Al mio paese sto in piazza da solo, su una panchina al sole. Marzo giace deserto. Ma sento che oggi ognuno di noi ha un potere enorme

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Mi sveglio con un senso di inquietudine. Mi ha turbato moltissimo ieri sera la notizia che fino al 3 aprile sono sospesi i funerali.
Al mio paese sto in piazza da solo, mi siedo su una panchina con la faccia al sole. La vitamina D sicuramente in queste circostanze non fa male. A metà mattina decido di andare in un paese vicino. È vero che bisogna ridurre la vita sociale, ma qui la vita sociale è ridotta a dosi pediatriche. Marzo giace deserto a Lacedonia e in tanti paesi italiani. Altrove c’è il lavoro, altrove si tenta di restare in piedi. In molti paesi è come se la paralisi fosse già avvenuta, senza bisogno che la dichiarasse qualcuno. Molti stanno in casa da anni come una vecchio organetto dentro una custodia di cartone.
Io vado in giro con la mia paura larga sessant’anni. Ci ho messo dentro tutti i tumori che non ho avuto e migliaia di infarti e ictus. Ora posso capire la paura degli altri. Dal pozzo della mia ipocondria vedo anche gli altri sciare in fondo al pozzo.
Dieci marzo, inquietudine per l’Italia. Siamo un grande ospedale senza infermieri, una classe di ripetenti senza insegnanti. L’abisso ci sta visitando, ma non ha un volto. I virus non hanno una faccia, non hanno la luce delle foglie, il tremore degli animali. Sono inesistenze che non hanno fatto in tempo a diventare qualcosa, un rimasuglio della creazione. E ora sono qui, cercando la vita dentro di noi. Sembrano una dimenticanza, come se il creatore si fosse dimenticato di assegnare loro un ruolo, il creatore o il caos degli inizi, fate voi.
Sono stato prudente, nessuna stretta di mano, distanze di sicurezza mantenute. Nei paesi non hai il problema di schivare le persone. Si sta larghi, qui la quarantena è cominciata da molti anni, lo spopolamento è virale.
Vado a Conza. Siamo nel paese nuovo, interamente ricostruito a valle dopo il terremoto dell’ottanta. Davanti al tabacchino ci sono quattro anziani. Non sembrano turbati da quello che sta accadendo. A parte le espressioni dialettali, sostanzialmente dicono le stesse frasi che si dicono ovunque. La stessa cosa accade davanti al bar. Qui gli anziani sono tre. Pure loro sembrano poco preoccupati. Dentro il bar c’è un’aria mesta. È un pomeriggio senza paure e senza speranze. È evidente che si tratta solo di passare queste ore in attesa della cena. Qui la grande sventura è avvenuta quarant’anni fa. Tanti morti e tanti anni per riavere un paese che non c’entra nulla col paese che c’era prima.
In questi posti sembra si viva in attesa di un altro terremoto. Il problema di restare chiusi in casa non si pone. Molti sono anziani e sono malati cronici e già non si muovono. E hanno paure non dette, tipo quella di spezzarsi un femore per raggiungere la casa del vicino, che una volta era a fianco e adesso è a cento metri.
A due chilometri c’è un altro paese, Sant’Andrea di Conza. Qui il terremoto non ha fatto molti danni, il paese è rimasto dov’era, ma è un teatro che ha cambiato attori e scenografie. Non si può dire che sia disanimato. Non è festa, ma ci sono le stesse persone che ci sono a Natale. Gli universitari sono tornati. E sono tornate anche persone che stavano al Nord. Una cosa è sicura: il virus ha fermato l’emigrazione verso Nord. Ora questo non è più un luogo da lasciare ma un luogo in cui tornare.
Tra un paese e l’altro ho il tempo di chiacchierare al telefono. Mi chiama Dario Brunori, parliamo dell’idea di fare qualcosa assieme per invitare i nostri amici a restare a casa. Prima avevo parlato col giornalista e scrittore Giorgio Boatti. È preoccupato per la situazione in Lombardia, mi dice cose che mi giungono più vive rispetto al ronzio televisivo.
