Anche oggi sulla mia scrivania, tra la posta, ce n'è uno. Redatto secondo lo standard europeo: è un curriculum con la speranza, prevalentemente frustrata, di un posto di lavoro. Dietro questi moduli fin sontuosi si nascondono tante storie personali e, purtroppo, anche illusioni (forse al Vaticano si pensa come la meta per un posto non solo fisso, ma eterno...). Certo è che nella stessa antropologia religiosa, se il legame con Dio e con l'anima è radicale, se l'amore è la meta terminale, centrale rimane il lavoro.
Si legge, infatti, nella Bibbia che l'uomo è creato "a immagine di Dio" e che questa immagine è nella relazione d'amore tra maschio e femmina; ma si legge pure che l'uomo fu collocato nel giardino del mondo "perché lo coltivasse e lo custodisse". È significativo che la figura centrale del cristianesimo sia quella di un operaio, figlio di operai. Gli stessi compaesani di Gesù di Nazaret, di fronte alla fama che sta conquistando, "scandalizzati" ironizzano: "Ma non è costui il téktôn figlio di Maria?" (Matteo 6,3). E continuano: "Non è costui il figlio del téktôn?" (Matteo 13,55).
La parola greca usata dagli evangelisti significa "falegname/carpentiere" e, dato il contesto economico-sociale di allora, non è possibile immaginare un'attività di impresa di costruzioni o di artigianato, ma una modesta e faticosa professione popolare. Ecco, proprio su questo aspetto dovrebbero riflettere coloro che inviano il loro curriculum. Certo, il lavoro è - lo dicevamo seguendo la Bibbia - centrale, la persona è completa solo quando è divenuta l'homo artifex o technicus che conosce, coltiva, custodisce la realtà.
Ma non bisogna dimenticare che la stessa parola "lavoro" deriva dal latino labor che significa "fatica" e fin "sofferenza", donde il francese travail che suppone un "travaglio" proprio sulla scia della Genesi che al riguardo è realistica: "Col sudore del tuo volto mangerai il pane".
Non c'è bisogno di Pavese per sapere che "lavorare stanca". I titoli, spesso retorici (si sa bene cosa siano certi corsi pomposamente chiamati master...), celano il sogno di carriere e, comunque, di impieghi in attività "liberali", mentre l'opera del téktôn - leggi idraulico, calzolaio, badante, cameriere e così via- opera altrettanto nobile ma dà fatica e sudore, viene automaticamente esclusa dal proprio orizzonte come indegna.
Labor-lavoro non è però solo fatica ma anche "sofferenza". Innanzitutto quando il lavoro proprio non lo si trova e le statistiche lo attestano impietosamente. Certo san Paolo polemizzava coi "misticoidi" di Tessalonica: "Se uno non vuol lavorare, allora neppure mangi", frase cara persino a Lenin. Ora, però, c'è chi vuole ma non può lavorare e quindi fatica a mangiare. Ancora: pensiamo alla sofferenza delle famiglie dei disoccupati, veri e propri drammi invisibili dietro le fredde pareti dei condomini.
Ancora: labor è spesso il lavoro non solo per i giovani ma in particolare per le donne. Accanto al curriculum, proprio oggi ricevo un saggio di Andrea Bianchi intitolato "Uomini che lavorano con le donne": il sottotitolo è ottimista perché, a ragione, riconosce che "diversity e inclusion creano valore in azienda". Eppure non si può ignorare che le "pari opportunità" sono ancora "impari" e che il mobbing è un dato tutt'altro che raro.
Lavorare è, dunque, faticoso in ogni senso, e creano sdegno sia l'improduttività di molti che il posto fisso l'hanno ottenuto e se lo tengono con rendita parassitaria sia l'arroganza dei detentori di patrimoni immensi o di compensi spropositati, talora ottenuti in modo scandaloso, e persino con un vero e proprio furto (è cronaca politica di questi giorni), sia l'impudenza impunita dell'evasione fiscale e della corruzione. Eppure, nonostante tutto, è indiscutibile quello che scriveva Primo Levi nella "Chiave a stella": "L'amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta della felicità sulla terra".