Diverse ricerche lo confermano: il cervello dei 'nativi digitali' è diverso da quello di chi non frequenta la Rete e i social network. Si trasformano le emozioni, la concentrazione, la memoria. Ecco come

È un cambiamento progressivo, invisibile, inevitabile. Connessioni che si attivano, aree che si atrofizzano, altre che si sviluppano. Capacità che migliorano, abilità che si perdono. Accade ogni qualvolta mandiamo un sms, leggiamo una mail, sfogliamo l'edizione web di un giornale, scarichiamo un video, postiamo un contenuto su un blog o su Facebook, affettiamo al volo un frutto virtuale sullo smartphone. Che sia un bene o un male, non è ancora dato sapere. Certo è che l'era digitale incide, pesantemente, sulla nostra attenzione, sulla nostra memoria, sulla concentrazione e sul ritmo dei nostri pensieri. E incide pesantemente sul comportamento, soprattutto degli adolescenti che scambiano il web con la vita reale. Perché modifica in modo permanente l'organo bombardato dal flusso ininterrotto di informazioni: il nostro cervello.

Un cervello da web, dicono per esempio i ricercatori dello University College di Londra, ha una quantità superiore di materia grigia nell'amigdala. Sarà vero? No, secondo gli scienziati della Jiao Tong University Medical School di Shanghai: nel cervello degli Internet-dipendenti (una sindrome che ha anche il suo acronimo, Iad, e dal maggio 2013 anche un paragrafo dedicato nel prossimo Dsm-IV, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) si trova una anomala quantità di materia bianca - i fasci di fibra nervosa rivestiti di mielina che garantiscono il collegamento tra l'encefalo e il midollo spinale - nelle aree preposte all'attenzione, al controllo e alle funzioni esecutive. Come del resto si osserva anche nei cervelli dei dipendenti da alcol e sostanze stupefacenti, nonché nei giocatori compulsivi di videogame.

Ovvio, dicono i neurofisiologi: ogni esperienza, di qualunque tipo essa sia, modifica il cervello: navigare sul web, ma anche bere una tazza di tè, provoca dei cambiamenti a livello neuronale. Come un qualunque organo sottoposto ad allenamento, anche il cervello può essere plasmato e rafforzato con della buona ginnastica mentale. Eppure l'uso di Internet è così recente, così diffuso e così rapidamente in aumento, che appare legittimo interrogarsi sul modo in cui questa eterna e continua connessione influenzi il modo di pensare della specie umana.

Da un lato, dunque, gli ottimisti. Come i ricercatori inglesi che hanno studiato l'"effetto Facebook" sul cervello di 125 giovani volontari. Ai ragazzi sono state poste domande del tipo: quanti nomi compaiono sulla tua agendina telefonica? Quante persone inviteresti a una festa? Quanti legami hai mantenuto con i tuoi compagni del liceo o dell'università? E infine: quanti amici hai su Facebook? Osservando poi il cervello dei volontari con tecniche di imaging in 3D, gli studiosi hanno notato un aumento nella materia grigia nell'amigdala proprio nelle persone che dichiaravano di avere il maggior numero di amici sulla rete sociale. E l'amigdala, fanno notare i ricercatori sui "Proceedings of the Royal Society B", è la regione predisposta alla gestione delle emozioni e della memoria. Se queste differenze cerebrali costituiscano una causa, o un effetto, della capacità sociale, non è ancora chiaro. Resta il fatto che il cervello di chi ha dimestichezza con il social network è "diverso" da chi non ce l'ha.

«Da tempo le neuroscienze cognitive ci dicono che il cervello è flessibile, e che gli strumenti che si usano influiscono sulla sua plasticità. Il punto», commenta Paolo Ferri, docente di Tecnologie didattiche e Teoria e tecnica dei nuovi media presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Milano Bicocca: «Non è spaventarsi se il cervello cambia, ma capire come indirizzare questo cambiamento». Per questo Ferri non è preoccupato dalle tesi del giornalista americano Nicholas Carr, editorialista globale ("The New York Times", "The Financial Times", "The Guardian", "Wired"), blogger appassionato (http://www.roughtype.com), studioso del rapporto tra tecnologia, economia e cultura. Nonché autore di "The Shallows: What the Internet Is Doing to Our Brains", che nell'edizione italiana (Raffaello Cortina) ha acquistato un sapore ancora più amaro: "Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello".

