Tubature colabrodo. Acquedotti vecchi. Enti creati e demoliti. Con i privati pronti ad approfittarne per entrare nel business. Un documento esclusivo rivela interessi e inefficienze nella gestione del bene più prezioso

Ecco l'Italia che fa acqua

L'acquedotto del Simbrivio è un pachiderma con due pregi. Il primo è che serve, per conto di Acea Ato2 spa, decine di comuni attorno a Roma. Il secondo, invece, è che pare inarrestabile. Malgrado il consorzio omonimo a cui fa capo sia finito in liquidazione, il 21 dicembre scorso la Regione Lazio gli ha concesso di allacciarsi a una nuova sorgente (del Pertuso). Episodio curioso in un quadro curioso. Basti pensare che tra i favorevoli all'operazione c'è Massimo Sessa, ingegnere già citato dalle cronache per il suo interessamento alla carriera in Acea di Camillo Toro, figlio del celebre Achille, ex procuratore aggiunto a Roma finito nel caso Cricca. Lo stesso Sessa, ora, è sia commissario di governo al Simbrivio per l'emergenza idrica (causa arsenico nelle acque), sia commissario straordinario per la liquidazione del consorzio: che in quanto tale, non si è opposto all'acquisizione della nuova fonte, da lui stesso auspicata per migliorare la qualità del servizio. "Ed è giusto l'inizio", dicono all'Acea. Nel senso che Sessa non è l'unico a sedere su due poltrone. "Marco Mattei, per esempio, è vicecommissario liquidatore del Simbrivio (dopo un decennio da sindaco di Albano) e assessore all'Ambiente della Regione Lazio", la stessa che ha permesso al consorzio di utilizzare la sorgente Pertuso. "Mentre Massimo Paternostro non segue soltanto il Simbrivio come "dirigente al controllo della segreteria tecnico operativa", ma è anche membro del collegio commissariale del Simbrivio stesso".

Un evidente affollamento: di ruoli, di responsabilità, di competenze. "La maniera migliore", ironizza Stefano Ciafani di Legambiente, "per affrontare il 22 marzo la giornata mondiale dell'acqua, dedicata quest'anno al rapporto tra risorse idriche e urbanizzazione". Un appuntamento carico di speranze, per il pianeta, ma che in Italia stride con le cattive notizie in arrivo da Cittadinanzattiva, il movimento in difesa dei diritti civili autore del dossier "Servizio idrico integrato 2011"(qui proposto in esclusiva), dove il dissesto del sistema acqua emerge in tutta la sua gravità. "La gestione ", si legge, "presenta un'eccessiva frammentarietà", e tra le cause essenziali sono indicate le reti idriche, malmesse al punto "da causare una perdita media del 35 per cento di acqua immessa nelle tubature". Da qui, un "30 per cento della popolazione sottoposto a un approvvigionamento discontinuo e insufficiente", con i gestori di acquedotti che faticano a raccogliere (e quindi elargire) finanziamenti ("Su circa 6 miliardi di euro previsti al 2008, solo il 56 per cento è stato realizzato"), e i cittadini che pagano tariffe "aumentate dal 2000 a oggi del 64,4 per cento".

"Un mondo immaturo", lo definisce Antonio Massarutto, professore di Economia pubblica a Gorizia. E nessuno prova a contraddirlo. Anzi: dalla ricerca di Cittadinanzattiva, si scopre che nel 2010 gli italiani hanno indicato l'acqua come principale origine di disagi locali: 26 per cento, questo il dato, contro il 22 per cento dei rifiuti e il 12 a pari merito di trasporti pubblici e viabilità. Numeri che tornano in mente, non a caso, quando si arriva in provincia di Agrigento, dove l'acquedotto viene gestito da Girgenti Acque spa: società pubblico-privata che raggiunge 359 mila siciliani, con mille chilometri di rete e 14 sorgenti.

