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Un milione e mezzo di fantasmi siriani cercano riparo in Libano. Ma per Beirut non esistono

Lebanon, Arsaal: Mohammed e la sua famiglia posano per un ritratto all'interno dello shelter dove abitano. Loro come altre decine di migliaia vivono in campi profughi sparsi intorno al villaggio di Arsaal. Alessio Romenzi
Lebanon, Arsaal: Mohammed e la sua famiglia posano per un ritratto all'interno dello shelter dove abitano. Loro come altre decine di migliaia vivono in campi profughi sparsi intorno al villaggio di Arsaal. Alessio Romenzi

I profughi in fuga dalla guerra sono costretti a vivere in tendopoli clandestine. Ora, dopo l’esplosione nel porto e la crisi economica, rischiano il rimpatrio. Che quasi sempre significa morte (Foto di Alessio Romenzi per l'Espresso)

Lebanon, Arsaal: Mohammed e la sua famiglia posano per un ritratto all'interno dello shelter dove abitano. Loro come altre decine di migliaia vivono in campi profughi sparsi intorno al villaggio di Arsaal. Alessio Romenzi
Lo scorso 5 novembre un uomo si è dato fuoco di fronte alla sede dell’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) nell’area di Bin Hassan a Beirut. Non aveva un lavoro e non aveva un soldo per comprare medicinali per la figlia malata. Poche settimane prima un caso simile, ad Arsal, nel nord del paese. Un sessantenne ha tentato di impiccarsi. Troppa la povertà. Troppa la vergogna per aver perso il lavoro. Troppo poca la speranza di tornare, un giorno, a casa sua. Anche lui, come l’uomo che si è dato fuoco nella capitale, è scappato dalla guerra siriana.

Da quando è iniziata la guerra nella vicina Siria un milione di persone ha cercato riparo in Libano. Un milione almeno su carta. Perché nel 2015, su richiesta del governo libanese, le Nazioni Unite hanno smesso di contare. Al momento, secondo le stime (per difetto) dell’Unhcr, il paese ospita 900 mila siriani, ma la cifra più verosimile è di un milione e mezzo, che vanno ad aggiungersi ai duecentomila palestinesi che vivono nel paese da decenni. Numeri che rendono il Libano il paese che ospita il più alto numero di persone pro capite.
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Su una popolazione di cinque milioni, un milione e settecentomila sono rifugiati. Un terzo della popolazione. Assimilarli nella società non è mai stata un’opzione. In Libano il sistema di divisione del potere si fonda su una ripartizione delle cariche su base religiosa (sunniti, sciiti, drusi, maroniti e altre 14 confessioni) che a sua volta si aggancia a un censimento degli anni Trenta, quando i cristiani rappresentavano la maggioranza del paese. Il sistema ha paralizzato i processi decisionali, trasformando la vita politica in una spartizione familiare influenzata dalla corruzione endemica.

In questa ripartizione, in cui il presidente deve essere un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita e il presidente del parlamento un musulmano sciita, censire un milione e mezzo di musulmani rischia di far saltare tutto. Ecco perché i siriani arrivati in Libano non sono nemmeno considerati “profughi”, “rifugiati”: questo implicherebbe oneri e obblighi che il governo libanese non ha avuto, né ha, intenzione di prendersi. I siriani sono “ospiti”. Una delle conseguenze è che per gli ospiti siriani non siano mai stati costruiti veri campi profughi. Ma solo tollerati campi informali. Un invito a non restare che negli anni si sta trasformando in un invito ad andare via, cioè tornare in Siria.

La valle della Bekaa è stata ed è il centro della crisi dei siriani in Libano. Ospita più o meno la metà dei rifugiati, che, in mancanza di campi formali, hanno costruito tende e baracche di fortuna dove potevano. Arsal, al confine con la Siria, è una storia nella storia. Le tende sono dappertutto. Le Nazioni Unite le chiamano Its, insediamenti informali di tende. È il modo burocratico per descrivere gli ammassi di plastica, ferraglia e legno ammuffito che per mezzo milione di persone sono diventate una casa.

