Grande successo di critica e di pubblico per “Perfect Days” di Wim Wenders, candidato all’Oscar tra i miglior film in lingua straniera. Uno dei più significativi autori del Nuovo Cinema tedesco, partendo da un progetto sostenuto dalla Nippon Foundation - che vedeva coinvolti noti architetti per la realizzazione dei servizi igienici nella zona di Shibuya - scrive una lettera d’amore per la città di Tokyo; un’altra dopo “Tokyo Ga” (1985) e “Appunti su moda e città” (1989).
Si riaccende la fascinazione per il Giappone, tra richiami alla poesia haiku e al cinema di Ozu Yasujirō, grazie alla vita di un uomo, che quotidianamente si desta con il fruscio di una scopa, ripone ordinatamente il futon, esce di casa, accennando un sorriso in vista del cielo, e si reca in città, dove, con scrupolosa dedizione, svolge il suo lavoro: pulire i bagni. Schivo, mite, partecipe di tutto ciò che vibra nel suo orizzonte visivo ed emotivo - esseri umani, alberi, spiragli inattesi nella megalopoli ipertecnologica - il protagonista appare come un moderno interprete della dottrina Zen, tra illuminazioni (“Komorebi”, ovvero il baluginio della luce del sole tra le foglie), discrezione nelle relazioni umane, libertà dal superfluo, dall’attaccamento ai beni materiali, ma anche dalle parole («Adesso è adesso, la prossima volta è la prossima volta» è una delle poche frasi, rivolta alla giovane nipote); lui stesso espressione di un mondo già trascorso, ma non ancora dimenticato, fatto di libri a prezzo economico, pagine da sfogliare, Olympus, rullini, foto in bianco e nero, audiocassette e un gioco infantile che consiste nel sovrapporre le ombre. Il film è una partitura di segni, ispirati ad un approccio contemplativo della vita, pago del presente, che privilegia l’essere rispetto al fare ed esprime nostalgia per un ideale, uno stile di vita, forse un orizzonte di senso, che, pur rappresentando lo sguardo di un occidentale sulla cultura nipponica, tocca corde profonde a differenti latitudini.
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D’altro canto molto dell’immaginario occidentale è presente nel cinema e nella società giapponese e, al di là delle peculiarità dei registi, si configura un cinema dai temi universali, che rende anche più comprensibile il motivo del successo internazionale di tanti film.
La società giapponese post-bubble (la bolla economica degli anni Ottanta e primi anni Novanta) ha attraversato una lunga fase di stagnazione economica e cambiamenti sociali: crescente invecchiamento della popolazione dovuto al calo di natalità; incremento del flusso migratorio per richiesta di manodopera straniera; innalzamento del debito pubblico; maggiore precarietà nel lavoro (si pensi al bel film “Tokyo Sonata”, del 2009, incentrato su sotterfugi e menzogne a seguito del licenziamento del padre); mutamenti nelle aspettative di genere e crescente partecipazione delle donne nel mercato del lavoro; crescita esponenziale dei casi di disadattamento giovanile (di cui la “trilogia dell’alienazione” di Shion è specchio deformante e prisma); crisi del sistema educativo per via della sua estrema competizione e crisi della famiglia come nucleo tradizionalmente coeso; dematerializzazione della vita reale attraverso i social-media, e infine alcuni tragici eventi come l’attacco terroristico dell’Aum Shinrikyo; il disastro di Fukushima nel 2011 e il recente assassinio di Shinzō Abe. Il cinema giapponese, da sempre partecipe ai più importanti festival internazionali e spesso insignito dei premi più prestigiosi, ha metabolizzato e rappresentato queste tensioni, adottando pratiche innovative e soluzioni creative. Oggi vanta una produzione molto ampia, sostenuta da una politica di promozione, voluta a livello governativo, a cui contribuiscono l’aumento delle coproduzioni internazionali, lo scambio culturale tra diversi Paesi e una sincera ambizione a diffondere un’immagine attraente a livello economico, turistico, culturale, attraverso moda, giochi televisivi, fiction, J-pop, robot, manga, i più vari anime. Qualche titolo: “Weathering With You” del 2020; “Jujutsu Kaisen 0”, 2021; “Ponyo”, 2008, ovvero dai disastri naturali che investono la società giapponese del primo, al fantasy classico il secondo, alla magia di Myazaki Hayao.
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Significativa la formula dei seisaku iinkai, una sorta di “comitati di produzione”, in cui ciascuno partecipa con investimenti minimi alla realizzazione, distribuzione e promozione soprattutto di film a basso budget e in digitale. Ad esempio, il lungometraggio animato “La città incantata”, del 2003 (Orso d’oro a Berlino e Oscar miglior film d’animazione) è stato sì realizzato da Studio Ghibli, ma anche dal distributore Tōhō, la compagnia pubblicitaria Dentsū, la Nippon Television Network Corporation, la Nestlé Japan e la catena di supermercati Lawson. Ci si muove su diversi canali, sfruttando le sinergie per contrastare la concorrenza di altre produzioni e del web, favorendo la proliferazione dei soggetti su più media. Si pensi alla “lunga vita” di alcuni videogame o manga, come il celebre “Death Note”, scritto da Oba Tsugumi, illustrato da Obata Takshi, pubblicato su Weekly Shonen Jump tra il 2003 e il 2006; ebbene è stato il punto partenza per un soggetto di una serie animata, un live action, un musical, alcuni videogiochi, tanto merchandising, cinque lungometraggi e uno spin-off, “Change the World”, nel 2008. Questa formula di partnership transmediale ottimizza la relazione con altri media narrativi e contribuisce a creare un immaginario popolare condiviso, spesso dominato dalla rappresentazione dei giovani e delle loro sottoculture.
