Hanno il permesso di soggiorno scaduto o una richiesta d’asilo respinta. Non possono né rientrare in patria né restare in Italia. Hanno il diritto alle cure ma alcune regioni si rifiutano. E a loro pensa solo l’associazionismo (Foto di Marco Capponi)

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Nome: Abdul. Cognome: Kemal. Numero STP02011104. Che il nome sia vero non importa. Il codice significa: accesso alle cure, chiunque tu sia. La Costituzione lo garantisce, ma in molti non lo ricevono. Invisibili. Senza una casa, un lavoro, un’assistenza sanitaria. Per lo Stato non esistono. Sono sudafricani, iraniani, latinoamericani a cui è scaduto il permesso di soggiorno o a cui è stata respinta la richiesta di asilo. Irregolari, fantasmi. Prima, durante e dopo l’emergenza Covid-19. Non possono ammalarsi.

In Italia sono più di 600 mila i migranti che non hanno nessuna forma di protezione internazionale. Solo Milano ne accoglie 49 mila. Legalmente non possono avere le tutele che spettano ai cittadini. E spesso chi non ha il permesso di soggiorno si cura autonomamente, affidandosi ad associazioni di medici volontari. A Milano ne esistono una quindicina. In via dei Transiti c’è l’Ambulatorio medico popolare.

«Quando abbiamo aperto nel 1993, pensavamo di mettere su una struttura temporanea. Credevamo che prima o poi la sanità pubblica si sarebbe impegnata ad assicurare le cure anche a chi non ha una tessera sanitaria, come prevede la legge. Dopo 25 anni invece siamo ancora qui», spiega Sandra, operatrice dell’Ambulatorio popolare. Teoricamente gli irregolari hanno diritto a essere visitati e presi in carico dagli ospedali. Non hanno un medico di base, ma possono accedere all’assistenza medica tramite il pronto soccorso. La legge Turco-Napolitano del 1998 (inserita poi nel Testo Unico sull’immigrazione) stabilisce che gli debbano essere garantite «le cure urgenti, essenziali e continuative».

Una definizione generica che permette di far rientrare in questa casistica praticamente qualsiasi malattia: dal raffreddore alla polmonite. «Al paziente viene assegnato un codice fiscale fittizio, chiamato Stp (Stranieri temporaneamente presenti), per registrare la prestazione medica. Poi viene visitato gratuitamente», aggiunge Sandra. Il codice dura sei mesi e può essere rinnovato all’infinito. Ogni regione ha un protocollo diverso. Il governo ha soltanto indicato delle linee guida da seguire. «Il problema è che molti ospedali qui in Lombardia non garantiscono l’erogazione dell’Stp e rimandano gli stranieri dai volontari», continua Sandra. Come ha potuto verificare l’Espresso, all’accettazione del pronto soccorso, invece di compilare i moduli per il codice fiscale temporaneo, il personale scrive su un’impegnativa l’indirizzo dell’ambulatorio a cui recarsi, consegna il foglio e suggerisce al paziente di andare lì, se vuole ottenere una visita.
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La questione a volte è politica: ogni regione ha un suo indirizzo. Ma altre volte è soprattutto economica. Gli ospedali hanno paura di non ottenere i rimborsi statali per le prestazioni fornite gratuitamente agli irregolari. Una situazione che esiste da anni, ma che nell’ultimo periodo si è aggravata, da quando il governo Gentiloni ha predisposto che i risarcimenti fossero di competenza regionale, e non più del ministero degli Interni. Senza documenti, senza medico di base, chi arriva al pronto soccorso viene spedito alle associazioni di volontari. Il problema non è legato soltanto alla sporadicità con cui viene applicata la procedura Stp: questo sistema, nella realtà dei fatti, non funziona anche perché è efficace solo per le pratiche ambulatoriali di emergenza, quando ci si rompe un braccio ad esempio. Chi deve essere seguito in modo costante non può far altro che rivolgersi altrove.

L’Ambulatorio medico popolare è aperto il lunedì e il giovedì. Fuori dal portone rosso c’è sempre coda. «A venire da noi sono soprattutto malati cronici, che devono avere cure continuative e non una visita sporadica al pronto soccorso. Sono diabetici, cardiopatici, che altrimenti non saprebbero come eseguire i controlli e ricevere i farmaci di cui hanno bisogno», dice Giulia, una specializzanda in medicina interna che lavora come medico volontario.

Da anni i dottori dell’Ambulatorio popolare seguono chi si sente abbandonato, solo. Salvaguardano la dignità umana. L’hanno fatto anche durante l’epidemia da Covid-19.«Quando è iniziato il lockdown ci siamo chiesti: rimanere aperti o chiudere? Abbiamo deciso di andare avanti», racconta Andrea, volto storico dell’Ambulatorio popolare. È lui a organizzare le visite con i pazienti. Mai come durante questi ultimi mesi i migranti irregolari dovevano avere un punto di riferimento a cui rivolgersi se ne avessero avuto bisogno. Ammette: «Ci aspettavamo di avere un’affluenza maggiore, ma non è stato così». Chi risiede illegalmente in Italia si è rifugiato dove poteva per paura di venire fermato dalle forze dell’ordine ed espulso. Anche chi accusava sintomi legati al coronavirus ha preferito rimanere nascosto.