Mohammed Elsoufi vive in una di queste baracche. Ha un volto senza età. Che sia un uomo di cinquant’anni lo dice la sua carta di identità. Ma sulla sua pelle è scolpita la fatica della vita in una tenda. Come quasi tutti, qui, è arrivato pensando di restare uno o due mesi, che la guerra sarebbe finita in fretta, e sperando che avrebbe potuto far ritorno a casa sua, a Homs, con la moglie e i quattro figli. Invece sono passati otto anni, il figlio minore, Omar - che aveva un anno quando hanno attraversato le montagne - è un ragazzino emaciato e troppo magro, e sua moglie ha trasformato due metri quadrati della tenda in una cucina, e indossa un lenzuolo che ha tagliato in due e cucito come velo e come abaya, la veste che la copre.

In Siria, la loro era una famiglia normale. Mohammed lavorava come carpentiere, manteneva una famiglia di quattro figli e una casa umile ma decorosa. Di quella casa oggi non resta che qualche parete sopravvissuta ai bombardamenti. Suo fratello, che è ancora in Siria, gli ha inviato delle foto. Ma Mohammed le ha cancellate. Non vuole vederle. «Quel che è perso, è perso».

Il campo in cui vive ora è uno dei 170 insediamenti informali di Arsal. Solo nel suo vivono tra le seicento e le settecento persone. In tutta l’area i siriani sono 150 mila. I libanesi meno della metà. L’inverno della Bekaa, con le temperature che scendono sotto lo zero è iniziato. Per lui è l’ottavo. La tenda di Mohammed è piena d’acqua, è piovuto per ore. I canali di scarico sono ostruiti, così negli insediamenti sale acqua dal terreno e entra dal tetto, che non è un tetto, ma pezzi di legno tenuti insieme per scommessa e coperti di plastica. I materassi sono bagnati, i vestiti sono umidi. Tra una tenda e l’altra tubi di fortuna, che diventano stagni di acqua ghiacciata dove giocano i bambini, scalzi. Quando piove troppo i canali si riempiono di liquami. La stufa al centro della tenda di Mohammed è spenta. I soldi per il combustibile erano pochi l’anno scorso, quest’anno con l’inflazione i pochi che ci sono non valgono quasi niente.

Prima della crisi economica in Libano, Mohammed riusciva sporadicamente a lavorare. Tre, quattro giorni al mese, come muratore o nelle cave della zona. Il compenso era un quarto della paga destinata ai lavoratori libanesi, ma Mohammed si accontentava di poco pur di portare a casa qualcosa di più nutriente del pane. La crisi prima, l’esplosione al porto poi hanno piegato quello che ancora combatteva per restare in piedi, così l’ingiustizia è diventata sfruttamento - qualche datore di lavoro non ha mai pagato le giornate - e poi semplicemente disoccupazione.

«Fino a qualche mese fa per un giorno di lavoro riuscivo a guadagnare 15-20 mila lire libanesi. Che valevano 13-15 dollari. Oggi, col cambio del mercato nero valgono più o meno tre dollari». Lo dice e scuote la testa, Mohammed, e ripete, come tutti: «Non c’era altro da fare». Oggi non c’è niente da fare e basta. Non c’è lavoro per i libanesi e neppure per i siriani, per anni considerati parte della crisi, manodopera a basso costo. E non c’è troppa alternativa, perché alla maggior parte dei rifugiati viene negata la residenza legale o l’accesso al mercato del lavoro. I siriani possono lavorare legalmente solo in tre settori poco qualificati: agricoltura, edilizia e pulizie. Di conseguenza, molti trovano lavoro nel settore informale, dove è più facile essere esposti allo sfruttamento. «Quando non hai soldi devi chiederne in prestito. Puoi mangiare una volta al giorno, ma con la neve il combustibile serve, bisogna scaldarsi, ci sono i bambini».

Così, per quelli come Mohammed aumentano gli anni in tenda sul calendario e aumentano i debiti. Le Nazioni Unite stimano che l’80 per cento dei siriani in Libano viva sotto la soglia della povertà. Omar ascolta suo padre col viso basso. Ha un maglione troppo piccolo per la sua età e troppo leggero per le temperature. Tossisce. Dorme, come la madre e il padre, su materassi a terra che non si asciugano mai. Mohammed non vuole che lavori, non vuole cioè che finisca come troppi suoi coetanei con la schiena piegata sui campi a raccogliere frutta e verdura per due dollari al giorno.

