Telmo Pievani: «Altro che Homo sapiens, a essere perfetto è solo il virus»
«Ci credevamo invincibili, invece siamo fragili. E ora la natura ci presenta il conto», dice il filosofo della scienza. Che nella crisi attuale vede un'opportunità: squarciare la grande illusione nella quale ci crogiolavamo
Nel corso dei secoli, l’essere umano si è ritenuto centro dell’universo, essere intelligente e superiore, sovrano della storia. I momenti critici gli ricordano la sua fragilità. Oggi che è la nostra stessa sopravvivenza a essere minacciata, scopriamo quanto siamo vulnerabili e quanto precario sia l’equilibrio naturale da cui dipendiamo. «Homo sapiens non è che una piccola cosa, una specie molto giovane rispetto alla storia lunghissima dell’universo», dice il filosofo della scienza Telmo Pievani, i cui ultimi libri, “Imperfezione” (Raffaello Cortina) e “La Terra dopo di noi” (Contrasto), possono aiutarci a capire cosa il momento attuale ci sta comunicando, su noi e sul nostro rapporto con la natura.
«L’attacco del Coronavirus squarcia la grande illusione nella quale vivevamo e in cui spero non torneremo a reimmergerci troppo presto, anche se confesso un certo pessimismo. Ci eravamo illusi di esserci emancipati dalle dinamiche ecosistemiche, di essere superiori e indipendenti dalla natura. Ci eravamo dimenticati la nostra vulnerabilità. Molti degli eventi che stanno accadendo oggi svelano la dimensione fittizia in cui vivevamo: sono i modi in cui la natura ci presenta il conto, ed è un conto salato che verrà pagato duramente dalle generazioni future», precisa il filosofo: «L’illusione di essere slegati dalla natura va finalmente abbandonata, magari liberandoci anche dalle posizioni, tanto radicali quanto inutili, che polarizzano il dibattito: da un lato, quella degli apocalittici, che vedono ovunque manifestazioni della fine del mondo; dall’altro, la posizione di coloro che cercano alibi per scaricare le responsabilità dell’uomo».
In “Imperfezione”, Pievani smaschera questa emancipazione illusoria, riscoprendo le insensatezze nel processo evolutivo di cui siamo parte: «Homo sapiens guarda il mondo come se tutto concorresse a un fine preciso e perfetto. È uno schema radicato e oggi sappiamo anche perché: ci siamo evoluti come prede, siamo una specie sociale per la quale è importante interpretare le intenzioni dell’altro, e spesso finiamo per attribuire finalità e significati anche a ciò che non ne ha. Questo approccio ha una funzione evolutiva, ma non ci permette di capire la realtà naturale, che invece è basata sull’imperfezione, sulla anomalia, sulle contingenze storiche. Io ho voluto smantellare questa tendenza così forte e innata della nostra mente».
La natura procede per mutazioni casuali, sottolinea Pievani. Lo stesso uomo non è la fine di una catena di perfezionamenti predisposta alla sua comparsa. «Osservando il rapporto tra l’uomo e il virus che stiamo affrontando oggi, provocatoriamente direi che noi siamo, anzi, palesemente imperfetti: da tre miliardi di anni il virus svolge benissimo il suo mestiere, assai elementare, di far copie di se stesso e moltiplicarsi. Questo è anche il nostro compito, ma lui lo fa in maniera assai più efficiente di noi. Il virus, nel confronto, pare una macchina perfetta dal punto di vista evolutivo. Noi no. Però, proprio perché così imperfetti, noi abbiamo dei margini di creatività, di intelligenza, di previsione, di codifica simbolica, assai preziosi. Sono facoltà che dovremmo imparare a usare molto meglio, e che invece sprechiamo proiettando su questo fenomeno categorie religiose, come quella di colpa, oppure attraverso un ecologismo radicale, che si spoglia di qualsiasi umanismo e dichiara che la natura starebbe assai meglio senza l’uomo. Dobbiamo ripensare il nostro rapporto con la natura riscoprendo ciò che con essa condividiamo».
