Torviscosa, Friuli. Insomma, il 'ricco nordest'. Qui fino a pochi anni fa tutti avevano uno stipendio a fine mese. Ora le fabbriche hanno chiuso e i negozi pure. Rapporto da un luogo simbolo dell'Italia in recessione

Della macelleria, sotto il portico di piazza del Popolo, restano il banco di cristallo e gli scaffali. Le saracinesche sulle tre vetrine sono state abbassate per sempre. L'ultima sera il macellaio le ha chiuse a chiave e se n'è andato. Come lui è andato via il fruttivendolo. Via la lavandaia. Via il calzolaio. Anche Fabris-vendetutto ha chiuso. Dove c'erano il bar di via Roma, il ristorante, l'alimentari ora sulla porta sbarrata risalta il cartello della decisione estrema. Vendesi. Il grande parco al centro del paese ha filari di panchine su cui nessuno si siede più. Fuggono i giovani diplomati e laureati. Emigrano. Disposti a fare i gelatai in Germania, come i loro nonni. Oppure alla ricerca di ciò che l'Italia non offre. Comunque all'estero. La nuova emigrazione ha il volto di Alice Rustico, 28 anni, laurea in scienze internazionali e diplomatiche, in partenza per l'Australia. Di Monica Gazzola, 26 anni, 110 e lode in istituzioni e politiche dei diritti umani, traslocata a Bruxelles. Di Ennio Cescutti, 31 anni, meccanico, finito a dirigere un'officina in Nigeria. Di tanti altri ancora.

Un dettaglio nel loro passaporto li unisce. L'origine. Sono tutti nati e cresciuti in Friuli Venezia Giulia. Province di Pordenone e Udine. Dove prima incontravi i miti e la retorica del Nordest. Proprio qui, il Nordest è già un ricordo. La crisi sgretola una vita da benestanti. E svuota le case. A Peonis e Trasaghis, alle porte della Carnia. Così come a Torviscosa, sulla strada per la laguna, il paese che ha perso il macellaio, il fruttivendolo, la lavanderia, il calzolaio, Fabris-vendetutto, un bar, un ristorante, il negozio di alimentari. E soprattutto sta perdendo la sua industria chimica: la fabbrica-monumento in mattoni rossi che dal 1938 ha distribuito stipendi a tre generazioni.

La grande depressione appare dove meno te l'aspetti. Come in questo ambulatorio dentistico a Pradamano, appena fuori la periferia sud di Udine. Perché anche se siamo nel Nordest, per un buon numero di friulani la salute è ormai un lusso. Andrea Fattori riceve pazienti da gran parte della provincia. E da qualche tempo i denti malati non si curano più. Si tolgono. La soluzione che costa meno. "Non ho fatto un'indagine statistica, ma è aumentato il numero di pazienti che rinuncia a curarsi", spiega il medico, consigliere dell'Andi, l'associazione dei dentisti: "Scelgono l'estrazione. È una tendenza netta che rivela l'esistenza di una sofferenza economica". Nel territorio vivono migliaia di disoccupati, cassintegrati, operai in pensione. Messi insieme, ciascuno di loro ha una ragione per tagliare le spese. In Veneto le conseguenze della recessione sono più diluite. In Friuli si concentrano in una geografia di paesi senza lavoro. Manzano è a pochi chilometri, con il suo distretto della sedia prosciugato dalla concorrenza cinese. Torviscosa è nascosta nelle campagne, qualche chilometro oltre i bastioni di Palmanova. Un paradosso se la si confronta con Buttrio, piccolo paese più a nord, dove l'ufficio risorse umane delle acciaierie Danieli sta addirittura aumentando dal 5 al 35 per cento la quota di ingegneri stranieri: di italiani non se ne trovano. Ma qui nella Bassa friulana, intorno alla città-fabbrica diventata modello d'architettura, nei grandi capannoni è tornato il silenzio.