Ma non va nemmeno a scuola, perché non possono permettersi l’iscrizione e lo spostamento per raggiungerla. Sarebbero in tutto 200 mila lire libanesi l’anno. Al cambio ora, sono settanta dollari. Che Mohammed non ha. Mohammed non si commuove, non si altera, non alza la voce. Racconta l’inumanità dei campi come se il dolore non gli appartenesse, «non possiamo fare niente», dice. Non ha rabbia, né rivendicazioni. Il dolore più fitto che possiede lo trattiene, e ha il volto di un ragazzo di quindici anni ucciso dalle bombe di Assad mentre scappavano via da Homs. Il volto di suo figlio. Ma Mohammed non ne parla. Ascolta sua moglie, Ghadir, che lo evoca, e si concede una lacrima, l’unica, che sceglie di non condividere. Uscendo dalla tenda, scusandosi per quel dolore intimo consegnato a degli sconosciuti.

Ghadir non ricorda l’ultima volta che è uscita dal campo. Sua sorella vive in una tenda a pochi chilometri di distanza, in un altro insediamento. Non la vede da mesi. «Anche se la situazione è migliorata qui rispetto a qualche anno fa. Prima nascondevano le armi nelle tende, un ragazzo un giorno è uscito in strada gridando che se lo avessero preso si sarebbe fatto esplodere. Che avrebbe sparato a tutti. Non dimenticherò quella notte, è stato spaventoso. Ora, almeno, sono stati cacciati tutti».

Per i rifugiati di Arsal la difficoltà della vita dei campi si è unita per anni alla mancanza di sicurezza. Dal 2014 l’arida zona montuosa di Arsal è stata una base per i militanti legati al fronte al Nusra e allo Stato Islamico, fino al 2017 quando Hezbollah ha ripreso il controllo della zona, e l’accordo che ha fatto cessare gli scontri armati ha permesso a 8000 militanti di Al Nusra di essere evacuati da Arsal verso il nord della Siria.

La tranquillità, o presunta tale, è durata poco. Lo scorso anno il governo libanese ha ordinato di demolire tutte le strutture di cemento alte più di un metro negli insediamenti, così quelle che provavano a essere baracche sono tornate strutture fatiscenti di legno e teli di plastica. «Torneremo a casa nostra, un giorno», dice Ghadir. Difficile capire se i rifugiati siriani ci credano ancora, se lo ripetano perché casa è a trenta chilometri da lì ed è la sola ragione per sopportare dopo anni la brutalità della vita dei campi, o se lo ripetano per non considerare che quella vita permanente possa essere diventata definitiva.

«Torneremo a casa, a dio piacendo, e Mohammed potrà mangiare ancora la kubba, la carne che gli piace tanto». Sono quattro anni che non possono più permettersela. Anche prima della crisi finanziaria, prima dell’esplosione del porto di Beirut ad agosto, i rifugiati siriani vivevano con meno di tre dollari al giorno, oggi l’aiuto che ammonta a 27 dollari a persona al mese viene pagato in valuta libanese, 70.000 che al cambio del mercato nero valgono 10, massimo 15 dollari. Anche prima della crisi metà dei bambini siriani in età scolare era esclusa dal sistema educativo libanese. Metà di mezzo milione. Più di duecentomila bambini che non hanno avuto, né hanno, la possibilità di andare a scuola.

Oggi ad aggravare la situazione la chiusura dei centri scolastici informali. Nella sola regione di Arsal ci sono 10 mila bambini in età da scuola primaria. Le scuole pubbliche libanesi fino allo scorso anno avevano posto solo per 3 mila di loro. Quest’autunno il Ministero dell’Istruzione ha deciso di chiudere le scuole informali, strutture gestite da Ong, nate per tamponare temporaneamente l’esigenza di istruzione per i bambini siriani che non potevano iscriversi alle scuole libanesi, fino al loro rientro in Siria. Anche queste scuole, come le tende, negli anni, hanno smesso di essere transitorie e sono diventate l’unica possibilità di accesso a un sistema educativo. Cioè l’unica possibilità di non crescere analfabeti. Non sono riconosciute dal sistema scolastico libanese, non danno attestati, ma per molte famiglie qualsiasi istruzione era meglio di niente, erano soprattutto la sola alternativa allo sfruttamento, al lavoro minorile.

Difficile non leggere la decisione di chiudere le scuole informali come un altro passo della strategia del governo libanese per disincentivare i siriani a restare. Il presidente Michel Aoun, alla fine di settembre, in un discorso in occasione del 75° anniversario dell’istituzione delle Nazioni Unite ha detto: «Chiediamo al mondo di aiutarci a garantire il ritorno sicuro degli sfollati siriani perché il Libano soffre una crisi senza precedenti, ed è ormai incapace di ospitarli». Una posizione non nuova e alimentata dal suo partito, il Movimento Patriottico Libero (Fpm) il più grande partito cristiano del paese.

