Inchiesta

L'Italia sta inondando di plastica la Malesia: un traffico illegale da più di mille tonnellate

di Elisa Murgese - Unità Investigativa Greenpeace   10 febbraio 2020

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I materiali che destiniamo al riciclo finiscono ad aziende dall’altra parte del mondo. Che non hanno autorizzazioni di alcun tipo e lavorano senza preoccuparsi dell'ambiente e della salute umana. L’indagine dell’unità investigativa di Greenpeace


L'Oceano di rifiuti plastici si allunga a perdita d'occhio. Il forte odore non permette a tutti di avvicinarsi. Montagne di spazzatura alte fino a sei metri, dune di immondizia in contrasto con il verde vivido della foresta malese che, da terra incontaminata di Salgari, sta cambiando il suo profilo, diventando un immondezzaio a cielo aperto. Più si cammina in queste trincee di spazzatura, più è facile rendersi conto di quanto ci siano familiari i rifiuti che le compongono.

“Cipolle prodotte in Italia”, si legge su un imballaggio in cima a un balla colma di confezioni di articoli di cui sono piene le nostre case; marchi di aziende e supermercati dal sapore più europeo che asiatico. Siamo a Port Klang, vicino Kuala Lumpur, in una delle numerosissime discariche illegali di rifiuti plastici stranieri della Malesia. Ecco che fine fa la plastica: invece di essere riciclata, è abbandonata dall'altra parte del mondo, senza alcuna sicurezza per l'ambiente e la salute umana.

Un'inchiesta di oltre un anno, condotta sia in Malesia che sui documenti delle spedizioni dall'Italia, ha permesso all'Unità Investigativa di Greenpeace Italia di svelare un importante traffico illecito di rifiuti con l'aggravante dell'associazione per delinquere transnazionale. Un sistema ben organizzato, che ha permesso a più di 1.300 tonnellate di plastica italiana destinata al riciclo di essere spedite illegalmente ad aziende malesi prive di autorizzazioni. Dati alla mano, tra gennaio e settembre 2019, il 46 per cento dei rifiuti plastici italiani diretti in Malesia (ovvero circa 1.300 tonnellate su 2.880) è uscito dalla filiera legale, alimentando il business illegale dei rifiuti.




Le spedizioni fuorilegge
Tutto è nato da un faldone riservato consegnato nelle mani dell'associazione. Al suo interno, indizi sulle rotte dei rifiuti plastici cosiddetti misti, ovvero contenitori, film, pellicole industriali e residui plastici di ogni sorta largamente utilizzati nella nostra vita quotidiana ma di difficile riciclo (riconducibili al codice HS 3915). Si tratta della plastica che, fino a due anni fa, era spedita in Cina, partner privilegiato capace di ricevere il 42 per cento dei rifiuti plastici italiani esportati fuori dai confini europei. Tuttavia, nel 2018, il gigante asiatico ha detto stop all'import di questa plastica poco riciclabile e quindi molto inquinante e pericolosa per la salute.



Il problema è che l'Occidente non ha frenato la produzione di questi rifiuti: per capire l'ampiezza del settore, basti pensare che l'Italia è al secondo posto in Europa per domanda di plastica. La nostra domanda annuale è di 7 milioni di tonnellate, un peso pari a 500 volte quello della torre di Pisa, di cui il 40 per cento sono imballaggi. Con queste cifre, inevitabile che i centri di selezione dei rifiuti continuino a riempirsi e i cargo a partire: non più diretti in Cina, ma verso nuove mete dei rifiuti globali.

La norma in Italia: "Esportare solo per riciclo"
Ecco quindi spuntare il nome della Malesia, secondo Eurostat primo importatore di rifiuti plastici italiani nel 2018 e, nei primi nove mesi del 2019, al secondo posto con 7mila tonnellate, per un valore di quasi un milione e mezzo di euro. Di queste 7mila tonnellate, documenti confidenziali ottenuti da Greenpeace hanno permesso di capire che, da gennaio a settembre 2019, circa 2.880 tonnellate corrispondevano a rifiuti plastici destinati al riciclo e inviati in Malesia per via diretta (ovvero senza intermediari stranieri). Ma queste navi di immondizia sono state effettivamente spedite ad impianti in grado di riciclarli?