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Pluralità di linguaggi, molteplicità di codici visivi, eterogeneità di temi e generi, eccentrico sperimentalismo e audaci ibridazioni (come quelle di Takashi Miike: da “Full Metal Yakuza”, 1997, a “Sukiyaki Western Django”, del 2007). Dentro questa complessità, difficile da perimetrare, “coabitano” lucertoloni giganti (Godzilla e kaijū succedanei); robot-bambini dal cuore umano (Astro Boy), ma anche enormi tanuki, gatti pelosi e spiritelli della fuliggine, provenienti dal sorprendente mondo de “Il mio vicino Totoro”; yakuza dal fascino inquietante (“Hana-bi”,1997), massaggiatori ciechi e giocatori d’azzardo (“Zatoichi”, 2003) o versione vampiro (“Yakuza Apocalypse”, 2015); samurai e ronin tormentati dal conflitto interiore (come in “Zan”, del 2018, di Shinya Tsukamoto, così profondamente politico nel suo antimilitarismo, proprio mentre Abe sferrava l’attacco alla costituzione pacifista); e ancora jidaigeki (film storici in costume) restituiti a nuova vita grazie al taglio intimista dell’eroe (“Twilight Samurai”, 2006, di Yamada Yōji o “Hana”, 2006, di Koreeda) o un’estetica dalla straordinaria potenza cinetica e coreografica (“13 Assassini”, 2010); yōkai (demoni) e yūrei (fantasmi) in cerca di vendetta (come nel malinconico, terrificante, “Dark Water”, 2002), ma anche scenari apocalittici post-Evangelion (la serie di “Anno Hideaki”, disegnata da Sadamoto Yoshiyuki, godibile su Netflix), momenti di raffinato lirismo, audace erotismo pinku-eiga, documentarismo (ad esempio quello partecipato di Hara Kazuo); un numero sempre più nutrito di donne alla regia: Naomi Kawase (“La foresta di Mogari”, 2007; “Hikari”, 2017), Tanada Yuki (“One Million Yen Girl”, 2008; “Romance”, 2015), Hamano Sachi, e tanto J-horror. A questo genere appartengono titoli diventati cult, alcuni oggetto di remake, come “Cure”, 1997; “Pulse”, 2001; “Creepy”, 2006, di Kiyoshi Kurosawa; “Ring”, del 1998 di Hideo Nakata; “Ju-on: The Grudge”, 2002, di Takashi Shimizu; lo sconvolgente “Audition”, del 1999 e il noto “The Call”, 2003 di Miike, lo spregiudicato e disturbante “Cold Fish”, 2010 di Sono e, recentemente, “One Cut of the Dead”, 2019, commedia sugli zombie, realizzata con budget irrisorio, dall’esordiente Ueda Shinichiro con attori sconosciuti. Anche se in Giappone i maggiori successi sono le commedie romantiche, intrecciate con elementi di magia, o i racconti, realistici e fantastici, di ambientazione sia storica che contemporanea. Insomma accanto ai grandissimi registi del passato - Mizoguchi, Ozu, Kurosawa, Oshima,Imamura - si delinea oggi una luminosa teoria di nomi importanti. Si va dal pulp dello straordinario Kitano al Cyberpunk di Tsukamoto (“Tetsuo: The Iron Man”); dai personaggi femminili di Hiroki Ryuichi (“Vibrator”, 2003) alla delicata commistione di toni drammatici e comici in film come “Departures” di Takita Yojiro (Oscar miglior film straniero nel 2009); dalla visionarietà grondante sangue di Miike (“Agitator”; “Dead or alive”) ai provocatori incubi di Sono Shion (il salto delle studentesse in uniforme scolastica, dalla banchina della metropolitana di Shinjuku, in “Suicide Club” costituisce una delle sequenze più sconvolgenti della contemporaneità e della disperata necessità di essere in gruppo per mettere fine a solitudine e isolamento).
Infine due giganti: Ryûsuke Hamaguchi, che con il suo talento visivo-sonoro e il suo sguardo introspettivo dissolve il confine tra materiale e immateriale, evidenza e mistero (“Drive my car”, 2021; “Il male non esiste”, 2023) e Koreeda Hirokazu (“Nessuno lo sa”, 2004; “Father and Son”, 2013; “Little Sister”, 2015; “Ritratto di famiglia con tempesta”, 2016; “Un affare di famiglia”, 2018), che, senza rinunciare alla tenerezza, racconta l’anaffettività di adulti incapaci di occuparsi dei figli, l’indifferenza della società rispetto ai deboli, il vincolo d’amore che unisce famiglie allargate non biologiche, la violenza del pregiudizio, l’urgenza di sentimenti veri, i rapporti di forza che muovono la società e il valore del denaro che ne ingrassa le leve.