"Per inquadrare il contesto", interviene Cittadinanzattiva, "bisogna ricordare che ad Agrigento il servizio idrico integrato, cioè l'insieme di acqua, fognature e depurazione, è costato nel 2009 al cittadino 419 euro, mentre a Catania si sono spesi ben 232 euro in meno". Dopodiché, è più comprensibile il nervosismo cronico della popolazione. Già nel 2008, un volantino recitava: "La rete idrica fa acqua da tutte le parti, tranne che dai rubinetti delle nostre case!". E come assurdità in atto, si citava la panacea proposta dalle istituzioni: il raddoppio del dissalatore privato di Porto Empedocle, pensato per immettere più acqua nella rete già colabrodo. "Alla fine", dice Claudia Casa di Legambiente, "il raddoppio del dissalatore è saltato". Ed è scaduta, intanto, anche la convenzione con la Regione. "Ora, mentre continua il razionamento dell'acqua, c'è chi auspica, a destra come a sinistra, che l'impianto sia acquisito dal Comune o dalla Regione stessa (per poi affidarlo, sempre, alla Girgenti Acque spa), con una spesa attorno ai 500 mila euro. Dimenticando, forse, che finora quest'avventura ci è costata 10 milioni di euro...".

La notizia incoraggiante, va precisato, è che la Regione Sicilia intende resuscitare la rete idrica agrigentina con 25 milioni di fondi Fas (Fondi per le aree sottoutilizzate). Il che non sposta la domanda chiave: perché è tanto difficile, in Italia, garantire un discreto servizio idrico, magari anche con tariffe adeguate? E perché la situazione non si sblocca, nonostante le infinite proteste popolari? "Tutto è iniziato nel 1994 con la legge 36", riepiloga Roberto Passino, presidente della Commissione nazionale di vigilanza sulle risorse idriche (Conviri): "Quell'atto, essenziale, è partito dal fallimento dell'amministrazione pubblica nel settore acque, e ha lanciato in alternativa una cultura industriale con l'intervento dei privati". In seguito, prosegue Passino, è arrivato il decreto 135 del 2009 (più noto come decreto Ronchi, dal cognome dell'Andrea ex ministro delle Politiche comunitarie), "dove continuando a considerare l'acqua come un bene pubblico, si è previsto l'obbligo di svolgere gare per assegnare la gestione delle risorse idriche".

In altre parole, si sono definitivamente spalancati i portoni agli appetiti privati. Irritando molti italiani. Così è partita la campagna referendaria per "ripubblicizzare" l'acqua, con la raccolta in poche settimane di 1 milione 400 mila firme (vedi box a pag. 85). In coro, gli antagonisti del "liberismo selvaggio", quello che "punta a privatizzare i beni e servizi pubblici", hanno scandito la loro protesta contro "il disprezzo totale dei diritti fondamentali". Ma in attesa che sia fissata una data certa per il referendum (ipotesi più solida, il 12 giugno), le statistiche illustrano uno scenario zoppo, più che svenduto, dove i privati sono presenti senza stravincere: "Dei soggetti affidatari", dice l'ultima relazione parlamentare del Conviri, "57 sono società pubbliche, 23 a capitale misto e nove quotate in Borsa", mentre soltanto sette hanno un assetto al cento per cento privato.

"La riprova", a sentire il presidente del Conviri, che "l'innovazione è bloccata da interessi locali, incapacità gestionali e utilizzo conservatore dell'acqua da parte dei politici, i quali vorrebbero lasciare tutto immobile, tariffe incluse, pur di mantenere il consenso". E a sostegno di questa visione, riassunta dallo slogan "il punto non è gestione pubblica o privata dell'acqua, ma gestione valida o meno" (stesso approccio di Ermete Realacci, responsabile green economy Pd), arriva un aneddoto da Ascoli Piceno, dove gestisce l'acqua la società pubblica Ciip (Cicli integrati impianti primari) spa: "Qui siamo al paradosso", sostiene un funzionario: "Da una parte l'assemblea dei sindaci, che deve monitorare il territorio, ha invitato a inizio 2010 il gestore idrico di aumentare le tariffe". Dall'altra parte, gli stessi sindaci, "in quanto soci dell'spa che segue l'acquedotto, si sono espressi in un primo momento contro l'aumento da loro stessi indicato, giustificando la scelta con "la congiuntura economica nazionale e internazionale" e l'effetto stabilizzante della tariffa". Anche se il sospetto, riferisce il funzionario, "è che il problema fossero le elezioni in arrivo...".

