La sensualità della pelle. La spregiudicatezza del linguaggio. Nell’arte, nella musica, al cinema, nella letteratura torna il racconto del desiderio. Con un protagonista che si prende la rivincita: il corpo
«Ma l’estasi, ma l’io senza più io?», domanda Patrizia Valduga nelle “Poesie erotiche”, ponendo una questione rivolta non soltanto a se stessa, ma a tutti. Perché «la poesia è come l’amore», dice, «entrambi si prefiggono un po’ di perdita di coscienza, un qualche smantellamento di quell’equilibrio infelice che è la nostra identità». L’eros, come l’arte, ha il potere terribile e meraviglioso di renderci dimentichi di chi siamo, di farci scordare nome e cognome. Ma eros è una traiettoria, non uno stato, come ci ha insegnato Platone nel “Simposio”: eros è figlio di privazione (nasce da una mancanza, da un desiderio) e di espediente (ciò che ci manca non è dato gratuitamente, è solo per i forti e per gli scaltri). E in cosa si risolve alla fine tutta questa battaglia è stato scritto a Grande guerra appena terminata, decine di milioni di vittime sul campo. È Freud che, in “Al di là del principio di piacere”, lo dice chiaro e tondo: amiamo il piacere, condotto dai tramiti del desiderio e del corpo, perché simula la morte, nostra destinazione e origine, la «perdita di coscienza», l’«io senza più io».
Viviamo dentro il desiderio poiché nessuno basta a se stesso, dal momento che siamo, innanzitutto, corpi. L’esistenza carnale è ineliminabile e, dal sotterraneo, silenziosa, ci guida. Siamo destinati a ricercare il piacere attraverso la brama dell’altro. Il desiderio nasce come scongiura del caso, come ricerca dell’origine perduta dal firmamento delle stelle. L’altro è lo strumento, travestito da brama. Per questo il desiderio non è una casa comoda. Perché possiamo desiderare ma non è detto che veniamo desiderati, non è detto che siamo capaci di espedienti. Così ci troviamo costantemente in bilico tra il rimuoverlo per eliminare la sofferenza del rifiuto (come per esempio volevano gli antichi stoici, o Schopenhauer, o i buddisti), o al contrario il viverlo fino in fondo, il consumarlo. «Succhiare il midollo della vita», come diceva Thoreau in “Walden”, come voleva Nietzsche: soffrire per sperimentarla tutta.
La rivoluzione digitale ha cambiato le nostre abitudini, e insieme alle nostre abitudini perfino i nostri corpi (più curvi, più miopi). Attaccati alla rete siamo piccole api in un gigantesco sciame digitale, attirate da una molteplicità di fiori virtuali dalla vita breve. La rivoluzione digitale minimizza il corpo, ma il corpo è tale che più viene rimosso più, silenziosamente, ci comanda. Se è vero che dentro la rete manca lo scontro, l’imprevisto, che le «connessioni della rete sono prive di attriti», come ha detto lo stesso Zuckerberg, che gli algoritmi sono creati per confermarci nelle nostre visioni del mondo, se è vero che ci ritroviamo individui isolati, hikikomori, come il filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han definisce la nostra specie, se tutto questo è vero, come credo sia vero, ebbene questo è il terreno perfetto per l’avanzamento sotterraneo e silenzioso di eros. Perché è vero che i nostri corpi, nella vita reale, sono diventati più impacciati, ma hanno trovato nuovi espedienti – tinder, badoo, happn, meetic, lovoo.
Perché il corpo-eros c’è, prima dopo e durante. Possiamo cercare di dimenticarci di lui, ma lui non si dimentica di noi. Più il linguaggio pubblico si impoverisce in slogan, più diviene immediato e violento, più il corpo – in silenzio – emerge; diventa fondamentale per veicolare i messaggi alle masse, che non ascoltano più la ragione: guardano il corpo. Guardano eros con lo stupore di chi ammira un mostro addormentato sul fondo della grotta. Perché eros si sublima nel linguaggio, come ci ha insegnato Platone. Più questo si semplifica, più eros-corpo ritorna materiale. Ma eros-corpo è innanzitutto il luogo sul quale fin dall’origine viene consumato il sesso. Cosa è accaduto agli hikikomori e ai loro rapporti sessuali?
Il Censis recentemente ha disegnato una mappa del rapporto degli italiani col sesso, a vent’anni di distanza dall’ultima ricognizione. Ciò che ne è emerso è che negli ultimi anni c’è stata un’impennata: eros è più presente nelle nostre vite, lo consumiamo di più, in maniera più spregiudicata e libera, e con più partner. Se alla fine dello scorso millennio una donna su due aveva avuto solo un partner, oggi è quasi una su tre. Così come è cresciuto il numero di donne che hanno conosciuto più di sei partner. Quasi la metà degli uomini ne ha avuti più di sei. E poi i corpi si sono liberati, «sono stati infranti antichi pudori, tabù, reticenze»: sesso orale, masturbazione reciproca, linguaggio osceno, sesso anale, sex toys, utilizzo della pornografia durante i rapporti. Ci siamo liberati, e questo è avvenuto – incredibilmente – con la smaterializzazione dell’agorà, del luogo in cui ci incontriamo.