Dopo mesi di richieste, Greenpeace ha ottenuto dal governo di Kuala Lumpur l'elenco ufficiale delle sole 68 aziende malesi autorizzate a importare e trattare rifiuti plastici dall'estero. Si tratta di impianti autorizzati perché in grado di rispettare standard minimi che garantiscano la protezione dell'ambiente e della salute umana. Ma da controlli incrociati con i documenti confidenziali, è risultato evidente come nei nei primi nove mesi del 2019 quasi la metà dei rifiuti diretti in Malesia sono stati spediti ad aziende prive dei requisiti obbligatori per legge. «Se quanto documentato fosse confermato dalla autorità, le contestazioni a carattere penale sarebbero elevate - precisa Paola Ficco, giurista ambientale e avvocatessa - e nello specifico saremmo di fronte ad attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, traffico illecito di rifiuti e associazione per delinquere transnazionale».

Grafico-flussi-plastica-malesia-italia-2019-jpg

Ma il percorso che fa la plastica non appena diventa rifiuto è solo uno dei misteri di questa storia. Il secondo è dare un volto alle aziende malesi che - illegalmente - comprano la nostra plastica per riciclarla. Infatti, la norma europea è rigorosa e va di pari passo con quella malese. Il patto è semplice: l'Ue può esportare plastica solo per il riciclo, e la Malesia permette l'import “esclusivamente di plastica pulita e non contaminata”, come ha confermato Zuraida Kamaruddin, ministra malese dell'Edilizia abitativa e del Governo locale. In altre parole, Kuala Lumpur frena l'ingresso alla “spazzatura importata con la scusa del riciclo”, come la definisce la ministra dell'ambiente Yeo Bee Yin. Peccato che la realtà documentata sia ben diversa.
Greenpeace - photographer: Nandakumar S. Haridas

Oltre ai controlli documentali, infatti, tra luglio e agosto dello scorso anno un team di Greenpeace ha condotto una spedizione in Malesia per documentare le condizioni delle aziende a cui vengono spediti i nostri rifiuti plastici. «Le immagini delle telecamere nascoste mostrano imprenditori malesi disposti a importare e trattare rifiuti italiani, sia plastica contaminata che rifiuti urbani, pur non comparendo nella lista delle aziende malesi autorizzate», spiega l'Unità Investigativa di Greenpeace Italia. «Visitando impianti di partner commerciali di aziende italiane in diverse aree della Malesia, abbiamo trovato condizioni di lavoro inaccettabili, operai che vivono all'interno delle fabbriche e vicino a cumuli di rifiuti ancora in combustione», continua Greenpeace. Inoltre, l'associazione ambientalista ha documentato, proprio accanto agli impianti di una delle aziende che ha importato rifiuti plastici dal Belpaese, un incendio illegale di materie plastiche nonché un terrapieno composto da rifiuti di plastica anche italiani.

"Malattie respiratorie in aumento”
Un traffico illegale che sta avendo effetti negativi tangibili sulla quotidianità dei cittadini malesi, costretti a vivere in un territorio sempre più inquinato. «Ciò che trasportano i container non corrisponde quasi mai a quanto dichiarato nella documentazione - conferma YB Ng Sze Han, membro del comitato esecutivo dello Stato malese di Selangor - La maggior parte delle volte si tratta di un miscuglio di rifiuti plastici. La parte che può essere riciclata è davvero bassa, forse il 20-30 per cento. Tutto il resto deve essere gettato da qualche parte, e questo provoca enormi problemi e inquinamento».



