Attualità
marzo, 2011

Ma si può mangiare giapponese?

Nei nostri ristoranti il pesce, anche quello crudo, proviene dal Mediterraneo. A rischio sono semmai la soia, il wasabi, l'aceto, il the verde e i piatti a base di alghe. Piccola guida per chi non rinuncia ai sushi bar (FpS Media)

Wasabi, the verde, alghe e impasti di soia. Se qualche italiano comincia a temere il "sushi atomico", in realtà gli unici ingredienti della cucina nipponica da cui guardarsi sono questi quattro, perché i soli che normalmente partono dal paese del Sol Levante per approdare nei nostri ristoranti giapponesi.

Sono alcuni dei dati rilevati da un'inchiesta de L'Espresso in una dozzina tra i principali ristoranti giapponesi a Milano, la piazza regina dei "sushi bar" in Italia.




Proprio nei giorni in cui l'Organizzazione mondiale della Sanità ha lanciato l'allerta globale sulla possibile contaminazione di alimenti provenienti dal Giappone. Ma in Italia il sushi non deve far paura.
Dall'inchiesta si scopre che nel Bel Paese il pesce declinato all'ombra della tradizione del Sol Levante in piatti prelibati come il sashimi di gambero crudo o i filettini d'orata e branzino, è un alimento mediterraneo. O tutt'al più scandinavo, se si tratta di salmone. Ma in ogni caso «il tonno migliore ce l'abbiamo qui, non certo nel Pacifico» spiega Claudio Liu, gestore del ristorante milanese Iyo. Basti pensare che il 70% del tonno rosso pescato in Italia finisce in Giappone. E, a conferma di questa tesi, Liu mostra alla telecamera l'ultima bolla di acquisto del pesce per il ristorante, dove sono certificati i paesi di provenienza dei singoli prodotti e non compare nessuna nazione orientale. I dati non smentiscono Liu: l'Italia, nell’intero 2010, ha importato appena 700mila euro di pesce dal Giappone, e in totale circa 13 milioni di euro in cibo, ovvero lo 0,03% dell’intero comparto agroalimentare in entrata da altri paesi.

Nel capoluogo lombardo si contano almeno 300 ristoranti, take-away e sushi bar, considerando anche l'hinterland. A Milano il sushi è diventato un alimento popolare, consumato alla stregua di un sandwich nelle pause pranzo. E così da almeno dieci anni questi locali conoscono un boom di clientela inesausto nella città meneghina. Un successo che non pare sia stato scalfito dalle probabili contaminazioni nucleari di cui alcune zone del Giappone sono vittime.

«Non abbiamo riscontrato nessuna diminuzione della clientela» testimonia Bukui Wu, proprietario di una catena di quattro ristoranti cino-giapponesi a Milano. Infatti, il business florido del sushi-sashimi ha scatenato gli appetiti di ristoratori di diverse nazionalità: oggi nel capoluogo meneghino sono pochissimi i ristoranti giapponesi amministrati da gestori di origine nipponica. Per la maggior parte, sono cinesi i proprietari dei sushi bar meneghini. Così come di matrice cinese è la Uniontrade, il principale distributore di prodotti di complemento (come le alghe, le salse e il sakè) per la maggior parte dei ristoranti nipponici milanesi. «Ci sono gestori coreani, cingalesi, arabi» racconta Liu «l'importante è la qualità dell'elaborato culinario, non la provenienza etnica di chi lo cucina».

Anche diversi italiani gestiscono ristoranti giapponesi, come Antonio Scognamiglio, uno dei proprietari del "Bento" nel centralissimo Corso Garibaldi. «Solo un cliente mi ha chiesto in questi giorni da dove compravamo i nostri prodotti – spiega – ma non prevedo nessuna fobia verso il cibo giapponese». Stessa percezione della stragrande maggioranza degli intervistati: il cliente si fida del ristoratore e non mette in discussione la qualità del cibo che consuma.

E per quanto riguarda gli ingredienti a rischio secondo i ristoratori non si pone un grande problema. «Il wasabi o il the verde, ad esempio, sono prodotti anche in Cina e Corea – riprende Liu – passare dal fornitore giapponese a un altro asiatico non andrà certo a compromettere la qualità dei prodotti che vendiamo nei nostri ristoranti».

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