Un divo del cinema trovato morto. È omicidio o suicidio? C'entra la moglie, la ex o la nuova compagna? L'amore, la politica o i narcotrafficanti? Una sola cosa è certa: la colpevole non può che essere femmina. Parola del  maschilismo indù

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È il 14 giugno 2020, Mumbai. Interno, giorno. Un corpo di un uomo ormai senza vita, disteso sul letto, viene ritrovato dalla polizia. A telefonare al più vicino distretto sono state due persone, il domestico e il coinquilino dell’uomo. Dicono di averlo trovato impiccato al ventilatore, di aver staccato il corpo, di averlo adagiato sul letto e di aver chiamato la polizia e la famiglia del morto. Il corpo senza vita è di un attore piuttosto famoso, Sushant Singh Rajput, 34 anni. Uno dei nuovi volti di Bollywood, l’industria del cinema indiano, con centinaia di migliaia di affezionati fans e follower sui social media.

La polizia constata la morte per asfissia dell’attore, interroga le persone vicine e rubrica il caso come suicidio. Visto anche che, come appare subito chiaro a una prima indagine e come sapevano quasi tutti nell’ambiente, l’attore era malato: di depressione secondo alcuni, di un vero e proprio disturbo bipolare secondo altri. Certo è che faceva uso massiccio di farmaci e che il suicidio della sua manager e amica Disha Salian non aveva migliorato le sue condizioni. Tutto chiaro? Non proprio. Perché si tratta di Bollywood, di una morte importante, di una straordinaria occasione mediatica per rimepire pagine di giornali e programmi tivù con qualcosa di diverso dal Covid.

E allora, i media avanzano dubbi sul suicidio e ipotesi che contrastano le conclusioni della polizia:, si discutono ferite e contusioni del corpo, con tanto di fotografie che mostrerebbero un segno sul collo non da impiccaggione ma da strangolamento. Il giallo dilaga sui social media: in una nazione di più di un miliardo di persone, più della metà diventa esperta di medicina forense e di criminologia, su Twitter, su Facebook. Metà dei giornalisti indiani si improvvisa detective, con una speciale menzione d’onore per il canale Republic che fa del giornalismo-spazzatura spacciato per giornalismo d’inchiesta un vanto personale.

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Contusioni e lividi, secondo il tribunale della stampa e dei media, non sono compatibili con le modalità del suicidio descritte dagli inquirenti. E, oltretutto, qualcuno scrive che Sushant non soffriva affatto di depressione, anzi, era un amicone che faceva morire dal ridere i suoi amici. La questione diventa culturale, quasi politica: la malattia mentale, il disagio psichico, è stato sostenuto a mezzo stampa da alcuni “esperti”, non esistono affatto, se li è inventati la medicina occidentale per vendere a tutto il mondo medicinali inutili e dannosi.

Ma non finisce qui, perché ai dubbi sul suicidio si aggiunge il processo alla megaindustria del cinema indiano. Sushant era stato ostracizzato da mezza Bollywood perché non era “figlio di”. E, nonostante fosse sotto contratto con una delle case di produzione più importanti, non veniva più scritturato per ruoli importanti. Immediata la risposta dei big di Bollywood: macché, era lui a essere considerato del tutto inaffidabile viste le sue condizioni psichiche, tutti quelli che negli ultimi tempi avevano lavorato con lui ne avevano pagato le conseguenze in termini di ritardi nella produzione. Controrisposta degli anti-Bollywood: Sushant non era affatto inaffidabile visto che all’università era un ragazzo prodigio, che aveva quasi preso una laurea in ingegneria, che aveva vinto le olimpiadi nazionali di fisica e aveva partecipato a un training della Nasa per addestramento a missioni nello spazio.

E, siccome sempre di Bollywood si tratta, il passo successivo di un caso di cui parla tutta l’India è quasi scontato: cherchez la femme. E la femme, la strega, è subito pronta e servita su di un piatto d’argento. È giovane, è bella, fa l’attrice anche lei dunque per l’India conservatrice non è una brava ragazza. Si chiama Rhea Chakraborty ed è l’ultima fidanzata di Sushant. Rhea, figlia di un ufficiale dell’esercito in pensione, ha moltissime colpe: per gli ultrà religiosi è di facili costumi perché appare sullo schermo, inoltre è andata a vivere con Sushant senza aver prima contratto il sacro vincolo del matrimonio. E in più non andava d’accordo con la di lui famiglia.
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Sushant, che era sposato (ma non è chiaro se avesse ottenuto o meno il divorzio visto che la moglie si è prontamente atteggiata a vedova inconsolabile) aveva avuto una lunga relazione fino a meno di un anno fa con un’altra attrice, Ankhita Lokhande. Che, ovviamente, ne approfitta per togliersi non un sassolino ma un vero e proprio macigno dalla scarpa e pareggiare i conti con Rhea Chakraborty: accusa la collega che le ha rubato il fidanzato di aver estraniato Sushant dalla sua famiglia e dai suoi veri amici, di essere una “cercatrice d’oro”, di aver causato danni alla carriera dell’attore perché quest’ultimo cercava di imporla come co-protagonista in tutti i suoi contratti.