A confermarlo, le analisi di acqua, suolo e frammenti di plastica condotte dall'associazione ambientalista in Malesia in alcuni siti illegali di rifiuti plastici stranieri. I risultati sono allarmanti. «Abbiamo trovato livelli elevati di contaminazione per numerose sostanze chimiche pericolose per l'ambiente e per l'uomo», dichiara Giuseppe Ungherese, campagna inquinamento di Greenpeace. Nel dettaglio, nei campioni di frammenti di plastica presenti nel suolo sono state rilevate elevate concentrazioni di metalli pesanti (come cadmio e piombo) rispetto ai livelli riscontrati in natura e la presenza di composti organici persistenti come i ritardanti di fiamma bromurati e ftalati, noti interferenti endocrini utilizzati nella produzione di alcune materie plastiche. «Abbiamo trovato sostanze chimiche pericolose anche nei campioni di cenere, misti a materie plastiche, raccolti all'interno di uno dei siti illegali di stoccaggio dove sono stati rilevati idrocarburi, tra cui il benzo(a)pirene, noto cancerogeno per l'uomo».
Greenpeace - photographer: Nandakumar S. Haridas

Un inquinamento che si traduce in numeri, come quelli dei pazienti del Metro Hospital a Sungai Petani, area a nord ovest del Paese circondata da fabbriche illegali del riciclo. «I pazienti con asma e problemi respiratori sono aumentati del 20-30 per cento rispetto allo scorso anno», precisa Tneoh Shen Jen, primario del Metro Hospital. «Abbiamo inviato esposti e report ufficiali alle autorità competenti - fa eco Santha Devy, avvocatessa che sta seguendo le proteste dei cittadini locali - ma nessuna azione è stata intrapresa».

Controllati solo il 2,5 per cento dei container
«Questi Paesi emergenti - precisa Stefano Vignaroli, presidente della Commissione di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti - come la Malesia, non sono preparati a gestire questo flusso di rifiuti ma ne sono attratti dal guadagno che rappresenta”. Di cifre parla anche Zuraida Kamaruddin, ministra malese con delega ai rifiuti: «L'intero settore della plastica in Malesia vale oltre 6 miliardi di euro. È un business pulito che potrebbe dare benefici economici al nostro Paese. Se non proveremo a trarne vantaggio economico noi, lo farà qualcun altro - continua la ministra - D'altronde, perché dovremmo uccidere un settore economicamente rilevante solo perché il nostro sistema di controllo non è abbastanza forte?». E infatti, le spedizioni di rifiuti dall'Occidente non sembrano fermarsi.



Ma come è possibile che alcuni imprenditori italiani non rispettino la normativa europea, inviando materiale plastico non adatto al riciclo o peggio ancora verso aziende prive di autorizzazioni? Secondo la Direzione Distrettuale Antimafia, meno del 2,5 per cento dei container che spediamo dai porti italiani è ispezionato con visita merci. Lo conferma la giurista ambientale Paola Ficco: «I controlli soffrono di carenze di organico e di fondi per poter affrontare complesse e costose attività di intelligence, le uniche a poter garantire un intervento mirato sulla esagerata mole di containers che affolla i nostri porti». Una mancanza che, a conti fatti, sembra agevolare il traffico illecito di rifiuti.



«La gestione dei rifiuti è il metro del nostro livello di civiltà e di responsabilità e raccoglierli in modo differenziato non basta. Esportare i rifiuti significa affermare la propria incapacità di gestire il problema - chiude la giurista Ficco -. Se è vero che dobbiamo proteggere l'ambiente che ci è più prossimo e la nostra salute, questo non ci autorizza ad offendere quello di chi è lontano da noi e minare la sua salute». Eppure, «la maggior parte degli occidentali non è consapevole di tutto questo», chiude il politico malese YB Ng Sze Han. Infatti, siamo abituati a sbarazzarci del problema della plastica gettandola nel bidone corretto. Un gesto virtuoso ma che, a conti fatti, sembra solo lavarci la coscienza. «Pensate che il vostro Paese stia facendo un ottimo lavoro con la raccolta differenziata e che la percentuale di rifiuti effettivamente riciclati sia molto alta. Peccato che non sia affatto così».