Il capo della diplomazia italiana a Delhi si era impegnato sulla parola a far tornare i lagunari in India: in questo modo aveva evitato di versare la mega caparra che era stata data la volta prima. Poi non abbiamo mantenuto i patti

«Se torneremo in India? Certo, noi abbiamo una sola parola, ed è quella di italiani».

Con questa dichiarazione i due fucilieri del reggimento San Marco Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, lo scorso Natale, avevano fugato ogni dubbio circa il loro ritorno in India al termine della licenza concessa dall'Alta Corte del Kerala.

Erano tempi, evidentemente, in cui la parola di un italiano aveva ancora un valore.

Tempi che, col comunicato di ieri sera del Ministero degli Esteri, almeno qui in India sono definitivamente finiti.

Il governo italiano lunedì sera ha comunicato alle autorità indiane che i due marò accusati dell'omicidio di due pescatori indiani nelle acque del Kerala, Ajesh Binki e Valentine Jelastine, al termine della licenza accordata stavolta dalla Corte suprema indiana per votare alle ultime elezioni nazionali, non faranno ritorno in India.

Il nostro governo ritiene che l'India stia violando gli obblighi del diritto internazionale in merito all'immunità riservata alle Forze armate e le regole della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), dicendosi però disponibili a “trovare un accordo” anche tramite arbitrato internazionale o una risoluzione giudiziaria.

Di fatto, l'Italia ha deciso unilateralmente di scavalcare il sistema giudiziario indiano appellandosi alla mancanza di norme internazionali bilateralmente accettate e dunque ad una controversia sull'interpretazione delle stesse, invalidando gli accordi firmati dal più alto rappresentante delle istituzioni italiane in India, l'Ambasciatore a New Delhi Daniele Mancini. L'Italia vuole si raggiunga un accordo “politico”, inserendosi in un vuoto legislativo del diritto internazionale.

Una soluzione che aveva già prospettato nel mese di febbraio, come ha dichiarato il ministro Kurshid al canale televisivo Cnn-Ibn: «Il governo [italiano] ci aveva chiesto di intervenire ma abbiamo spiegato che non era possibile, come del resto non è stato possibile per il governo italiano consegnarci la documentazione del caso Finmeccanica».

Ora, calcando la mano, l'Italia vuole costringere l'India ad un accordo diplomatico, un “trattatino bilaterale” per risolvere il caso fuori dalle aule di tribunale.

La comunicazione, arrivata nella notte indiana, è in queste ore al vaglio del team di legali del governo centrale che, nei prossimi giorni, darà la loro interpretazione del comunicato italiano. E solo a quel punto, ha chiarito alla stampa nazionale il ministro degli Esteri Salman Kurshid, si decideranno i provvedimenti da prendere. Il primo ministro Manmohan Singh, commentando le novità giunte da Roma, si è limitato a descrivere la situazione come «inaccettabile».

Le dichiarazioni dal gabinetto di governo finiscono qui. Massimo riserbo, anche considerando che l'esecutivo indiano in questi giorni è alle prese con l'ultimo colpo di scena nel caso del tragico stupro di gruppo di Delhi dello scorso dicembre: Ram Singh, uno dei cinque accusati di aver violentato e ucciso una studentessa di 23 anni, due giorni fa è stato trovato impiccato nella sua cella del “carcere modello” di Tihar.

Ma l'opinione pubblica e l'opposizione sono sul piede di guerra. Si urla allo scandalo, alla presa n giro internazionale e al complotto per farsi scappare i due sottufficiali italiani, ritirando fuori un immaginario intervento di Sonia Gandhi - presidente del partito di governo Indian National Congress, di origini italiane - o un accordo sottobanco per insabbiare lo scandalo Finmeccanica in cambio della libertà di due assassini.

Su tutte le furie il chief minister del Kerala Ooman Chandy, che giudicando «inaccettabile» la decisione italiana ha annunciato una visita immediata a Delhi per ribadire di persona al governo centrale la posizione ufficiale dello Stato indiano: i marò devono essere giudicati secondo le leggi indiane.

Certo è che, di fronte agli sviluppi della vicenda, la fiducia riposta dalla Corte suprema nelle nostre autorità è stata tradita e l'India non si era nemmeno tutelata. La differenza lampante tra le due licenze - quella natalizia e quella per il voto - risiede nel mancato versamento di una garanzia economica che lo Stato indiano avrebbe incassato proprio nel caso l'Italia non fosse stata ai patti. A Natale l'Alta Corte del Kerala aveva preteso una “caparra” di 826 mila euro; ma permettendo a Girone e Latorre di tornare in Italia per il voto, la Corte suprema si era accontentata di un “undertaking”, una lettera di impegno firmata dal nostro Ambasciatore. Ora quella lettera, come la parola dell'Italia in India, è carta straccia.

Nell'entusiasmo per la decisione del dimissionario governo Monti, una presa di posizione scellerata che è destinata a creare un pericoloso precedente nel diritto internazionale, sono state scritte e dette diverse imprecisioni e alcune falsità.

La più grave, che è reiterata ormai da oltre un anno, riguarda le acque internazionali. Lo scontro a fuoco tra l'Enrica Lexie e il peschereccio St. Antony, risalente al 15 febbraio 2012, non è avvenuto in acque internazionali, ma nel tratto di mare indicato come “zona contigua”. La stessa UNCLOS, citata nel comunicato del nostro Ministero degli Esteri, indica che la “zona contigua” è «l’area oltre o adiacente alle acque territoriali il cui limite [...] è fissato a 24 miglia nautiche [dalla costa]», un tratto di mare dove l'India, secondo la sua interpretazione del diritto internazionale - e il diritto internazionale è soggetto a diverse interpretazioni, non è il Vangelo - ha diritto ad estendere la propria giurisdizione. Ovvero: valgono le leggi dell'India e non quelle del Kerala, che infatti è stato escluso dal contenzioso legale proprio dalla Corte suprema, il tribunale federale indiano.

L'azzardo della diplomazia italiana ha ottenuto due risultati. Il primo: far tornare in libertà Girone e Latorre, che si sono detti «felici di tornare a lavorare», visto che la procura di Roma, non avendo ricevuto il fascicolo del caso dalle autorità indiane, non può procedere all'istruzione di un processo.

Il secondo: calpestare il diritto di una potenza mondiale e dare il via a una serie di rappresaglie istituzionali difficili da prevedere ma che sicuramente renderanno più complicati tutti i rapporti bilaterali, a partire da quelli commerciali.

E' l'ultimo regalo del governo dei tecnici: una colossale crisi diplomatica della quale quest'Italia ingovernabile, non sentiva alcun bisogno.

Matteo Miavaldi * @majunteo - inviato in India per China Files

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