Un groviglio vivisezionato, per competenza, dal Conviri. E non è certo l'unico. Ad allarmare Passino e colleghi, è anche l'inarrestabile dispersione registrata negli acquedotti italiani. Il dossier di Cittadinanzattiva, in particolare, rivela che il record del 2009 è andato al Molise, con il 65 per cento di acqua svanita, seguito da Basilicata (58 per cento) e Abruzzo (45). Altrettanto significativo, è che il 54 per cento degli italiani sostenga di "non bere normalmente acqua di rubinetto", con una percentuale che al nord scende al 50 per cento, ma al Sud schizza al 64. E mentre qua è là, timidamente, affiorano isole quasi felici, come Arezzo (dove il servizio è affidato alla società pubblico-privata Nuove Acque spa) o Firenze (gestore Publiacqua spa), spuntano altri capitoli bui: come quello dei depuratori. "Un mese fa", spiega Stefano Lenzi, capo dell'ufficio legislativo di Wwf Italia, "la Commissione europea ha chiesto alla Corte di giustizia di condannare il nostro Stato per violazione delle normative sull'acqua". E nel suo studio, dice Lenzi, "la Commissione ha indicato 178 città italiane sopra ai 15 mila abitanti senza impianti di trattamento delle acque reflue, o reti fognarie, conformi alle regole Ue".

Tradotto in regioni, le tabelle indicano che in Sicilia il 46,1 per cento dei residenti non è servito da depuratori. Altrettanto gramo è il conteggio in Campania, dove non c'è depurazione per il 33 per cento degli abitanti. Ma il caso più eclatante, forse, è quello della Lombardia, la civile Lombardia che per Cittadinanzattiva è all'ultimo posto come dispersione idrica (17 per cento), e al primo con Milano per il costo più basso del servizio (106 euro annui). "Eppure anche qui", dice Legambiente, "il 22, 2 per cento degli abitanti non è raggiunto da depuratori, il che vuol dire che restano esclusi 2 milioni 162 mila 874 lombardi".

La verità, a detta di Mauro D'Ascenzi, numero due della Federutility in cui convergono le aziende idriche, "è che quando si ragiona di acqua, ci si indigna per le tariffe troppo alte, peraltro un quinto di quelle tedesche, o per lo stato pessimo di certi acquedotti. Ma non si discute, quasi mai, della questione in generale, dove s'incastrano urgenze come le mutazioni climatiche o il massiccio utilizzo dell'acqua potabile per l'irrigazione agricola". Temi da non sottovalutare, avverte D'Ascenzi, "se vogliamo garantire l'acqua, cioè un bene in via di esaurimento, alle future generazioni".
Che è saggio, come approccio. E condivisibile. Ma deve battersi con le contraddizioni dell'Italia 2011, dove "l'acqua viene trattata senza rispetto, in un caos di regole e controregole", per citare Ermete Realacci. Un destino che ha segnato, e non poco, la vita degli Ato (Ambiti territoriali ottimali), le assemblee di Comuni e sindaci che dal 1994 programmano i servizi idrici, scegliendo a chi affidarli e stabilendo le tariffe. "Il problema", dicono al Conviri, "è che a tre lustri dalla riforma, 23 Ato non hanno avviato il sistema idrico", ovvero non hanno concluso le procedure per l'affidamento del servizio a una società, mentre "sei Ambiti non hanno neanche approvato il piano operativo".

Con simili premesse, secondo gli addetti ai lavori, "sarebbe stato logico rafforzare queste strutture locali, dotandole della necessaria efficienza". E invece no, dice il deputato Raffaella Mariani, capogruppo del Pd in Commissione ambiente: "Con un decreto legge del 25 gennaio, il governo ha cancellato gli Ato, concedendo dodici mesi alle Regioni per garantire comunque la regolazione del servizio".

Un pasticciaccio, secondo Mariani: "Tanto dannoso, che la Regione Veneto ha presentato ricorso contro il decreto". E il particolare bizzarro, aggiunge, "è che a sponsorizzare la morte degli Ato c'erano anche i fedelissimi del ministro leghista Roberto Calerdoli". Il che conferma, parole di Mariani, "quanto certa politica, sul fronte idrico, faccia proprio acqua...".

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