Cento anni fa Torviscosa non è ancora un Comune autonomo. Si chiama Torre di Zuino. Una striscia di case sul bordo della palude. E un castello, distrutto dagli incendi che accompagneranno la disfatta di Caporetto. Cosa significhi abitare qui nel 1912 lo scrive a un amico don Annibale Zoratti, l'allora parroco di Malisana, il borgo più vicino: "Topograficamente sono messo al confine d'Italia e del mondo". E in un'altra lettera dell'11 luglio 1922 al presidente dell'amministrazione provinciale di Udine: "Qui alla Bassa, a Torre Zuino e a Malisana... la febbre malarica ritorna. È ritornata. È qui tutti i giorni a farci battere i denti dal freddo, a farci crepare dal caldo. E i ventri si gonfiano pieni di milza. E i visi si colorano pieni di morte... Dottore! Discendi una volta fino a noi e vedrà se io non dico il vero. Vedrà tanti nostri poveri bimbi dall'occhio smorto, affatto scarni o gonfi con una pelle scura, come sporca di terra. E i loro piccoli ventri tondi come otricelli".

Quattro bambini di quella generazione decimata dalla malaria e dalla malnutrizione sono Mario Borinato, classe 1912, Alcide Fontana, 98 anni, Ottorino Sesso, 92, e Biagio De Corte, 89. Sono gli ultimi sopravvissuti che possono raccontare di aver partecipato, dopo la bonifica delle paludi, alla costruzione del grande stabilimento della Snia Viscosa.

"Il 1938 rimane nella storia di Torre di Zuino come l'anno di maggior sconvolgimento e di una radicale trasformazione degli uomini e delle cose", dice Enea Baldassi, classe 1928. Dopo 35 anni nella Snia, Baldassi è il presidente di "Primi di Torviscosa", l'associazione che custodisce i documenti di quel periodo e, come risultato dell'emigrazione friulana del Dopoguerra, raccoglie iscritti in tutto il mondo. I grandi album sugli scaffali del suo ufficio conservano le foto del 21 settembre 1938 quando Benito Mussolini e Franco Marinotti, l'artefice del progetto, inaugurano lo stabilimento.

Nel 1941 Torviscosa diventa Comune autonomo con i nuovi quartieri per operai, impiegati e dirigenti. Case fornite di teleriscaldamento, tuttora funzionante. Il nome deriva dalla viscosa, la fibra tessile artificiale che la Snia produce con la "tecnica di Torviscosa". Nelle campagne bonificate si coltiva la canna gentile. Nella fabbrica la si trasforma in cellulosa. E poi in filato. Sette canne, un vestito.

Come il titolo di un cortometraggio da collezione di Michelangelo Antonioni, venuto a Torviscosa nel 1949 per documentare il miracolo friulano.

La crisi della cellulosa negli anni ha poi portato alla separazione dell'azienda agricola dalla Snia. Una parte della tenuta è tuttora controllata da Ennio Doris, il banchiere socio di Silvio Berlusconi, e dalla famiglia Andretta, allevatori di Tombolo, provincia di Padova. Il resto finisce ai Ferruzzi. Ma dopo le conseguenze del crac Montedison, passa a Sergio Cragnotti. E dopo Cragnotti alla Parmalat di Callisto Tanzi. Un crac dopo l'altro.

Il colpo di grazia arriva dal cielo. È l'11 settembre 2008. Gli elicotteri dei carabinieri sopra il paese guidano il blitz dei Nas nello stabilimento della Caffaro, ultima società del gruppo Snia a gestire la fabbrica. Sotto accusa è il vecchio impianto di celle a mercurio per la produzione di cloro e soda caustica. Il livello di inquinamento nella vicina laguna di Grado e Marano non ammette rinvii. Operai in cassa integrazione. Azienda in liquidazione. Dopo settant'anni, fine del modello Torviscosa.

Andrea Fonzar, 51 anni, abita in uno degli appartamenti costruiti per gli operai nel 1938. Era addetto all'essiccazione del cloro e alla sintesi dell'acido cloridrico. È in cassa integrazione dal gennaio 2009. Trentacinque anni di contributi, di notti, domeniche e Natali trascorsi in fabbrica. E un futuro che non lascia dormire. "Sì, ho cominciato a lavorare a 16 anni", racconta: "La cassa integrazione è di 900 euro al mese. Veniamo da famiglie povere, abituate ai sacrifici. Non avendo figli, 900 euro bastano ancora per vivere. Ma quello che manca è la dignità, il riconoscimento del lavoro che abbiamo fatto. Fuori non si trova niente. E comunque alle agenzie interinali ti dicono che sopra i 29 anni non prendono nessuno. Anche se hai un bagaglio tecnico non indifferente. Ci sono miei amici che si sono sentiti rispondere che sono troppo esperti. Ho due colleghi che a 51 e 45 anni sono costretti a vivere con i genitori. Troppo vecchi per essere ripresi a lavorare. Troppo giovani per andare in pensione".