Lo scorso anno i volontari dell’ala giovanile del partito hanno portato avanti una campagna per chiedere la chiusura di attività che impiegano rifugiati siriani e cittadini non libanesi, distribuendo volantini e chiedendo ai libanesi di inviare prove, video e foto, per localizzare i negozi e le attività che secondo loro avrebbero dovuto essere chiuse, al grido di “Prima i libanesi”. Sui volantini c’era scritto: «Proteggi i libanesi, denuncia i trasgressori. La Siria è sicura per il loro ritorno». Negli anni i rifugiati siriani sono diventati il capro espiatorio dei problemi antichi, strutturali, del Libano. I funzionari di governo hanno lungamente sfruttato la loro presenza per fini politici, tra loro alcuni membri del governo, come Gebran Bassil, genero del Presidente Aoun, nonché ex Ministro degli Esteri, nonché Presidente del Movimento Patriottico Libero, noto per i suoi tweet razzisti in cui rivendica la superiorità del popolo libanese: «I siriani minacciano l’identità del nostro popolo». Bassil ha incitato e celebrato le campagne antisiriane: «Non è discriminazione razziale, ma consolidamento della nostra sovranità», «I siriani hanno una casa sicura dove tornare. Dovevano tornarci ieri, devono tornarci oggi e dovranno tornarci domani».

Nel 2018, il Libano ha iniziato a organizzare il ritorno dei rifugiati siriani nonostante i numerosi rischi, nonostante gli avvertimenti delle organizzazioni umanitarie e dei funzionari del Dipartimento di Stato Americano che definiscono i tempi «non maturi per il rientro», mesi dopo ha stabilito che qualsiasi siriano entrato in Libano illegalmente dopo il 24 aprile 2019 potesse essere deportato senza essere precedentemente passato da un giudice.

La pressione è ancora più forte ora che la crisi della lira libanese e l’esplosione al porto hanno ulteriormente esasperato gli animi. All’inizio di novembre il presidente Aoun ha ricevuto una delegazione russa per discutere il ritorno dei rifugiati siriani: diplomatici, personale militare, guidati dall’inviato speciale del presidente russo in Siria, Alexander Lavrentiev e dall’ambasciatore russo in Siria, Alexander Kinschak. «I tempi sono maturi», ha detto Aoun.

Abdul Razzak al Abed vive ad Arsal dal 2013, è scappato dalla vicina Qalamoun. Sua madre e suo fratello sono tornati in Siria un anno e mezzo fa firmando una dichiarazione di riconciliazione con il regime. Parla spesso con lei. Sua madre gli racconta che manca il pane, che la vita è dura, che viene consegnata ogni settimana un po’ di farina, ma mai abbastanza. Di politica non parlano mai, troppo rischioso. Ma Abdul tiene il conto di chi parte e non torna. E sa che per un uomo attraversare il confine e tornare a casa corrisponde, spesso, a sparire nel nulla.

Come è successo a due cugini, finiti in prigione. A un parente, giustiziato. E a un nipote, di dodici anni. Fatto sparire il giorno stesso in cui è entrato in Siria. «Se hai lasciato la Siria sei considerato automaticamente un terrorista. Non importa se hai dodici anni, e sei un bambino, questo è il regime», dice Abdul, mostrando la foto di Ahmad, suo nipote.

«Tornare a casa? Ci penso ogni giorno. Ogni notte che mi addormento su un materasso umido, ogni giorno che indosso abiti che non si asciugano mai, e ogni volta che penso che sono sette anni che non faccio una doccia. Ma non c’è niente da fare». Non c’è niente altro da fare. Ripete. Poi guida, sulle colline, nel punto più alto di Arsal. E cammina sulle pietre aride con la sicurezza di chi potrebbe farlo a occhi bendati. Come chi è andato a sbirciare il passato da lì ogni volta che poteva.

Dalla collina la vista nelle valli è macchiata di bianco, il bianco delle tende. Ovunque, a perdita d’occhio. All’altezza degli occhi, invece, c’è la Siria. «Proprio al di là delle montagne», dice Abdul. «Casa mia».

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