Intanto siamo arrivati a Calitri. I bar stanno chiudendo. Passando con la macchina senza fermarmi mi capita la cosa che mi capita spesso quando vado in un paese dove sono stato tante volte: vedo sempre qualcuno che mi sembra molto invecchiato. Faccio molta attenzione alle macerie prodotte dal tempo che passa.
Arrivato a Bisaccia, confido nella cena per spezzare il filo di inquietudine che mi ha accompagnato dal primo mattino. Dopo cena esco di nuovo in piazza. Non c’è nessuno. Passeggio da solo, sto in un paese antico e completamente nuovo. Posso parlare al telefono col viva voce nel centro della piazza senza timore di disturbare qualcuno. Ora il tema è la morte. Nessuno se lo aspettava che la vita ci avrebbe portato dentro la prima grande svenutura collettiva dalla fine della seconda guerra mondiale. Ora spetta a noi essere gli interpreti eroici o i pagliacci di questa tragica stagione che è solo al suo inizio.
Chiamo un amico che sta a Milano. Dice che sembra una grigia foresta morente, Milano che si doveva rialzare mentre eravamo nel pieno del crollo. Nella pianura padana si lavorara e si respirava nel veleno, ma nessuno si poteva fermare. Poi è arrivato un insulto semplice, la tosse ostinata di qualcuno. E c’è chi non ci ha fatto caso. Dobbiamo riconoscere che siamo stati arroganti. Dobbiamo riconoscere che se una nazione potente come la Cina blocca e ferma ogni forma di vita per sessanta milioni di cittadini non può essere una vicenda solo loro. Nessuno a gennaio ha consigliato ai governanti di chiuderci in casa. E se il governo lo avesse proposto ci sarebbe stata un rivolta. Certi provvedimenti rischiano di somigliare al condono. Prima si lascia fare la villa e poi decidiamo che è abusiva.
In questi paesi che ho visto oggi è come se ci fosse un funerale perenne, diluito. Solo ogni tanto muore veramente qualcuno a giustificare il lutto. Ora nella notte c’è un tale silenzio che i fili della corrente sembrano ruscelli. Ogni luogo sembra trasformato in una fortezza. Nei mesi scorsi bisognava chiudere i porti, sembrava tutta quella la faccenda e invece abbiamo chiuso i paesi e le città e i ristoranti e le palestre. E domani chi ha un dente guasto si terrà il dolore senza andare dal dentista. E non sarà il caso neppure di farsi le analisi del sangue e di andare dall’oculista. Ci sarà poco lavoro pure per l’osteopata. Niente massaggi, niente baci agli sconosciuti. Vista dai paesi questa vicenda ti fa capire che ci stanno togliendo tante cose che non erano già nostre. E ora si tratta di vedere cosa ci resta. Non esistono specifiche virtù appenniniche contro il virus, l’Italia ha poche, residue differenze. Le ultime le abbiamo perse in questi anni, come abbiamo tolto i posti letto negli ospedali per comprare gli F35, come abbiamo perso le sezioni dei partiti, come abbiamo perso i maestri che avevamo. Viene voglia di pensare a cosa avrebbero detto in questi giorni Sciascia o Pasolini.
Comunque sono giorni preziosi, scende la borsa, ma salgono le quotazioni dell’essenziale. Una cosa buona il virus ha fatto: ha messo momentaneamente fuori gioco le trame di palazzo. A ciascuno le sue miserie, ma la popolazione ora è interessata più a quello che accade al Sacco di Milano che a Montecitorio. Ai tempi del virus il Parlamento sembra un luogo da cui non ci aspettiamo niente. Oggi ognuno di noi ha un potere enorme: dipende da ognuno di noi il bene e il male. Quello che facciamo è più forte di ogni legge.