È la generazione del guado. Tra padri e figli, l'Italia sta tornando indietro. "Mio papà è andato in pensione con 28 anni di turni in fabbrica e 35 complessivi di lavoro", spiega Fonzar: "Aveva 52 anni, ora ne ha 76. Prende 1.200 euro al mese che è più di uno stipendio di adesso. Io con gli stessi anni di contributi non solo non so se e quando andrò in pensione. Non so nemmeno cosa ci succederà quando a settembre la cassa integrazione potrebbe terminare senza un rinnovo". Sua moglie, Cinzia Allegro, 50 anni, lavora come raccoglitrice stagionale di ortaggi. Un mestiere che nella Bassa friulana non è mai passato totalmente agli stranieri come nelle altre regioni d'Italia. Segno di una crisi latente. Sveglia alle quattro del mattino. Giornate sotto la pioggia o sotto l'afa. Da primavera all'autunno. "Anzi", dice lei, "quest'anno di stranieri non se ne sono visti. Siamo solo italiani, uomini e donne. Giovani e meno giovani".

In cassa integrazione come Andrea Fonzar, come Pietro Passero, 42 anni, moglie e due figli piccoli, ci sono 85 dipendenti. Gli ultimi. Un centinaio è stato riassorbito in altre imprese. Per gli altri nel frattempo è scattata la pensione. Ma è l'indotto che si è perso senza nessuna protezione. Gran parte dell'attività era affidata a cooperative e società esterne. Tra fallimenti, chiusure e trasferimenti sono quasi 700 i posti di lavoro scomparsi. Così il limite psicologico dei 3 mila abitanti è stato infranto. È successo nel 2011: 2.978 residenti, dai 3.024 del 2010. Erano 4.022 nel 1951, 3.809 nel 1971, 3.402 nel 1991. A fine gennaio 2012 si sono ulteriormente ridotti: 2.962. I pensionati, quelli sopra i 65 anni, sono 871. Quasi uno su tre. Malisana, la frazione più antica, 800 persone negli anni Settanta, è caduta a 437. Meno dei 500 abitanti censiti nel 1911 dal parroco don Annibale. La fotografia è quella di un paese sovradimensionato nelle strade, nei parcheggi, nei giardini pubblici quotidianamente deserti. E nel numero dei negozi: su 24 spazi commerciali, 11 sono chiusi. In vendita, in affitto. O abbandonati. Come è abbandonato il grande teatro. Cresce invece il numero di iscritti alla biblioteca comunale: con la crisi sono saliti a mille, un terzo degli abitanti.

Lodovico Rustico, 62 anni, ricercatore di storia locale, ha documentato il passato di centinaia di famiglie della zona partite per il mondo. L'ha raccolto in un sito Internet, unico in Italia, che ricostruisce in automatico il proprio albero genealogico. Per trent'anni l'emigrazione si era fermata. La prossima a partire sarà sua figlia, Alice. "Lo scorso dicembre", racconta la ragazza, "sono andata a trovare nostri parenti che dopo 56 anni in Suda- frica sono emigrati in Australia, a Perth. E lì ho visto che le opportunità ci sono se sei giovane, bravo e ti impegni. In Australia c'è una grande richiesta di insegnanti madrelingua. Quindi farò un master di sei mesi in lingua italiana per adeguare la mia laurea. Progetto di partire tra un anno. Il sistema di reclutamento è on line, trasparente. Al primo anno lo stipendio è di 1.800 euro al mese. Poi aumenta. Sì, qui un lavoro l'avevo. Impiegata in un'agenzia che organizza eventi. Mille euro al mese. Uno stipendio che a 28 anni non mi permetteva nemmeno di vivere sola".

Lo zio che la aiuterà a Perth era partito da Torviscosa nel 1954. "Per dirlo ai miei", continua lei, "a fine gennaio li ho portati fuori a cena. Papà era entusiasta. La mamma ha avuto bisogno di qualche minuto per interiorizzare la mia decisione. Della mia università a Gorizia, a lavorare all'estero sono già andati una decina. So che se non cambio ora, magari tra dieci anni mi guardo indietro e mi pento".

