Anche in queste ore di nuove scosse e di paura, i social network sono i primi a diffondere notizie e segnalazioni. Ma aiutano i soccorsi o fanno confusione? E come potrebbero essere resi davvero utili?

Quando ci fu il terremoto in Abruzzo il fatto che le prime notizie e richieste d'aiuto fossero arrivate via Twitter era considerato una novità, una grossa cesura informativa rispetto al passato. Stiamo parlando, in fondo, solo di tre anni fa. Per le scosse in Emilia, invece, tutti hanno considerato "normale" che i social network abbiano iniziato a segnalare quel che stava accadendo prima della tivù, delle agenzie, dei siti di informazione. «Enorme scossa di #terremoto ORA #modena #sanfelice. pare che le case siano ok, interni case distrutti. gente in strada», scrive su twitter alle 4,13 del mattino il blogger ed esperto di Web Gianluca Diegoli, neanche dieci minuti dopo la prima scossa

«Per quasi 40 minuti Twitter è stata la sola fonte informativa disponibile. La televisione dava altro, il sito dell'Ansa non forniva nessuna notizia su quanto stava accadendo», spiega Giovanni Boccia Artieri, docente di Sociologia dei new media alla "Carlo Bo" di Urbino. Ma il sito di microblogging, dice Artieri, quella notte non è stato solo luogo di condivisione di paura o immagini: «Le prime informazioni su epicentro e magnitudo sono comparse da chi ha twittato i dati dei sismografi, i primi consigli sono stati dati da profili di persone che si occupano di sicurezza. Molti hanno messo a frutto la loro creatività e competenza per mappare gli eventi restituendo una sintesi efficace e geolocalizzata, un'informazione costruita collettivamente dai cittadini».

In tutto questo scambio di informazioni on line, nota ancora Boccia Artieri, è mancata la Protezione Civile, che in Italia non ha ancora creato un sistema per la rielaborazione e l'utilizzo dei tweet sulle emergenze. Un compito non facile, peraltro: le segnalazioni sui social network non sempre rispecchiano la reale ubicazione delle maggiori urgenze, e nel giro di poche decine di minuti lo stesso hashtag #terremoto è stato invaso di commenti inutili e fuffa variegata, inquinando così gravemente l'utilità del mezzo.

Eppure l'idea di sfruttare i siti sociali per una gestione più rapida ed efficiente dei disastri non è peregrina. Anzi, in America stanno già cercando di farlo attraverso un'iniziativa chiamata Smem, Social Media Emergency Management: «Molte organizzazioni hanno compreso l'importanza dei media sociali per coinvolgere le comunità di riferimento in un dialogo continuo», spiega Kim Stephens, esperta di gestione delle emergenze e leader del blog iDisaster 2.0. «Lo Smem punta a incrementare la capacità delle istituzioni di comunicare pericoli o emergenze in tempo reale ma anche di raccogliere e filtrare le informazioni fornite "dal basso", migliorando la risposta e l'uso delle risorse». Lo Smem propone quindi «un nuovo modello di comunicazione social per i rischi e l'emergenza», perché se i cittadini sono "sensori" sul territorio, le informazioni che rilevano in caso di necessità devono essere attendibili, verificate e utilizzate al meglio. 

Qualche precedente positivo del resto lo abbiamo avuto anche in Italia: già nel 2010 il Comune di Monza aveva fatto bene su Facebook per l'esondazione del fiume Lambro. A Bologna, durante la nevicata eccezionale di inizio febbraio 2012, si è presentato uno scenario degno di attenzione: come racconta Michele D'Alena, referente per l'Agenda Digitale dell'Amministrazione comunale, molti cittadini armati di tablet e smartphone si sono trasformati in "sensori" sul territorio e hanno iniziato a "trasmettere" sotto la bufera, twittando e condividendo su Facebook informazioni, lamentele e richieste associate all'hashtag (parola chiave preceduta dal simbolo del cancelletto) #boneve. E a differenza dei romani, che di lì a poche ore sarebbero sprofondati nel caos rimanendo abbandonati a se stessi, gli emiliani non erano soli. Qualcuno li ascoltava conversare sui social, sperimentava, provava a dare risposte: «C'è chi ha chiesto e ottenuto via Twitter l'intervento degli spazzaneve in strade secondarie - conferma D'Alena - divenute rilevanti per l'alto numero di segnalazioni georeferenziate pervenute».