La tesi di Carr è relativamente semplice, e riprende concetti già elaborati dal grande teorico americano della comunicazione Marshall McLuhan: non solo i media modellano il processo del pensare, ma lo fanno in modo subdolo, facendoci perdere alcune delle capacità che hanno contraddistinto sino ad oggi la nostra specie. E al vertice della piramide dei colpevoli, ovviamente, c'è Internet. La Rete, scrive Carr, sembra per esempio mandare in frantumi la concentrazione. «Qualche anno fa ho cominciato a preoccuparmi della mia capacità di prestare attenzione a un'unica cosa per più di due minuti». E i suoi amici gli fanno eco: «Non potrei più leggere "Guerra e Pace"», ammette Bruce Friedman della University of Michigan Medical School: «Anche un testo di tre paragrafi su un blog è troppo lungo».

Non solo. Da quando naviga in Rete, Carr dice di leggere assai meno libri che in passato. E ha il terrore di restare disconnesso: il suo cervello chiede di essere alimentato in continuazione, controllando le mail, cliccando sui link, aggiornando i profili sui social network. Per non parlare della memoria: messe in soffitta le tabelline (tanto ci sono le calcolatrici), da quando esiste Facebook è pressoché inutile anche ricordarsi il compleanno di un amico.

In questo senso, a gettare altre ombre sui pericoli del Web ci si è messa anche Betsy Sparrow, del Dipartimento di Psicologia della Columbia University di New York. Che su "Science" ha pubblicato i risultati del suo studio condotto su un centinaio di studenti del campus. Secondo la ricercatrice, sapere di poter contare su una "memoria esterna" - per esempio un computer dove immagazzinare le informazioni - rende il cervello meno pronto a ricordare nomi, date, concetti. L'ennesimo esempio di rimbambimento da Internet, apparentemente. Ma non è esattamente così: perché lo studio dimostra anche che chi delega almeno in parte la propria memoria a un dispositivo, è comunque più pronto di altri a saper ritrovare su quel dispositivo stesso le informazioni che vi ha archiviato. È un segno, commenta Roddy Roediger della Washington University, di come stia semplicemente cambiando la nostra strategia di memorizzazione: ci sembra più importante ricordare non tanto il dato in sé, ma il luogo nel quale l'abbiamo immagazzinato.

Forse non ci rende stupidi, insomma, ma certo quella che "Newsweek" ha chiamato la "twitterizzazione della cultura" produce un carico di informazioni che a volte resta incagliato nei meandri del nostro cervello, e ci appesantisce quando si tratta di prendere decisioni all'istante. Gli esperimenti di Angelika Dimoka, direttore del Center for Neural Decision Making della Temple University, sono un buon indicatore del fenomeno. Dimoka lo ha verificato chiedendo a un gruppo di volontari di partecipare a una sorta di asta, prendendo in esame, prima di effettuare l'offerta, una serie di variabili così da ottenere la migliore combinazione al prezzo più basso.

All'aumentare del numero di parametri da tenere in conto, aumentava anche il numero di offerte sbagliate. E analizzando il loro cervello con la risonanza magnetica funzionale, la ricercatrice si è accorta che al crescere del carico informativo, aumentava anche l'attività della corteccia prefrontale dorso laterale, la regione responsabile dei processi decisionali e del controllo delle emozioni. Superata una certa soglia di parametri da considerare, però, l'attività di quell'area cerebrale subiva un drastico calo, come se le troppe informazioni generassero una sorta di black out cognitivo durante il quale i partecipanti all'asta non riuscivano a formulare offerte congrue, e mostravano segni di ansia e stanchezza mentale. Non dev'essere un caso se nella sua edizione del 2009 l'Oxford English Dictionary ha inserito tra i lemmi la "information fatigue", la sindrome da stanchezza informativa, tipico prodotto dell'era di Internet.

A rassicurare gli apocalittici dovrebbero però essere i risultati di una ricerca condotta da Chris Stiff, della Keele University, e presentata al meeting della British Psychological Society. Secondo Keele, l'uso di Facebook da parte degli studenti universitari ne rafforza l'autostima e il benessere, soprattutto nel primo quadrimestre di studi: più amici, più messaggi e commenti, più sicurezza e felicità, dice in sostanza l'indagine condotta su 141 studenti del campus.

Non solo. L'ultima indagine sulla "dieta mediale digitale" che ogni due anni il laboratorio di Ferri svolge sugli studenti dell'ateneo milanese dice che questi ragazzi non sono poi così digitali come li si crede: perché usano ancora poco gli strumenti di condivisione 2.0, come Flickr, e conoscono meno di quanto ci si potrebbe aspettare le piattaforme come YouTube. Neppure Linkedin, utile per raggiungere il mercato del lavoro, viene utilizzato al meglio delle sue potenzialità. L'unica buona notizia, se così si può dire, è che questi studenti non guardano quasi più la televisione, mezzo assai meno interattivo e stimolante di Internet. Certo, leggono pochi libri. Ma questo accadeva anche prima dell'avvento del Web.