
In gioco c’è uno dei provvedimenti bandiera del Movimento grillino, norme approvate dal Parlamento il 7 agosto scorso, in vigore dal novembre successivo. All’epoca, il neo ministro Luigi Di Maio festeggiò la prima legge sul lavoro che, parole sue, «dopo decine di anni non sia stata scritta da potentati economici e lobby». Per dissinnescare la riforma, però, non c’è stato bisogno dell’intervento dei famigerati poteri forti. È stato l’impatto con la realtà dei fatti a circoscrivere e depotenziare gli effetti del decreto dignità.
Per raccontare che cosa è successo si può partire proprio dalla vicenda più recente, quella che è finita sui giornali solo pochi giorni fa. La Lega, come detto, vorrebbe estendere i casi in cui il contratto a termine, scaduti i primi 12 mesi, può essere rinnovato. Il decreto dignità, infatti, specifica e restringe di molto le motivazioni di una eventuale proroga del rapporto di lavoro a tempo, rendendola nei fatti molto difficile. In base alla proposta leghista, invece, anche la contrattazione collettiva, cioè tra imprenditori e sindacati, può individuare causali diverse per il rinnovo del contratto, oltre a quelle fissate dalla legge. In altre parole, il decreto varato l’anno scorso verrebbe in questo modo aggirato.
In realtà, come è stato segnalato da diversi commentatori, già da mesi le aziende fanno massiccio ricorso ai cosiddetti “contratti di prossimità” previsti da una legge del 2011, ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi. Questa norma consente, sulla base di specifiche intese con i sindacati, di prolungare senza causali la durata dei rapporti anche oltre i 12 mesi.
Morale della storia: prima ancora della riforma proposta dalle Lega, le norme del decreto dignità che riguardano gli impieghi a termine sono rimaste in buona parte lettera morta. Le imprese hanno fin da subito trovato il modo di neutralizzare gli effetti delle nuove regole introdotte dal sedicente governo del cambiamento. E così, il provvedimento che secondo i proclami del ministro Di Maio avrebbe dovuto eliminare l’abuso dei contratti a tempo determinato si è rivelato una diga piena di falle.
Lo scopo dichiarato della legge era anche quello di aumentare il numero degli impieghi stabili in un mercato da anni in crescita soltanto grazie al doping del Jobs Act, che aveva moltiplicato gli incentivi per il lavoro a termine. Le riforme targate Matteo Renzi sono state quindi smantellate in gran fretta, ma a quasi un anno di distanza dalla svolta gialloverde le statistiche non danno ancora ragione al governo in carica.
I dati più recenti segnalano che l’occupazione è in lieve, lievissima crescita e che anche la quota dei contratti a tempo indeterminato è aumentata. Ci sono altri numeri, però, che dipingono un quadro diverso e meno rassicurante. Andiamo con ordine e partiamo dall’ultimo rapporto dell’Istat, pubblicato giovedì 13 giugno.
Nei primi tre mesi dell’anno, secondo quanto si legge nel comunicato ufficiale, il mercato del lavoro ha fatto segnare un minimo rialzo. Poca cosa davvero: gli occupati rappresentano lo 0,1 per cento in più rispetto a quelli registrati nell’ultimo trimestre del 2018.
Scomponendo questo dato si scopre che i contratti stabili sono aumentati dello 0,3 per cento, che corrisponde a 47 mila nuovi posti di lavoro. I contratti a termine sono invece diminuiti dell’1 per cento. I numeri sono positivi anche se si confronta il dato di quest’anno con quello del primo trimestre del 2018, l’ultimo del governo di Paolo Gentiloni: nell’arco di dodici mesi gli occupati a tempo indeterminato hanno fatto segnare un incremento di 25 mila unità.
Siamo sulla strada giusta, quindi. Calano i posti di lavoro a tempo determinato, mentre aumentano quelli stabili. E anche la disoccupazione, pur restando su livelli molto più elevati rispetto alla media dell’Unione europea, è passata dal 10,6 per cento dell’ultimo trimestre dell’anno scorso al 10,4 per cento rilevato nei primi tre mesi del 2019.
Non è granché, certo, ma il dato viene comunque interpretato come un segnale confortante dopo che il 2018 si era chiuso con un lieve aumento dei senza lavoro, interrompendo una lunga serie positiva. È l’effetto del decreto dignità, esultano i Cinque stelle. Tanto entusiasmo sembra però quantomeno prematuro alla luce di un’analisi appena più approfondita.
