Il terremoto del marzo scorso è stato molto più distruttivo di quello che ha colpito l'Abruzzo nel 2009. Ma il confronto su quello che è successo dopo è davvero impietoso

Da un punto di vista culturale, Giappone e Italia sono lontani quanto lo sono geograficamente. Ciò nonostante, questi due Paesi hanno in comune alcune straordinarie rassomiglianze. Entrambi sono fieri delle proprie tradizioni manifatturiere, ma si preoccupano per esse a causa della lenta crescita economica e dell'agguerrita concorrenza cinese; entrambi hanno una società civile in rapido invecchiamento, nella quale i giovani pertanto si sentono privi di opportunità e relegati a condizioni di lavoro di secondo piano; entrambi amano la propria cucina, dalle grandi qualità e presentazione; entrambi hanno una politica paurosamente disfunzionale, nella quale la casta dei politici si preoccupa per lo più di soldi e di potere, e assai poco di politiche pubbliche; entrambi, infine, sono assillati dalla criminalità organizzata, che spesso intrattiene loschi intrallazzi con i politici.

Un mese fa, tuttavia, ci è stata rievocata un'altra analogia tra i due Paesi, forse più sostanziale: Giappone e Italia si trovano entrambi in zone molto attive dal punto di vista sismico, piene di vulcani e soggette a terremoti violenti e devastanti. Oggi, ed entro un paio di anni al massimo, scopriremo invece quanto diversi possano essere questi due Paesi.

La ricostruzione dell'Aquila, dopo il terremoto del 6 aprile 2009 che ha provocato la morte di 308 persone, non è ancora iniziata, benché molti dei 65 mila sfollati rimasti senza tetto abbiano adesso un nuovo alloggio. La ricostruzione dell'enorme area del nord-est del Giappone - colpito l'11 marzo scorso dal quarto terremoto più violento che si ricordi nella storia e immediatamente dopo da un devastante tsunami che ha raso al suolo le comunità costiere lungo oltre 400 chilometri di coste, causando la morte di 25-30 mila persone e fino a 300 mila sfollati - sta già iniziando.

Certo, l'entità dei due disastri è incomparabile. La devastazione subita dal Giappone equivarrebbe alla perdita da parte dell'Italia (e alla conseguente necessità di ricostruire da zero) dell'intero litorale adriatico compreso tra Pescara e Chioggia, un'area che facilmente trasformerebbe la ricostruzione in un progetto nazionale. Ma il Giappone non dimentica Tohoku nel modo in cui l'Italia ha più o meno obliato L'Aquila.

Visitare L'Aquila e l'area di Tohoku nel nord-est del Giappone è come vivere due esperienze del tutto diverse. Quando l'estate scorsa mi sono recato in macchina all'Aquila, ho avuto la sensazione di entrare in una città fantasma, sorretta e puntellata da impalcature. La settimana scorsa sono partito in macchina da Sendai, la più importante città di Tohoku, provando una sensazione da brivido, ma in un senso diametralmente opposto: se in albergo non mi fossi accorto che non c'era acqua calda - perché le tubature sono ancora rotte - difficilmente avrei potuto desumere che quella zona era stata colpita da un violentissimo terremoto. A differenza degli edifici storici dell'Aquila, quelli di Sendai (popolata da un milione di persone) sono moderni, e molti di essi sono costruiti nel rispetto delle più avanzate tecnologie antisismiche. Soltanto avvicinandosi alla costa ci si rende pienamente conto che lì è accaduto qualcosa di catastrofico.

Le prove dell'accaduto sopraggiungono poco alla volta. Al limite della zona colpita dallo tsunami, ci si imbatte soltanto in ammassi enormi di fango e detriti, da tutte le parti. Alcune automobili sono disseminate in luoghi inverosimili, in mezzo ai campi. Ciò non sarebbe così strano se ci trovassimo in una città americana come Detroit o nei suoi dintorni, come pure in alcune aree di Londra o di Napoli, mentre qui, in Giappone, la loro vista indica in modo immediato e palese che qualcosa non va. Poco dopo si avvistano edifici le cui pareti riportano il segno lasciato dal fango, a uno o due metri di altezza rispetto al suolo, e lungo le strade sono ammassati mobili e arredi fradici d'acqua provenienti dalle case alluvionate e disposti in perfetto ordine, per essere raccolti dai camion e smaltiti.