«Alcuni sono finiti in ospedale quando era già troppo tardi», aggiunge Giulia. Come tanti specializzandi, dall’inizio dell’epidemia è stata spostata nei reparti di pneumologia. Lì ha visto ammalarsi tutti, uno dopo l’altro. Anziani, giovani, italiani, stranieri. Non è difficile ipotizzare che chi vive in condizioni precarie sia stato un veicolo di diffusione del virus. Non c’è stato nessun monitoraggio, nessuno sforzo da parte delle istituzioni per spiegare a queste persone che cosa stesse accadendo. «Sono stati abbandonati, di nuovo. Ho visitato persone che avevano tosse, febbre. Gli ho detto di limitare i contatti con gli altri», ricorda Andrea. Mentre parla abbozza un sorriso, quasi per sconforto, e aggiunge: «Come si fa a dire a queste persone di non stare vicino a nessun altro?».
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Chi non ha permesso di soggiorno abita in case fatiscenti con altri sette o otto compagni. Mangia male, si ammala più facilmente. A differenza di quanto si possa pensare, la maggior parte dei migranti irregolari prima di arrivare in Italia gode di un’ottima salute. Peggiora qui lavorando e vivendo in condizioni precarie. Avrebbero bisogno di un medico di base, ma la legge non lo permette. Sono reclusi, esclusi. Cercano farmaci, ma se non ci fossero le associazioni di volontari non saprebbero dove reperirli. «Alcune farmacie li consegnano gratuitamente», racconta Andrea. In altre regioni sono gli enti pubblici a occuparsene. Non in Lombardia, dove l’assistenza è del tutto insufficiente.

Il governo nel 2013 ha siglato un accordo con alcune regioni per migliorare l’accesso alle cure di chi è senza permesso di soggiorno e ha proposto di creare sui territori ambulatori pubblici dedicati alla sola assistenza degli irregolari. L’intento di Palazzo Chigi era alleggerire il pronto soccorso facendo in modo che fossero queste nuove strutture a erogare il codice fiscale fittizio, fondamentale per ottenere visite gratuite. In Campania ne esistono 50, in Piemonte 13, in Emilia Romagna 15.

La Lombardia ha deciso di non recepire totalmente l’accordo e di non costruire altri ambulatori pubblici, oltre a quello dell’ospedale San Paolo nato qualche anno prima. «Qui l’amministrazione ha demandato tutto alle organizzazioni di volontari, chiedendo loro di fornire l’Stp. Noi ci siamo rifiutati: vogliamo che la giunta si prenda le sue responsabilità», accusa Sandra, i suoi occhi sono stanchi. L’Ambulatorio medico popolare sta combattendo da anni. Deve essere la sanità pubblica a occuparsi di chi non ha nulla: la regione dovrebbe garantire i risarcimenti e gli ospedali non dovrebbero rifiutarsi di applicare le procedure.

Sono tante le associazioni che seguendo l’esempio di Sandra, Andrea, Giulia hanno deciso di non farsi carico della compilazione dell’Stp. Una scelta politica, scomoda. Legata alla tutela del diritto alla salute. Queste strutture sanno di non poter dare un’assistenza a 360 gradi: mancano i macchinari per effettuare gli esami diagnostici, i farmaci sono pochi, le difficoltà tante. «Spesso sono proprio i medici di queste realtà a mandarmi i pazienti. Un circolo vizioso: le persone vanno al pronto soccorso, poi vengono mandate alle associazioni di volontari e alla fine arrivano qui», racconta il dottor Livio Colombo, che da anni gestisce il centro dedicato alle visite per stranieri irregolari dell’ospedale San Paolo. L’unica organizzazione pubblica, insieme al Niguarda, a garantire a chi non ha la tessera sanitaria ciò che gli spetta. Il modello è quello che l’accordo Stato-Regioni del 2013 voleva diffondere su tutto il territorio nazionale e che la Lombardia non ha intensificato.

Appoggiandosi a un ospedale, l’ambulatorio del San Paolo riesce a garantire visite specialistiche, prescrizioni e sostegno continuo. Da quando ha aperto nel 2007, ogni settimana ci sono una cinquantina di persone. Colombo conosce i suoi pazienti per nome. Dice: «Dovrebbero esserci più luoghi come questo». Durante l’emergenza Covid-19 la sua struttura ha dovuto chiudere. «La possibilità di contagio era troppo alta. Non sapevamo come fare». Ancora una volta è stato il mondo del volontariato a prendersi cura degli irregolari.

Il rischio è che, con le riaperture, queste zone d’ombra diventino luoghi di diffusione del contagio. Anche per questo motivo, il governo ha approvato la regolarizzazione proposta dalla ministra dell’agricoltura, Teresa Bellanova. Bisognerà vedere quanto sarà efficace. Dal 1986 fino al 2012 sono 1 milione e 600 mila gli stranieri senza permesso di soggiorno che hanno beneficiato delle sanatorie. I numeri potrebbero continuare a crescere: se non cambierà il sistema di accoglienza, ci sarà sempre bisogno di regolarizzazioni forzate.

Al Naga, uno degli ambulatori milanesi, nella sala d’attesa c’è una grande cartina. Alcuni Paesi sono più sbiaditi di altri. L’Africa subsahariana e il Marocco quasi non si riconoscono. I pazienti li indicano quando raccontano agli altri da dove arrivano. In questi mesi quella sala è stata praticamente vuota. Adesso, con l’allentamento delle restrizioni, si ricomincerà ad affollare. Ecco: il ritorno alla normalità.