Con la natura condividiamo la fragilità, sebbene essa sia stata sacrificata in favore della performance, di cui la natura è oggetto. «La nostra pretesa di sfruttare indefinitamente la natura deriva dalla falsa presupposizione di non farne parte. È l’ennesima riprova dell’illusione di esserci emancipati dall’ordine naturale: se la natura è qualcosa di estraneo, allora è possibile trasformare la Foresta Amazzonica in terreno di allevamento intensivo. Di contro a questo crimine, non dobbiamo cadere nell’errore di intendere la natura come fonte di bontà o saggezza: la natura non è né una risorsa da depredare, né un’autorità morale», nota l’evoluzionista: «Fra una prospettiva predatoria e una edificante, sta lo spazio della nostra responsabilità di conoscere la natura e capire che la sua distruzione è una minaccia per il futuro di noi che ne siamo parte».
D’altra parte, la natura è potente nel ritrovare il suo fragile equilibrio: il filosofo lo mostra in un altro libro, “La Terra dopo di noi”. L’uomo è tutt’altro che indispensabile. «C’è una fondamentale asimmetria: la natura può far a meno di noi, mentre noi, proseguendo così, impediremo ai nostri figli di beneficiare di quei “servizi ecosistemici” di cui abbiamo goduto e che abbiamo compromesso. Ne “La Terra dopo di noi” mi sono chiesto cosa succederebbe se domani l’uomo scomparisse. Senza ipotizzare alcuna catastrofe. Così come è vissuta miliardi di anni prima della nostra recentissima comparsa, la natura può proseguire senza di noi. L’uomo non è indispensabile. Ma scoprire questo non deve indurre a un comportamento nichilista; al contrario: proprio perché non siamo indispensabili e, anzi, la nostra presenza era alquanto improbabile, ciò significa che abbiamo avuto una preziosissima occasione a esser qui. Dobbiamo giocarcela al meglio, nella sua fragilità».
Ma la comprensione della nostra posizione nella natura non è questione solo intellettuale. «La dimensione emotiva è fondamentale e ce ne siamo accorti studiando il dibattito sul mutamento climatico. Evidenze, fatti, conferenze e saggi devono integrarsi con teatro, musica, letteratura, con messaggi che toccano le corde emozionali dell’animo. Bisogna però prestare attenzione, perché le emozioni sono irriducibilmente ambivalenti. L’emozione mobilita ma può anche paralizzare nel panico. E questa è ancora una manifestazione dell’imperfezione del nostro cervello, in cui elementi nuovi si uniscono a parti antiche: entrambe queste parti funzionano e si integrano, e a entrambe bisogna saper comunicare. La sfida è sapersi coordinare alla strategia dell’interlocutore, per dialogare e per ribattere: non è con la freddezza delle statistiche che si confuta un populista che mira solo alla pancia, per esempio».
E, come spiega bene Luciano Floridi, nel contesto tecnologico in cui siamo immersi, confronto ed emotività si mescolano, confondendo occasioni e pericoli. «Io interpreto la nozione di Floridi di “infosfera” in un’accezione evoluzionistica: abbiamo cambiato il mondo attorno a noi al punto che viviamo in un ambiente completamente nuovo. L’infosfera è una nuova nicchia ecologica in cui non siamo più circondati solo da piante e animali, ma anche da tecnologie dell’informazione. Noi Homo sapiens, anatomicamente e cerebralmente uguali da millenni, ora ci dobbiamo adattare a un ambiente che noi stessi abbiamo prodotto. Il nostro cervello si ritrova davanti a inedite e straordinarie possibilità, e questo inizialmente ha prodotto grande ebbrezza, ma oggi torna a riprodurre dinamiche tribali e comportamenti violenti contro chiunque offra ragionamento e complessità. Fake news e teorie del complotto approfittano di questa difficoltà di adattamento al nuovo ambiente vitale. Non può esserci clemenza: le fake news non sono folklore, ma un modo subdolo e pericoloso di far leva su modalità di pensiero che la nostra mente aggancia più facilmente».