E che corpo-eros sta ritornando, in un modo nuovo ma prepotente, è a mio parere evidente nell’arte. Eros non è più il protagonista soltanto della musica trap, che anzi è forse proprio musica del corpo, e per questo parla a chi il corpo lo sta scoprendo, a chi è tutto-corpo, ovvero i più giovani («sto in fissa soltanto con pussy e firme/in testa un piano, sul cazzo due bimbe», Emis Killa; «vieni in camera con la tua amica porca, quale?/Quella dell’altra volta./(…) Vi faccio una doccia, pinacolada, bevila se sei veramente grezza, sputala, poi leccala, leccala», Sfera Ebbasta; «per killare il beat, per baciare i jeans/per tornare a casa con una ba-bad-bitch», Gue Pequeno). Ma la presenza del corpo come protagonista si fa prepotente anche nelle altre arti.
“Chiamami col tuo nome” di André Aciman è la storia dell’incontro proibito di due corpi dentro il recinto protetto del mondo borghese; ancora il suo “Variazioni su un tema originale” non è che un corpo a corpo tra passato, destino e desiderio: ancora due corpi che scandalosamente prevalgono sui costumi della borghesia; “L’animale che mi porto dentro” di Francesco Piccolo è la ricognizione di un corpo che accompagna uno scrittore dentro i salotti che contano; “La straniera”, di Claudia Durastanti, è un resoconto familiare di migrazioni e riflessione di classe in cui è il corpo della madre a fare da potente fulcro e da catalizzatore, a partire dalla sua disabilità; “Fedeltà” di Marco Missiroli è dalla prima all’ultima pagina guerra aperta alle ragioni delle pressioni sensuali del corpo dei protagonisti; “Non mentirmi” di Philippe Besson è la storia di un amore intenso, segreto, impossibile e assoluto, vissuto esclusivamente sul corpo; “Un certo Paul Darrigrand”, sempre di Besson e di prossima uscita, è ancora la storia di un rapporto tormentato, clandestino e omosessuale tra due giovani francesi, compagni d’università; “Fratelli d’anima” del franco-senegalese David Diop, fresco vincitore del Premio Strega Europeo, è storia di corpi, corpi-resistenti e corpi-caduti, corpi di uomini che si mettono al servizio di una guerra che non è la loro; “Cat Person” di Kristen Roupenian è una collezione di racconti in cui il rapporto tra sesso e potere è centrale, e nei quali tutto passa attraverso la carne, come nel racconto “Mordere”, la storia di una ragazza che prova il piacere primitivo di conficcare i canini nelle carni degli altri. Nel cinema, il recentissimo documentario “e grand bal”, di Laetitia Carton, è un lunghissimo piano sequenza sulla sensualità dei corpi, sull’attrazione chimica che è in gioco nel ballo, sugli erotici rapporti segreti di un villaggio; “Quando eravamo fratelli”, di Jeremiah Zagar, è la storia di tre fratellini in una famiglia newyorkese disfunzionale, in cui tutto il disagio di classe e gli attriti della società dei consumi e di quella consumata si scaricano sui piccoli corpi. Non c’è forse serie tv della rete (“Sex education”, “Thirteen”, “Baby”, “Russian doll”, “House of cards”, persino “Narcos”) che non sia racconto del corpo, specie del corpo giovane, che sta scandalosamente fiorendo, e quindi del suo rapporto col potere, che è sempre potere del corpo. Anche nell’arte figurativa mi pare di intravvedere una tendenza che in qualche modo si rifà agli anni Settanta e proprio alla centralità del corpo (dell’artista) come luogo in cui l’opera esiste. Amalia Ulman, con il corpo sfigurato o abusato, come nella serie “Dignity”, primi piani del viso dell’artista schizzato di sperma. O Christian Jankowski, che attraverso istallazioni e fotografia rappresenta il corpo nella sua intimità; il fotografo Lee Jeffries, che immortala visi di uomini e donne troppo umani in cui a essere protagonista è la materia della cute. Ruben Orozco Loza, lo scultore messicano iperrealista che costruisce grandi corpi umani di gomma con la precisione del pelo più sottile. Celia Hempton, che a colori pastello dipinge solo organi genitali al colmo dell’eccitazione. Il corpo è lì, nei sotterranei silenziosi, e mosso da eros non può smettere di escogitare nuovi espedienti che ci richiamino alla memoria la nostra origine divina.