La vita privata di Rhea viene quindi saccheggiata e passata al setaccio: la relazione professionale e personale con il produttore e regista Mahesh Bhatt, star di prima grandezza e tra parentesi appassionato di filosofia, viene definita “torbida”. La ragazza viene accusata di aver condotto l’attore alla disperazione e di averlo istigato al suicidio. La famiglia di Sushant la denuncia in procura proprio per istigazione al suicidio, oltre che per appropriazione indebita.

Gli inquirenti non prendono molto sul serio queste accuse ma per la stampa e per l’opinione pubblica Rhea è più che colpevole. Di sicuro la descrivono come colpevole di essere tornata a vivere con i suoi una settimana prima del suicidio di Sushant, di essere andata alle feste, di avere degli amici, di volersi divertire. Così, pressata dai media, la polizia sequestra i cellulari di t utta la famiglia di Rhea e trova delle chat da cui si evince che Rhea e suo fratello procuravano della droga a Sushant. Anfetamine, cocaina, extasy, ketamina? No, una trentina di grammi di marijuana. Dalle chat si deduce anche, e Rhea lo ammette nel corso di un interrogatorio durato tre giorni, che sia lei sia suo fratello e lo stesso Sushant fumavano spinelli. Su questa base, Rhea e suo fratello vengono arrestati e, tanto per fare buon peso, vengono denunciati a piede libero anche i genitori dei due.

E da qui si scatena una versione in salsa Bollywood di una vera e propria caccia alle streghe. A essere sotto accusa, una volta di più, è “l’ambiente corrotto e debosciato” del cinema. Vengono resuscitate vecchie storie che hanno sempre il loro appeal per il pubblico indiano: i vecchi legami tra mafia pakistana e industria del cinema indiano, per esempio, e riappare il nome del capo dei capi con sede a Karachi Dawood Ibrahim.

Secondo le ultime illazioni della famiglia di Sushant e del canale Republic, l’attore aveva confidato a suo padre e sua sorella di essere stato minacciato dalla D-Company, la famiglia mafiosa di Dawood Ibrahim con connessioni (veritiere e provate, quest’ultime) con i servizi segreti pakistani, con Al Qaida e con tutta l’internazionale jihadi dell’area. Ripartono allora le teorie sul complotto e l’omicidio: Sushant sarebbe stato ammazzato dalla D-Company, così come la sua manager Disha: le due morti sarebbero collegate tra loro e dovute a presunte rivelazioni che i due avrebbero voluto fare. Secondo un’amica dell’ex-fidanzata di Sushant, Rhea sarebbe stata una “honey trap” dei trafficanti e per ammazzare l’attore sarebbe stata adoperata anche la magia nera.

A questo punto, la stampa impazzisce e inizia a dare la caccia a tutti coloro che nell’industria del cinema hanno fumato o comprato marijuana. Curiosamente, secondo i media, sono tutte donne: a leggere le cronache sembra che a trafficare e consumare droga siano solo loro, inducendo al consumo anche i bravi ragazzi di sesso maschile.

L’ultima, e la più famosa, a essere finita sotto i riflettori e a diventare vittima di un linciaggio a mezzo stampa e televisione, è una delle più famosi attrici di Bollywood: Deepika Padukone, altro esempio perfetto della strega perfetta. È giovane, è bella, è famosa e indipendente. E soprattutto, possiede una mente pensante e non ha paura di esprimere le sue opinioni. È scesa in campo più di una volta per difendere e sostenere gli studenti che protestavano contro le violenze della polizia alla Jahawarlal Nehru University a Delhi e per difendere la libertà d’espressione.

E in effetti, questo intricato pastrocchio la cui trama sarebbe giudicata improbabile anche in un film di Bollywood, ha anche una chiave di lettura politica. Sushant era nato nello stato del Bihar, dove le elezioni amministrative si sarebbero dovute svolgere e la sua famiglia appartiene a una comunità, quella dei Rajput, piccola ma di grande influenza. Sostenere o meno la sua famiglia orienta una grande quantità di voti. A difendere Rhea, massacrata dalla stampa di destra, scende in campo il partito del Congress del West-Bengal, lo stato di cui è originario il padre della ragazza. Deepika è da tempo tacciata di essere “comunista” e di attività anti-nazionali, quindi è un bersaglio facile. A Rhea sono stati negati i domiciliari ed è ancora in carcere, la tempesta infuria su tutta la stampa indiana e sui social media. La caccia alle streghe è appena cominciata.