Una norma ambigua. Che ogni questura interpreta in modo diverso. E così migliaia di extracomunitari vengono accolti in Italia o rispediti a casa senza alcuna certezza del diritto. Con alcuni casi limite

«Appena ho le ferie vado a casa». In Senegal, M.B. non torna dal 2004, l'anno del suo arrivo in Italia. Oggi di anni ne ha 26 e lavora come domestico per una famiglia triestina. È uno dei 300 mila immigrati che ha fatto domanda di regolarizzazione con la sanatoria colf e badanti del settembre 2009. Il permesso di soggiorno, dopo un ricorso al Tar, l'ha ottenuto pochi giorni fa, quasi due anni dopo. Ha la voce fioca ma sorride: sa che poteva andargli peggio. Un suo connazionale 35enne, N.N., a casa c'è tornato con rimpatrio coatto senza preavviso prefettizio. «L'hanno convocato in Questura a fine gennaio 2010 - racconta Cheickh Niang, cittadino extracomunitario -  quando è entrato erano già pronti per mandarlo a Dakar». Dopo il vaglio del giudice di pace è stato caricato su un aereo in partenza da Milano. In poco più di dodici ore, nessuna possibilità di appello, la sua pratica era sbrigata.  

Due storie triestine di emersione dal lavoro nero finite all'opposto: una con regolare contratto di assunzione, l'altra con (vera) espulsione. Eppure in entrambi il problema era identico: i due immigrati non avevano rispettato dei precedenti decreti di allontanamento, reato per il quale in Italia, prima dell'intervento dell'Unione Europea, era prevista la pena detentiva.

«Noi abbiamo rispettato la normativa», fanno sapere dall'ufficio immigrazione della Questura, «tra le cause ostative della sanatoria c'era l'inottemperanza a un passato ordine di espulsione». Ma l'interpretazione, per tanti, è erronea. Gianfranco Schiavone del Centro Italiano di Solidarietà spiega: «La causa del rigetto era una condizione della domanda, cioè lo status di irregolare. Oltre che illogica, la questione è di diritto: il reato contestato non poteva rientrare in nessuna fattispecie penale che escludeva alla sanatoria».

Il dubbio viene a molti, non solo alle organizzazioni per i diritti dei migranti. Le questure d'Italia interpretano a macchia di leopardo: chi per il diniego della domanda, chi per l'accoglimento. Il Ministero tentenna, almeno fino alla "circolare Manganelli", quando il Capo della Polizia fa passare la linea della fermezza: il rimpatrio coatto di Trieste ha fatto scuola. «Su 493 domande complessive, 39 sono state bloccate a causa di una precedente espulsione», spiega l'impiegata allo Sportello Unico Immigrazione.

Decine a Trieste, percentuali più alte a Pordenone, migliaia in tutta Italia: «Al ribasso - ipotizza Schiavone - circa 15 mila persone».  Persone che, da piazza Unità alla torre di via Imbonati a Milano, non ci stanno. «È stata una truffa - commenta Bathie, un passato da metalmeccanico e sindacalista – probabilmente si preferisce il lavoro nero».

Nell'anarchia interpretativa si mobilita anche la piazza e il gruppo locale del Comitato 1 Marzo. E la protesta si fa petizione quando personalità in vista della città giuliana si schierano contro la Questura: il giornalista Paolo Rumiz, Margherita Hack e lo scrittore Pino Roveredo. Annodata a queste tre cime una fitta rete di solidarietà resta in attesa delle pronunce della giustizia amministrativa (Tar e Consiglio di Stato).

Poi arriva l'intervento dell'Unione Europea: la direttiva comunitaria sui rimpatri non prevede la detenzione come sanzione penale per gli immigrati irregolari. Italia bocciata. Trasposto nella sanatoria significa che un precedente decreto di espulsione non è reato ostativo alle richiesta di regolarizzazione. Il Consiglio di Stato prende atto, come pure il Ministero dell'Interno, diramando due circolari e recependo, in ritardo, la direttiva con l'ultimo "decreto Maroni". Anche dalla Prefettura di Trieste assicurano che stanno riesaminando i casi, anche se ormai molti migranti sono stati rispediti a casa e non avranno più soldi per tornare in Italia, dopo essere stati illegalmente espulsi.

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