Sesso con alieni. Fantasie ecologiste. Cyborg e sirene. Una scrittrice coglie la sfida di scrivere il piacere. Tra corpi mutanti. E prospettive queer

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Nell’ultimo anno mi hanno invitato a parlare come relatrice in vari panel che ruotavano intorno al concetto di “desiderio”. Non è un concetto nuovo, ma nemmeno così abusato come altre parole-chiave amate dagli organizzatori di panel. Nella sua raccolta di saggi “Feel Free”, edito da minimum fax, Zadie Smith scrive che “creatività” e “identità” sono vocaboli di cui dobbiamo sentire un autentico bisogno, «vista la frequenza con cui li usiamo, eppure ormai si sono consumati, come un vecchio paio di scarpe che lasciano entrare più di quello che tengono fuori». In parte, anche la parola “desiderio” ha una natura permeabile e fagocitante, resta però aperta un’altra questione: perché siamo tornati ad avere questo bisogno di definire che cos’è il desiderio, al di là della nostra capacità di saperlo fare?

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21/6/2019
Un esempio: il tema di quest’anno del Bookpride, il festival di editoria indipendente di Milano, era proprio “Ogni desiderio”. In un momento storico in cui viene richiesto agli scrittori e agli intellettuali di tornare a essere engagé, poteva apparire una forma di eversione o evasione disimpegnata, ma forse è proprio a ripartire dai soggetti desideranti che si può tentare di ricostruire un’utopia politica e riconsiderare il nostro sguardo in ciò che scriviamo. Uno degli incontri a cui ero stata invitata esplicitava la possibilità di ripensare il sesso. Si partiva da una dicotomia che rappresenta l’orizzonte contemporaneo in cui ci muoviamo quando parliamo di sesso, due visioni apparentemente inconciliabili: «La prima è che il sesso sia un luogo pulito, illuminato bene dalle dating apps, una transazione tra individui isolati, un esercizio di libertà del singolo, che desidera come consuma. La seconda è che al contrario il sesso sia un luogo da incubo, dove l’abuso, il sopruso e la molestia sono la regola».

Per chi scrive, una simile dicotomia rischia di diventare paralizzante più che schizofrenica, come se ci si dovesse smarcare dai grandi affreschi sulle mirabolanti peripezie del fallo di un Philip Roth o di un Henry Miller ed evitare al tempo stesso una parodia di sit-com newyorkese da millennials interessati a contrattualizzare in anticipo le regole del consenso o perimetrare l’estensione di un orgasmo. I recenti dati del rapporto del Censis sulle abitudini sessuali degli italiani dai 18 ai 40 anni sembrano ricucire questa scissione, dimostrando che forse l’abbiamo implicitamente interiorizzata, restituendola non sotto forma di scandalo logico ma di complicità. Se buona parte degli intervistati ammette di usare un linguaggio osceno durante i rapporti, di praticare il sexting e di guardare video porno in coppia, mi viene da pensare che potremmo essere di fronte al dissolversi di quella battaglia ideologica che ha cercato di separare la sfera di un sano (o artistico) erotismo dal mondo marcio, squallido e oppressivo della pornografia.

Nella prospettiva di uno scrittore o di una scrittrice, la cosa interessante diventa insinuarsi dentro quel linguaggio “osceno”: da cosa è fatto? Come si alimenta? Come far sì che l’oscenità non si riduca a un mero dispositivo, una categoria igienica regolata da un’app, ma torni a essere perturbante, creativa, intrinsecamente letteraria?

Quando qualche anno fa sono state tradotte in Italia le lettere di John Cheever, avevo provato un certo brivido all’idea che le pulsioni più intime dello scrittore, il suo desiderio rimosso ma incarnato nelle parole, potesse arrivare, contro la sua volontà, ai lettori. Ma mettendo da parte la questione etica, c’era ovviamente qualcosa di eccitante nel leggerle. Avevo fatto allora una piccola indagine tra amici scrittori su quale sarebbe stata la loro volontà in caso di morte rispetto a tutto il materiale personale inedito che ci portiamo dietro, oggi conservato nella memoria di un computer e di un telefono. Le reazioni oscillavano tra l’assecondare l’oblio o il narcisismo, ma in tutti i casi era chiaro che ci fosse un’intera fenomenologia del desiderio che esisteva in forma scritta e molto spesso in una forma già letteraria. Parlando con una mia amica che sta scrivendo un libro sessualmente molto esplicito, ragionavamo sul fatto che dalla letteratura ci aspettiamo qualcosa che non vorremmo far leggere a nostra madre. L’imbarazzo non riguarda ovviamente i dati tecnici di un amplesso, ma il modo in cui si origina il desiderio, i suoi azzardi, le vie intraprese o quelle solo immaginate. Sempre nella mia veste da relatrice - stavolta per l’aver tradotto un libro dove una donna si fa gioiosamente praticare il cunnilingus da un orso - mi sono ritrovata a interrogarmi su questioni che ammetto di non aver mai preso in considerazione prima, come il sesso interspecie, sconfinamenti dal corpo, creazioni di esseri ambigui, l’idea di potersi accoppiare con robot, alieni, animali o piante.

Non ho nessuna solida teoria a riguardo, se non constatare che la spinta a desiderare il perturbante abbia riattivato un immaginario fantascientifico che si è spostato da un’ibridazione tecnologica a un’ibridazione in chiave ecologista, in tempi in cui stiamo mettendo in crisi il concetto di antropocene. Non voglio addentrarmi in questo discorso, ma ritirando fuori una delle parole che Zadie Smith bollava come scarpa vecchia, mi sembra che l’identità sia oggi riconsiderata in una prospettiva sempre più queer, e che il corpo non sia più visto come un rifugio ma come un confine aperto.

Di recente, sono stata invitata in un altro panel dal titolo onirico: “Sirene, adolescenti e distopie. Il corpo femminile tra letteratura e teatro”. Non era imprevedibile che fossimo solo donne nel dibattito. Sono anni che siamo tenute a ragionare e cavillare sul rapporto tra corpo e scrittura, come fosse un esercizio ermeneutico che spetta soltanto al genere femminile, nuova economia domestica a cui sottoporci prima che qualche riforma scolastica la trasformi in educazione tecnica adatta a tutti. Se dovessi azzardare il plot sadico e trasgressivo di un film porno sarebbe quello di uno scrittore maschio seduto a un tavolo a parlare di come il proprio corpo abbia avuto un’influenza sulla scrittura; mi accontenterei anche di un cineasta che si cimenti in un documentario dal titolo “Il corpo degli uomini”. Ma tutto questo pensiero intorno al corpo all’interno della scrittura delle donne ci ha permesso di ripensare il desiderio in una maniera più complessa e mutevole: se il corpo cambia in continuazione, cambia il desiderio. E cambia nel tempo come all’interno di un singolo istante. La sfida nel raccontare il desiderio è probabilmente quella di penetrare in queste mutazioni, nelle ambiguità, nelle zone opache, nel fallimento della trasparenza, nello smentire persino noi stessi in ciò che credevamo di desiderare.