Intanto, secondo le rilevazioni dell’Istat, ad aprile, ultimo aggiornamento disponibile, il calo della disoccupazione ha segnato un nuovo stop. E poi, come ha rilevato nei giorni scorsi Francesco Seghezzi della Fondazione Adapt, un centro studi sul mercato del lavoro, merita un supplemento d’istruttoria anche l’incremento di 25 mila occupati stabili registrato a fine marzo rispetto a dodici mesi prima. Questo dato infatti non è altro che il frutto di un aumento dei contratti part time, circa 80 mila nell’arco di un anno, a cui però si contrappone il calo, meno 55 mila posti, degli impieghi a tempo pieno.
Quindi è vero, c’è più lavoro, ma di qualità inferiore, meno pagato. Cala il full time e aumentano i lavoretti da mezza giornata. Meglio così rispetto al nulla, ovvio. Questa però non è certo la svolta descritta da Di Maio quando vanta i successi del decreto dignità.
La propaganda di governo trova pochi appigli anche nei dati che descrivono l’andamento dei salari. La relazione annuale di Banca d’Italia, pubblicata a fine maggio, segnala che la tendenza all’aumento delle retribuzioni, che aveva preso velocità nel corso del 2017 e del 2018, ha fatto segnare un brusco stop tra gennaio e marzo. Tradotto in numeri, significa che l’incremento dell’1,5 per cento registrato l’anno scorso rispetto a dodici mesi prima si è tramutato in un modesto 0,3 per cento nel primo trimestre del 2019.
Come si spiega quest’ultimo dato? Secondo l’analisi di Bankitalia, la frenata è da attribuire al «peggioramento delle condizioni cicliche». In altre parole, già nel secondo semestre del 2018, la crescita economica ha perso slancio a livello globale. E l’Italia, che già procedeva a ritmo ben più ridotto rispetto, per esempio, ai maggiori Paesi dell’Unione europea, ha dovuto fare i conti con un rallentamento ancora più marcato.
Se il motore dell’economia perde colpi, anche le retribuzioni si adeguano in fretta al nuovo clima. In questo caso, ovviamente le brutte notizie non dipendono dalle scelte del governo di Roma. È vero però che ancora poche settimane fa, quando il cambio di rotta era già evidente, il premier Giuseppe Conte annunciava un 2019 «bellissimo». E invece tutto lascia pensare che nei prossimi mesi la situazione potrebbe ancora peggiorare. L’ultimo segnale, il più allarmante, in questa direzione arriva dalle statistiche più recenti sulla produzione industriale che ad aprile ha fatto segnare una diminuzione dello 0,7 per cento rispetto al mese precedente. Se poi si confronta il nuovo dato con quello di un anno fa, la frenata è ancora più evidente: il calo certificato dall’Istat è infatti pari all’1,5 per cento.
A questo punto, anche ai più ottimisti tra i sostenitori dell’esecutivo gialloverde riesce difficile immaginare che l’economia italiana sarà in grado di moltiplicare i posti di lavoro nei prossimi mesi. Non c’è decreto dignità che tenga. Senza crescita l’occupazione non aumenta. E le previsioni più accreditate descrivono un Pil che nel 2019 aumenterà al massimo dello 0,3 per cento.
Non c’è quindi nessun anno «bellissimo» all’orizzonte, per dirla con Conte. E neppure l’Italia si è lasciata alle spalle il rischio di una recessione, come invece aveva precipitosamente diagnosticato Di Maio il mese scorso. Tutt’altro: se anche nel futuro prossimo il nostro export, che ha fin qui tenuto a galla il Pil, dovesse confermare le recenti difficoltà, le probabilità di ingranare la marcia indietro sono molto elevate.
Di solito passano mesi prima che le variazioni del ciclo economico facciano sentire i loro effetti sull’occupazione.La seconda metà dell’anno sarà quindi decisiva per capire in quale direzione si muoverà il mercato del lavoro.
Al momento tra gli analisti prevale il pessimismo. E semmai ci fosse bisogno di un’ulteriore conferma alle previsioni negative, nei giorni scorsi sono stati pubblicati dall’Istat anche i dati sulla spesa delle famiglie. Dopo quattro anni di crescita ininterrotta, per la prima volta le statistiche segnalano nel 2018 un calo di quasi un punto percentuale, lo 0,9 per la precisione.
Del resto se il Paese cammina sul filo della recessione e l’orizzonte resta ingombro di nubi, non c’è da sorprendersi se l’italiano medio rinvia gli acquisti a tempi migliori. Per convincerlo a spendere non basta certo la propaganda governativa sulla crescita prossima ventura. E neppure le polemiche sui danni provocati da «quelli che c’erano prima».