

Da allora, s’intende, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia e confronti storici di questo tipo vanno sempre fatti con prudenza. Ci sono tantissime altre differenze culturali, storiche e politiche, ma comunque abbiamo un’idea di massima: come l’Italia ha attraversato il proprio boom economico anche la Cina ha avuto il suo.

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Poi però il viaggio della globalizzazione ci riporta indietro in occidente: nelle fabbriche, nelle industrie e in molti luoghi dove lavora la classe media, dagli Stati Uniti alla stessa Italia. Già dai tempi della rivoluzione industriale è rarissimo – forse impossibile – che un cambiamento economico di queste proporzioni porti solo vantaggi per tutti. Come i guidatori di carrozze resi obsoleti dai tantissimi che cominciarono a comprare automobili, a cercare troviamo anche chi dalla globalizzazione ci ha perso – o quanto meno è rimasto al punto di partenza.

Immaginiamo di dividere tutte le persone del mondo a seconda del loro reddito. A sinistra i più poveri – il 5% del pianeta che guadagna meno, parte del quale si trova in Africa –, al centro chi si trova nella media globale, a destra chi vive nei ricchi paesi sviluppati. Dove sono andati in misura maggiore, fra queste persone, i benefici della globalizzazione? Per chi è aumentato di più il reddito rispetto al passato? Le ricerche di Milanovic mostrano che dal 1988 al 2011 a raddoppiare – e più – il proprio reddito è stata proprio la classe media mondiale, composta in larga parte da cinesi. Eppure allo stesso tempo è rimasta al palo la parte meno abbiente dei paesi sviluppati: Stati Uniti e Italia compresi.

Le conseguenze principali sono due: innanzi tutto la disuguaglianza di reddito a livello globale si è ridotta, perché da allora i paesi ricchi sono diventati un po’ più ricchi ma quelli poveri ora sono molto meno poveri di un tempo. Poi all’interno di molte nazioni sviluppate è aumentato il divario fra chi ha un reddito elevato chi invece un salario modesto.

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Una possibile ragione è che molte di queste ultime persone lavoravano per produrre beni che, nel tempo, è diventato più conveniente comprare dalla Cina – dove stipendi e costi sono minori, il che abbassa il prezzo dei prodotti e li rende appetibili per i consumatori. L’effetto collaterale è una perdita di posti di lavoro nella manifattura e settori collegati, il che è un problema per paesi che si basano in buona parte su di essa: proprio come il nostro, in effetti. Esempio è il tessile italiano, che si è praticamente disintegrato per trasferirsi proprio in Asia, tanto che dagli anni ‘80 – secondo analisi dell’Isfol – i posti di lavoro sono calati per centinaia di migliaia.

Una parte significativa dell’economia, in Italia come altrove, è rimasta spiazzata da questo enorme cambiamento e non ha potuto o non è riuscita a rinnovarsi. Schiacciata dalla pressione competitiva ha portato a salari stagnanti invece che allo spostamento verso settori nuovi, come invece sarebbe stato auspicabile. E proprio in questo gruppo di persone potrebbe stare la chiave per capire la nascita prima, il successo poi dei populisti d’occidente: la parte perdente della globalizzazione.

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D’altronde anche l’identikit del principale partito populista italiano – il Movimento 5 Stelle – sembra confermarlo. Secondo un sondaggio realizzato dal Centro Italiano Studi Elettorali, il Movimento 5 Stelle è certo trasversale, ma resta primo fra giovani, operai e disoccupati; e alla pari con il PD fra gli studenti. Il partito di Renzi, al contrario, risulta di gran lunga il preferito fra pensionati e per chi guadagna più di 50mila euro l’anno. Allo stesso tempo, un’analisi che cercava affinità tra gli elettorati dei partiti ha trovato che una fetta rilevante degli elettori del Movimento potrebbe in alternativa votare Lega e – anche se in misura minore – viceversa. Il che forse non sorprende troppo, considerate alcune convergenze su temi come l’economia, i rapporti con l’Europa, e talvolta persino l’immigrazione.

Per capire meglio le differenze, la cosa migliore è confrontare gli elettori del Movimento e quelli del PD. La parte composta da disoccupati certo non rappresenta persone affezionate allo status quo: anzi chi è senza lavoro costituisce senz’altro il segmento più povero del paese. Ma è interessante guardare la questione anche dal punto di vista generazionale: il divario fra chi ha appena trovato un lavoro oppure ce l’ha da qualche tempo ma è soffocato dalle tasse – che tende più spesso a votare il Movimento – e chi invece è ormai in pensione o gode comunque di una certa stabilità – che preferisce di gran lunga il PD.

Una linea di demarcazione fondamentale, perché lungo essa negli anni si è spostata una quantità enorme di ricchezza dai più giovani ai più anziani. Lo mostrano tra l’altro le ricerche della Banca d’Italia, secondo cui la fetta di reddito guadagnata dai giovani non fa che calare da anni – anche ben da prima della crisi economica – mentre quella delle generazioni più anziane regge quando addirittura non aumenta, protetta soprattutto dal sistema pensionistico.

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Questo però non significa che la globalizzazione sia ovunque la causa di tutti i problemi recenti – economici e politici – dei paesi sviluppati. Intanto perché questioni così complesse raramente hanno una sola radice. Neppure in Italia la globalizzazione può essere l’alibi per tutto ciò che non funziona. Essa – con la crisi economica – si è sommata a una serie di problemi strutturali irrisolti da decenni. Al di là dei fattori esterni sui quali abbiamo un controllo limitato, sono forse proprio questi problemi interni a spiegare come mai da tempo cresciamo meno degli altri, subiamo di più il peso della recessione e ne usciamo a fatica. A un quadro già così problematico si aggiunge poi la questione immigrazione, che al di là degli effetti reali oggi viene percepita dagli europei come primo motivo di preoccupazione. Una tempesta perfetta come non se ne vedevano da decenni, e che forse spiega molto del gramo quadro politico che vediamo.

Ma per quanto pesante, questo è solo uno dei piatti della bilancia. È naturale che come occidentali ci preoccupiamo di quello che succede nel nostro giardino, ma per capire gli effetti di un cambiamento tanto ampio non possiamo considerare solo quello che non ha funzionato per alcuni di noi: tocca tenere in conto anche le centinaia di milioni di persone nel resto del pianeta per le quali – com’è stato a suo tempo per i nostri genitori o i nostri nonni – le cose hanno appena cominciato ad andare un po’ meglio.