Porta Palazzo, con le sue mille lingue, non si fermava mai. E ha provato a resistere fino alla fine. Poi si è arresa. Urlando, in silenzio, la sua assenza

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È il mercato all’aperto più grande d’Europa: Porta Palazzo, cuore pulsante di Torino, luogo tra i più simbolici della città, in cui storicamente si mischiano tutti i dialetti d’Italia e tutte le lingue del mondo, dal dopoguerra in poi approdo di tutti i nuovi torinesi, giunti fin qui nel corso dei decenni prima dal Meridione e poi dall’Africa, dal Medioriente, dall’America Latina, dall’Europa dell’Est, dall’Asia, e fino a ieri teatro apparentemente immutabile di un viavai incessante di persone - nelle ultime settimane con o senza mascherina, con o senza guanti, con o senza boccetta di amuchina - tra le decine di bancarelle multicolori del settore ortofrutticolo, profumate di menta e di limoni. Bancarelle che, al tempo del Covid-19, da venerdì 13 marzo sono state dapprima distanziate per evitare il contagio, continuando malgrado tutto a richiamare una gran folla specie il sabato mattina, quando il brulichio di giovani e anziani carichi di borse e zaini e trolley è rimasto tale e mantenere davvero il metro e più di lontananza prescritto dalle ordinanze non è stata che una possibilità alquanto remota nel campo delle ipotesi, malgrado ci si sforzasse di non trasgredire le disposizioni emanate da Roma.

Poi però, per la prima volta da tempo immemorabile, da lunedì 24 marzo il mercato all’aperto più grande d’Europa è stato chiuso: le bancarelle montate ma vuote, vuote come intorno a loro tutta la piazza. Una scena impensabile per chiunque conosca questo luogo, il solo a Torino che davvero non si fermava mai, perché quando l’ora del mercato finiva scattavano lo smontaggio delle tende multicolori e dei banchi e le pulizie dell’enorme spianata grigia, e una volta finito lo sgombero dei rifiuti – che di solito fanno somigliare Porta Palazzo a una tela di Hieronymus Bosch - e lavata la piazza ecco che di nuovo nottetempo i banchi venivano rimontati, perché tra le quattro e le cinque arrivavano i camion carichi di frutta e verdura e tutto ricominciava daccapo.

La notte tra il 12 e il 13 marzo scorsi, la polizia municipale aveva bloccato i ragazzi nordafricani al lavoro sulla spianata semideserta su cui si affacciano gli edifici aulici concepiti da Filippo Juvarra e il Mercato Centrale inaugurato appena un anno fa nell’ex Centro Palatino progettato da Massimiliano Fuksas. Come ogni notte, quei ragazzi arrivati a Torino perlopiù dal Maghreb stavano dando forma al mercato secondo la consueta disposizione, ovvero montando le bancarelle strette strette le une accanto alle altre. Poi però erano stati obbligati a fermarsi, e dopo un lungo conciliabolo con gli uomini in uniforme a seguire le nuove indicazioni. Così, la mattina successiva, quel luogo che da secoli fa da linea di confine tra il centro e la prima periferia, tra i palazzi del potere temporale ed ecclesiastico - il Municipio e il Duomo - e il quartiere Aurora, tra i più multietnici e problematici della città, pareva uscito da una pellicola di Vittorio De Sica o da una storia di Bilal.

A chi quella mattina si è aggirato per Porta Palazzo dev’essere sembrato infatti di stare sullo scenario di un film neorealista ambientato nell’Italia dell’immediato dopoguerra, o se preferite tra le tavole di un fumetto post-apocalittico, con tutti quegli agenti dotati di mascherina che fin dalle prime ore del mattino avevano circondato di transenne il settore alimentare, permettendo l’accesso tra i banchi a poche persone per volta. Una lunga fila di donne e di uomini aspettavano il loro turno per fare la spesa al di qua della barriera metallica, o si rivolgevano ai venditori più vicini, i quali facevano la spola tra i loro banchi e quelle mani tese, quelle facce spaventate, quegli occhi increduli. Mani, facce e occhi che riportavano alla mente eventi lontani nel tempo e nello spazio: a un tratto non era più Torino, non era più Italia, non era più il 2020, poteva essere senza l’aggiunta di troppa fantasia una qualsiasi città assediata alle prese con il razionamento dei beni alimentari, salvo che l’assedio non era portato da un esercito in armi, da un nemico visibile, tangibile, ma da un morbo arrivato silenziosamente fin qui dall’altra parte del mondo, dalla Cina.

Nessuno tra coloro che da una vita frequentano piazza della Repubblica, per gli amici Porta Pila, si aspettava quella mattina di uscire di casa e di trovare il mercato recintato e sorvegliato. E tra i più anziani dev’esserci stato senza dubbio anche chi ha ripensato ai giorni in cui in tempo di guerra nel nostro Paese c’era la tessera, fermo restando che neppure in tempo di guerra, quando si faceva la coda per il pane, ci si era ritrovati a non poter uscire di giorno: il coprifuoco scattava la sera, per via dei bombardamenti Alleati, e durante le ore diurne oltre alle farmacie e agli alimentari erano aperti tutti gli altri esercizi commerciali, anche se poi in realtà imperversava il mercato nero. Comunque: quando a mezzogiorno di quel venerdì 13, dalle finestre di tante abitazioni spalancate sulla piazza e sotto le volte del settore del mercato al coperto detto “dell’Orologio”, è risuonato tra gli applausi l’Inno di Mameli in omaggio a coloro che combattono il virus negli ospedali, a chi c’era sono venuti i brividi, perché davvero per la prima volta da chissà quando non ci si sentiva così uniti in un Paese che fino a quel momento pareva il solo in Europa ad aver compreso fino in fondo la gravità della situazione.

