Tra più i noti penalisti, è stato anche vicepresidente del Csm. Ha difeso per tanti anni i giornalisti de L’Espresso con grande coerenza e orgoglio. E nei suoi interventi pubblici ha sempre rappresentato un’idea alta del diritto

Carlo Federico Grosso, l’intellettuale con la toga di avvocato

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Non aveva smesso di indossare la toga di avvocato il professore Carlo Federico Grosso. A 81 anni calcava ancora le aule di giustizia di tutto il Paese. Su e giù per lo stivale a presenziare ai processi o agli interrogatori. E facevamo fatica, a volte, trascorrendo intere giornate al suo fianco, a pensare che un uomo della sua età potesse avere tutta l’energia che esprimeva davanti ai giudici, con i quali si confrontava mostrando la forza del diritto di cui era grande conoscitore, intrecciata all’intelligenza acuta del difensore. Torinese, era uno dei più noti avvocati penalisti, un principe del Foro. Ha accompagnato e assistito per tanti anni i giornalisti de L’Espresso, difendendoci con grande coerenza e orgoglio. Le sue analisi dei fatti giudiziari erano perfette, anticipavano spesso le mosse dei giudici. Era pure un grande studioso, guidato sempre dalla sua autonomia intellettuale. Amava il confronto da cui scaturiva spesso una soluzione al problema. Con lui abbiamo condiviso amarezze e grandi successi. Ci ha lasciato il 24 luglio dopo una malattia.

Era cresciuto nel vivaio dei giuristi torinesi ed ha avuto come padri spirituali Carlo e Alessandro Galante Garrone, entrambi magistrati e partigiani di Giustizia e Libertà. Ma la prima vera scuola che ha influito sulla sua crescita è stata quella familiare. Suo padre Giuseppe, severo e intransigente docente di diritto romano e preside di Giurisprudenza, democristiano anomalo come lo definivano gli amici, alternò gli studi giuridici agli impegni politici.

Come avvocato ha rappresentato la parte civile in importanti processi come quello per la strage della stazione di Bologna e del Rapido 904. Nel 1994 è entrato a far parte del Consiglio superiore della magistratura. Era il periodo di Tangentopoli, e arrivavano dalla politica bordate contro i pm di Milano guidati da Francesco Saverio Borrelli (anche lui ci ha lasciato la scorsa settimana) e Carlo Federico Grosso nella sua qualità di componente della sezione disciplinare del Csm, fu l’estensore della sentenza che prosciolse il pool di Mani pulite al termine del procedimento aperto su iniziativa dell’allora ministro di Giustizia Filippo Mancuso. Poi è diventato Vicepresidente del Csm (1996-1998). Capitava di ricordare la carriera di docente universitario a Urbino, a Genova e a Torino dove ha retto la cattedra di Diritto penale per 34 anni diventando poi emerito.

La sua coerenza è emersa fino a poche settimane fa, intervistato da Repubblica dopo l’intervento al Csm del Presidente, Sergio Mattarella, sullo scandalo che ha travolto le toghe, Grosso ha detto: «Un fatto assolutamente vergognoso. È inaudito che magistrati componenti di un’istituzione di garanzia come il Csm partecipino a riunioni con politici per discutere, e addirittura per concordare, se non per farsi dettare la linea, per la nomina di alcuni dei dirigenti dei più importanti uffici giudiziari. Confesso che mi appare una prospettiva assolutamente inimmaginabile». E aggiungeva: «La netta maggioranza dei magistrati si comporta in modo corretto ed è lontanissima da prospettive di questo tipo. Ma è inevitabile che fatti simili si riverberino sull’immaginario collettivo, per cui l’intera magistratura finisce nel mirino della gente. Non vorrei che questa inevitabile debolezza possa aprire la strada a riforme contro la magistratura e la sua indipendenza».

Ecco, il professore aveva la toga cucita addosso e così ci ha lasciato.

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