Ma qual è la ricetta per una buona comunicazione istituzionale sui social? «E' necessario saper ascoltare, selezionare le fonti, instaurare una comunicazione bidirezionale che sappia coinvolgere gli utenti, costruire con loro un rapporto di fiducia che li trasformi in collaboratori attivi», afferma D'Alena, lasciando anche ben intendere che queste cose non si improvvisano. Inoltre è importante «monitorare le fonti, individuare l'hashtag univoco intorno a cui aggregare i contenuti e diffonderlo nel network; quindi selezionare, verificare e rilanciare i contenuti utili». In una parola, partecipare.

Gente che si dà da fare, che ci prova insomma: «Su Twitter sono presenti istituzioni come il Comando dei Vigili del Fuoco di Pavia (@vvfpavia) e L'Anpas (@anpasnazionale) che curano e valorizzano la propria presenza on line interagendo e pubblicando contenuti aggiornati», dice Luca Tempestini, social media strategist da anni impegnato nel volontariato. Ma il tutto in assenza di un programma coordinato, di linee guida condivise che coinvolgano i soggetti più importanti in questi casi, come Croce Rossa, Protezione Civile o anche Guardia Costiera. 

Un contesto confuso e ancora acerbo, quello italiano. «Il tema Smem ci sta molto a cuore», risponde Titti Postiglione, dirigente dell'ufficio volontariato, formazione e comunicazione della Protezione Civile, «e già da tempo studiamo i social media per capire come cogliere le molte opportunità». L'istituzione è presente su Facebook, dove al momento informa la comunità «usando uno strumento nuovo per fare comunicazione tradizionale». Ma è per spiegare l'assenza da Twitter che la Postiglione arriva al cuore del problema Smem in Italia: «La Protezione Civile gestisce una variegata rete di attori articolata in diversi livelli di coordinamento sul territorio. Ne consegue che condividere con tutti una prassi di comunicazione non è semplice». Eppure il vero ostacolo è un altro: «Se non siamo su Twitter è per responsabilità», dice Postiglione, «perché sappiamo che è uno strumento di comunicazione globale dove i cittadini manifestano necessità iperlocali, come chiedere info su una strada bloccata o segnalare una lesione sul muro di un palazzo. A queste istanze non si può rispondere centralmente, da lontano. Serve un sistema tanto articolato quanto la rete della Protezione Civile, e noi stiamo cercando di capire come agire. Sono in gioco delle vite e non possiamo improvvisare». 

Del resto, ad esempio, il primo tweet sul terremoto del 2009 non arrivò dall'Abruzzo («C'è appena stata una scossa di terremoto a Roma: ha dondolato il palazzo!!», ore 3.36 del 6 aprile): tempestivo sì, ma inutile se non addirittura fuorviante. Insomma la totale spontaneità alla base del fenomeno ha messo in evidenza le potenzialità del mezzo, ma anche la duplice necessità di creare rapidamente una nuova grammatica dell'emergenza e di dotare gli operatori di nuovi strumenti interpretativi.

Il problema è anche questo: spesso l'utente non ha sufficienti informazioni o competenze per individuare e raccontare l'emergenza. E, peggio ancora, non sa neanche cosa può dire e cosa no, con il reato di "procurato allarme" che incombe ad ogni tweet (solo la Protezione Civile può dichiarare l'emergenza). Appare dunque chiaro perché sia necessario il presidio dei canali social da parte delle istituzioni: purtroppo dal 2009 a oggi - esempi virtuosi a parte - poco è cambiato in questo senso. Del resto, «gli attori che si muovono sotto la protezione civile sono molti e diversi tra loro, e definire degli standard operativi comuni non è cosa semplice. Men che meno lo è formare gli operatori che dovrebbero metterli in pratica», spiega Elena Rapisardi, esperta di gestione delle informazioni in emergenza e rischi naturali. 

Lo Smem Manifesto italiano, promosso tra gli altri dalla stessa Rapisardi con Tempestini e con Michele D'Alena, referente per l'Agenda Digitale del Comune di Bologna, fornisce una serie di indicazioni per «segnalare emergenze e rischi in modo collaborativo e resiliente» frutto della collaborazione on e offline tra persone con competenze diverse, ma tutte coinvolte a vario titolo nella gestione delle emergenze. Come sintetizza Rapisardi, c'è «bisogno di un cambiamento culturale a tutti i livelli, tale da permettere agli operatori, ai giornalisti e ai semplici cittadini di adoperare sui social media un linguaggio chiaro, semplice e univoco durante le emergenze. «Solo così», conclude, «sarà possibile una vera "resilienza", ovvero la capacità di un sistema, di un'organizzazione o di una singola persona di reagire in modo preparato in situazioni di crisi».  

Fermo restando, come sta scritto in un ufficio americano, che «in caso di terremoto prima si scappa, poi si twitta».