La mattina di sabato 14, poi, a Porta Palazzo le transenne sono sparite, perché nottetempo i banchi della frutta e della verdura erano stati distribuiti anche nel settore della piazza di norma occupato da quelli dell’abbigliamento, peraltro già svuotatosi almeno in parte ben prima dell’iniziale decreto del Consiglio dei ministri, visto che ormai da anni non sono pochi quelli gestiti da commercianti cinesi. Tutto intorno, intanto, si era venuto a creare di botto un vero deserto: se il sopracitato Mercato Centrale aveva già deciso autonomamente e per tempo di chiudere in via provvisoria i battenti, la storica drogheria Damarco - celebre in tutta la città per le sue fornitissime e coloratissime vetrine - aveva affisso un avviso sulle saracinesche abbassate per comunicare la propria disponibilità a effettuare le consegne a domicilio.

Chiusi appena dietro l’angolo pure i locali della prima movida torinese, sbocciata verso la fine degli anni Novanta non solo ai Murazzi ma anche nel Quadrilatero Romano, a cominciare da posti come il Pastis, il FreeVolo o la Focacceria Sant’Agostino: e a un tratto è parso quasi impossibile che sui sanpietrini di queste stradine fino all’altro ieri traboccanti di gente d’improvviso non vagassero che ombre frettolose e sparute. Tornando sulla piazza, c’era comunque chi aveva deciso di tenere duro. A cominciare da un altro frammento di una Torino oggi semi-scomparsa, quella per capirci immortalata da Fruttero & Lucentini ne “La donna della domenica”: la famosa ditta Ceni coi suoi sacchi colmi di legumi di ogni tipo e i recipienti pieni di datteri importati dal Medioriente, e i commessi con tanto di grembiule ora dotati anche di guanti e mascherina, la clientela in sovrappiù in diligente attesa di poter entrare sul marciapiede di fronte.

E insomma: mentre altrove la Torino di questo surreale e tragico marzo 2020 languiva manco si fosse in presenza di un improbabile Ferragosto, svuotata com’era e com’è di traffico e passanti, Porta Palazzo era certo un po’ meno affollata del solito, ma restava un luogo dove ogni giorno tranne la domenica continuavano a passare bene o male centinaia se non migliaia di persone. In molti casi, va detto, arrivate fin qui da molto lontano, non di rado dopo essere riuscite a scampare a cose che noi possiamo solo immaginare - non mi riferisco qui soltanto alla traversata di quel cimitero subacqueo che è diventato nel corso degli ultimi lustri il Canale di Sicilia, o ai centri di detenzioni in territorio libico, ma anche alle oggettive condizioni di vita nei rispettivi Paesi d’origine - e che forse per questo hanno meno timori nell’affrontare il morbo che da un mercato simile a questo, in quel di Wuhan, si sta ormai diffondendo nel resto del Pianeta. Intanto però perfino alcuni degli eterni pusher all’angolo con corso Regina Margherita avevano preso a indossare le mascherine. E, complice la situazione, si registravano gentilezze inaspettate, per esempio nel settore occupato dai contadini provenienti dalle colline oltre il corso del Po, dove perfino quello solitamente un po’ burbero regalava ai clienti un paio di mele in più o quattro topinambur.

Intanto, però, il numero dei contagiati e dei morti continuava ad aumentare di giorno in giorno anche qui, in Piemonte. Fino a che il presidente Cirio non ha chiesto ufficialmente al governo di prendere ulteriori provvedimenti, così da risparmiare a questa regione la sorte assai infelice della vicina Lombardia. Di modo che oggi qui a Porta Palazzo, di fronte allo spettacolo inedito rappresentato da queste bancarelle montate ma vuote, alla data di scadenza del 3 aprile non crede più nessuno. Del resto, l’avviso della drogheria Damarco recita che la chiusura del negozio è «fino a data da destinarsi». E a data da destinarsi è quel ritorno a una normalità che mai nella storia repubblicana ci è mancata tanto.

Alla farmacia dell’Ordine Mauriziano, da poco trasferitasi sulla piazza dopo essere stata per secoli nell’adiacente galleria Umberto I° e primo avamposto medico per gli abitanti della zona, da un paio di settimane hanno esposto sulla porta un cartello che recita a caratteri cubitali “MASCHERINE ESAURITE”. Torino, che nel corso della sua storia ne ha già viste davvero tante, saprà certo risollevarsi, come ha sempre saputo fare. E un bel giorno a Porta Palazzo si tornerà a fare lo slalom tra la folla carica di borse e zaini e trolley, con le bancarelle di nuovo strette le une alle altre, e i commercianti cinesi al loro posto. Quando sarà, almeno per qualche tempo non mostreremo alcuna insofferenza nel doverci districare a fatica tra i nostri simili lungo corridoi profumati di menta e di limoni. Al contrario, ne saremo felici.