Poi, subentra la sensazione più irreale di tutte: percorrendo una strada non si avvista alcun segno di una catastrofe recente. Costeggiamo una baia riparata dove si coltivano ancora alghe e ostriche, dove maturano ancora le verdure, dove la vita pare andare avanti immutata. Svoltata una curva, si entra di colpo in zona di guerra. Anzi, come fa notare uno dei miei compagni di viaggio - un ex soldato australiano che oggi lavora per Save the Children - è molto peggio rispetto a una zona di guerra. Pur essendo stato a Timor Est, in Afghanistan, in Iraq e in altri teatri di guerra, dice di non aver mai visto una distruzione su così vasta scala.

La guerra, quanto meno i bombardamenti a tappeto di Dresda e Tokyo, o le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, non hanno mai annientato città e villaggi così completamente come lo tsunami dell'11 marzo. Si ritiene che Onogawa, la prima cittadina portuale dedita alla pesca che ho avuto occasione di visitare, sia stata spazzata via da un'onda alta una trentina di metri o anche più, abbattutasi tra le colline da ogni lato. La forza devastante di quell'onda ha raso al suolo edifici di cemento alti fino a tre piani, ha scaraventato automobili e barche sui tetti degli edifici più alti rimasti parzialmente in piedi, ha trasformato ogni altra cosa in cumuli di legname e detriti domestici. È uno spettacolo terribile e allo stesso tempo impressionante.

Si sono instaurati molti paragoni con Hiroshima e Nagasaki, specialmente quando lo tsunami ha comportato il timore di una fusione nucleare e di esplosioni alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi, a sud di Sendai. La corsa a stabilizzare Fukushima è tuttora in corso, e si lavora a scongiurare i timori che le radiazioni si possano propagare fino a Tokyo, popolata da 40 milioni di persone, che da sola produce circa la metà del Pil annuale giapponese. Al momento, perciò, invece delle somiglianze in termini di devastazione, sarebbe opportuno sottolineare le differenze rispetto alle esplosioni delle bombe atomiche nel 1945.

La più grande dissomiglianza è data dal fatto che lo tsunami e il rischio nucleare dell'11 marzo sono stati esperienze molto più traumatizzanti rispetto alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, per un motivo molto importante. Le atomiche, infatti, come il bombardamento a tappeto di Tokyo, esplosero al termine di una lunga guerra, alla quale ci si era ormai più che abituati. Il disastro dell'11 marzo si è verificato all'improvviso, a metà di un normale pomeriggio, in uno dei Paesi socialmente più stabili e ricchi del mondo.

Il trauma, indubbiamente, è avvertito in modo più intenso a Tokyo e nel nord del Giappone rispetto alle città più meridionali come Osaka e Kyoto. Malgrado tutto, su una cosa si può tranquillamente scommettere: nel secondo anniversario dello tsunami dell'11 marzo, nessuna emittente televisiva giapponese trasmetterà un film come "Ritorno all'Aquila: le promesse infrante", pellicola realizzata da una piccola società cinematografica di Torino, la Move Production, e mandata in onda su Al Jazeera Witness il 6 aprile. La pellicola, priva di forti connotazioni politiche, mostra in che modo il governo centrale italiano abbia abbandonato L'Aquila, senza dare neppure il via alla ricostruzione. In Giappone il governo centrale sta già assumendo il controllo della situazione ed è risoluto a non desistere.

Per scoprire che cosa accadrà, ho parlato con Kaouru Yosano, anziano veterano politico giapponese, ex ministro delle Finanze durante gli ultimi governi guidati dai liberaldemocratici, il Ldp, partito politico al potere fino al 2009, quando è stato sconfitto per la prima volta dal 1955. Da allora Yosano è diventato un indipendente, è stato reclutato dal nuovo partito al governo, il partito democratico giapponese di centro-sinistra (Dpj), come ministro dell'Economia e delle Politiche fiscali. Oggi, con la sua grande esperienza e i suoi contatti con tutto lo spettro politico, potrà essere una figura sulla quale contare.