Due compagni di corso di Alice Rustico vivono a Londra. Lui cresciuto in provincia di Pordenone, 29 anni, la mamma figlia di friulani emigrati in Canada, è stato assunto al ministero degli Esteri britannico, dipartimento immigrazione. Lei, 27 anni, di San Daniele, sta perfezionando la laurea con un master in politica mediorientale. L'unico lavoro che il Friuli le aveva dato era un posto da impiegata in un mobilificio.

Samantha, 21 anni, diploma di perito turistico, ha invece lasciato un piccolo paese della provincia di Udine per lavorare in una gelateria in Germania. Chiede l'anonimato perché non ama parlare della sua scelta di emigrare. "Ho una sorella che abita a Conegliano e suo marito è socio di diverse gelaterie in Germania. Non ho mai avuto un lavoro in Italia", dice, "a parte uno stage in un'agenzia di viaggi e la promessa di assunzione. Invece è stata l'ennesima bastonata. Sì, oggi lavoro in Germania. Una gelateria italiana. A turno preparo coppe gelato, sto alla cassa, servo ai tavoli. Decidere non è stato facile. Mi sono gradualmente convinta che fosse l'unica cosa da fare per ottenere l'indipendenza economica. La sera prima di partire i miei amici mi hanno organizzato una festa a sorpresa. Più tardi mi ha accompagnato a casa un'amica d'infanzia e per tutta la strada non ci siamo dette niente. Avevamo un nodo alla gola. Arrivate sotto casa, abbiamo pianto".

Eros Cescutti, il meccanico emigrato in Nigeria, è partito da Vito d'Asio in provincia di Pordenone: "L'azienda dove lavoravo è andata in crisi nel 2009. Non avendo famiglia, ho deciso di lasciare il posto a un mio collega che aveva famiglia e mutuo. In Nigeria mi sento realizzato. Guardo l'Italia quando rientro e non mi ci ritrovo più". Elena Mazzola, 34 anni, di Udine, lavora a Bruxelles nella direzione Africa Centrale della Commissione europea. Nicola Pizzuti, 33 anni, architetto di San Giovanni al Natisone, si è trasferito a Vienna. Monica Gazzola a Bruxelles è arrivata da Pordenone. Suo fratello, 27 anni, architetto, è emigrato a Rotterdam. Matteo Rodaro, 35 anni, ha lasciato Trasaghis per fare il cuoco a Palma di Maiorca: "Perché in Italia si lavora tanto ma si guadagna poco".

Altri sono rimasti dentro i confini. Come Maja de' Simoni, 40 anni, triestina, manager a Catania: "In Friuli Venezia Giulia", spiega, "l'economia ha cominciato a stagnare molto tempo fa. A macchia di leopardo grandi eccellenze. Ma fuori, la palude. Poche idee, nessun coraggio. Le migliori teste della mia generazione andate".

Tra i pensionati che ogni mattina si ritrovano sulle poltrone vintage del bar Circolo a Torviscosa, ecco Elvio Passero, 68 anni, per anni segretario regionale del settore agricolo della Cisl. Di crisi ne ha mediate tante. "Di questa però", commenta, "non si vede nessuna via d'uscita. Le zone industriali dei paesi vicini non sono più in grado di assorbire quanti perdono il lavoro". Il futuro e la salute di Torviscosa dipendono ancora una volta dalla bonifica. Come cento anni fa. Questa volta la palude è chimica. Novecentomila metri quadri inquinati dalla fabbrica. Mercurio e peci benzoiche, spiega il sindaco Roberto Fasan. Per questo nel 2002 il governo ha nominato un commissario delegato per la bonifica della laguna di Grado e Marano. Dopo dieci anni, il 6 aprile il premier Mario Monti ha revocato lo stato d'emergenza. Secondo le indagini della procura di Udine, l'ufficio non ha prodotto nulla. Tre commissari e una decina di imprenditori indagati per truffa, 133 milioni stanziati dallo Stato inutilmente. Anche in questo il Nordest friulano si rivela tristemente italiano.

ha collaborato Silvia Cerami

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