Il Giappone presenta molte cose in comune con l'Italia anche a livello politico, specialmente nel comportamento della sua casta politica. Nondimeno, c'è un'enorme e fondamentale differenza: in Italia le istituzioni dello Stato sono rimaste deboli dall'unificazione del Paese avvenuta 150 anni fa, mentre quando in Giappone negli anni Sessanta dell'Ottocento si visse una fase analoga ne nacque prima di tutto un forte Stato centrale, al punto che quando vissi in Giappone come corrispondente dell'"Economist" negli anni Ottanta si dava ancora per scontato che fosse l'apparato burocratico a guidare effettivamente il Paese e che ai politici non restasse che fare i loro giochetti con i capitali.

Quel sistema crollò finanziariamente nel decennio successivo, negli anni Novanta, periodo caratterizzato da stagnazione e comprovata corruzione burocratica che portò a una sensazione di profonda insoddisfazione nei confronti delle istituzioni dello Stato. Per ottenere la sua travolgente vittoria del 2009, il Dpj ha promesso in campagna elettorale che ad assumere effettivamente il potere sarebbero stati i politici, che sarebbero subentrati alle iniziative dei ministeri. Questo è quanto ha fatto il nuovo governo, ma ne sono derivati caos, tentennamenti, un quasi immediato rimpiazzo del primo ministro, fino ad arrivare a quello attualmente in carica, Naoto Kan, ex attivista sociale.

Secondo Yosano, la catastrofe dell'11 marzo porterà adesso a due grandi cambiamenti. Il primo è che entro i prossimi due mesi il Dpj e i vecchi dirigenti dell'Lpd formeranno una grande coalizione, un "governo di unità nazionale", per gestire la pianificazione e assolvere al compito di legiferare su come procedere più facilmente alla ricostruzione. I vecchi professionisti della politica di fatto subentreranno ai benintenzionati dilettanti del Dpj. Il secondo cambiamento è che la grande coalizione chiederà all'apparato burocratico di assumersi nuovamente le sue responsabilità.
Ciò sta già accadendo: i ministri giapponesi divennero famosi per aver pianificato la ricostruzione post-bellica e così avvenne ancora con la pianificazione della ripresa giapponese dal primo forte shock petrolifero all'inizio degli anni Settanta, che provocò una consistente rivalutazione dello yen.

Adesso, avendo nuovamente un obiettivo chiaro e un altrettanto chiaro mandato, l'apparato burocratico si è rimesso in moto e molto probabilmente darà ben presto prova di tutta la sua efficacia.

Come mi ha riferito Yosano, occorre adesso occuparsi di quattro cose molto importanti e fondamentali. La prima è determinare la portata e l'entità dei danni, compresa la perdita diretta di abitazioni, industrie e infrastrutture, e il calo della produzione energetica (si stima che attualmente la capacità produttiva sia del 25 per cento inferiore al picco estivo) derivante dalla chiusura delle centrali nucleari e dai danni subiti anche da alcuni impianti energetici alimentati a combustibile fossile. La seconda è valutare le conseguenze a lungo termine della fuga di radiazioni di Fukushima, quantificando altresì i risarcimenti che dovranno essere versati, e capire se le aree circostanti alla centrale sono abitabili. La terza consiste nel lavorare sodo per mettere insieme i capitali per la ricostruzione e gli indennizzi. La quarta è appurare se occorreranno riforme a più ampio raggio, sia per mettere in sicurezza altre zone del Giappone da eventuali futuri tsunami, sia per generare quella veloce crescita economica che sarà necessaria a star dietro e ripagare l'enorme debito pubblico del Paese.

Questi debiti, pari al 200 per cento del Pil, rendono quello italiano del 120 per cento quasi irrisorio. Il costo totale della ricostruzione, grazie a capitali pubblici e privati, sarà tutt'altro che modesto, in ogni caso: forse arriverà ai 400 miliardi di euro, spalmati su più anni, per un ammontare equivalente al 10 per cento del Pil del Giappone. L'onere che il Giappone dovrà sobbarcarsi è davvero immane. Eppure già ci si muove: i primi evacuati il 9 aprile sono stati alloggiati in abitazioni provvisorie; la linea ferroviaria ad alta velocità che collega Tokyo e Sendai, chiusa per i danni arrecati dal terremoto, riaprirà alla fine di aprile; e la ricostruzione vera e propria avrà inizio dopo l'estate. La corsa per battere L'Aquila è già iniziata.

Giornalista, scrittore, ex direttore di "The Economist", collaboratore di "The Times"; il suo libro più recente è "Forza Italia - Come ripartire dopo Berlusconi" (Rizzoli).

Traduzione di Anna Bissanti

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