Daniele Stolfo è un imprenditore friulano con un centinaio di dipendenti. Che ha portato la produzione in Austria. Non in Cina o in Romania: in Austria, dove il costo del lavoro è più alto. Perché il vero nemico in Italia, dice, è fatto di burocrazia infinita e infrastrutture penose. Altro che articolo 18

Un campo incolto ai margini della zona industriale è quello che rimane. Crescono le erbacce al posto della fabbrica. Ventotto da assumere e mai assunti. Cespugli di artemisia selvatica piegati dal libeccio. Due milioni di investimento sfumati. L'azienda che doveva sorgere qui l'hanno fatta scappare in Austria. Non in Cina, non in Romania. Addirittura in Austria, dove la manodopera costa più che da noi.

È l'ultima frontiera del nostro suicidio nazionale. Una storia come tante altre. La solita aggressione della burocrazia statale e locale che come la metastasi divora idee, progetti, speranze. È la storia di Daniele Stolfo, 54 anni, uno dei 287 imprenditori italiani che hanno trovato ospitalità tra la Carinzia e Vienna. Così come hanno fatto negli ultimi anni la Petraglas (vetro per pannelli solari) partita dalle Marche, la Total Healthcare Innovation (tecnologie sanitarie) dal Lazio, la Cougar (vernici) dal Veneto, l'Europlast (recipienti di plastica) dalla Campania, la Tr Produktion (calzature) dalla Lombardia, la Danieli (acciaierie) dal Friuli Venezia Giulia. Tutte con sede in Italia. E, adesso, uno o due piedi in Austria.

Per incontrare Daniele Stolfo bisogna venire a Flumignano, frazione di Talmassons, provincia di Udine. Quattromila abitanti tra vigneti verde smeraldo e campi dorati dal frumento maturo. L'uscita dell'autostrada a Palmanova. E poi la statale Napoleonica, al centro di quel «piccolo compendio dell'universo, alpestre piano e lagunoso» che nelle parole di Ippolito Nievo è il Friuli. L'insegna dell'azienda dipinta sul cemento del capannone appare da lontano. Tra il campo di artemisia e un allevamento di polli. La Refrion è una società a responsabilità limitata. Produce scambiatori di calore per grandi sistemi di climatizzazione e refrigerazione. Tra i primi quattro marchi in Europa per i modelli aerorefrigeranti. Un milione di capitale. Clienti in Italia, Svizzera, Germania, Olanda. Un impianto installato nello stadio degli Europei di calcio a Varsavia. Fatturato in crescita pure nel 2011: quasi 20 milioni, 39 per cento in più rispetto al 2010. Trentotto dipendenti nella sede legale e nell'officina di assemblaggio a Flumignano. Nove nella controllata Rms, sempre a Flumignano. Ventisette nello stabilimento di Villa Santina, in Carnia. Diciotto nella Refrion Kältetechnik Gmbh di Hermagor in Carinzia. E altri dieci che si aggiungeranno nel paese austriaco entro la fine del 2012, non appena l'investimento sarà portato da uno ai due milioni previsti.

Un gruppo di 102 persone che finora non hanno incontrato crisi.Daniele Stolfo è figlio della generazione del Nini, l'Eligio, il Milio, i friulani raccontati da Pier Paolo Pasolini nel suo primo romanzo "Il sogno di una cosa". Ed è coetaneo delle centinaia di cassintegrati sparsi oggi nella Bassa friulana tra Torviscosa e Manzano. I padri di famiglia che per la loro età non trovano più lavoro. Eppure qui a Talmassons di opportunità ce ne sarebbero. Anzi, ce ne sarebbero state. Sono state cancellate in nome del primato della pubblica amministrazione. Del suo agire ormai acefalo, autoreferenziale, illogico su tutto. Sull'economia, la libertà d'iniziativa, la vita delle persone. La storia dell'uscita della Refrion e di Stolfo dai confini comincia proprio dal campo incolto. Diecimila metri quadri di vuoto tra gli uffici della sede legale e lo stabilimento della controllata Rms, vicolo Malvis, strada senza uscita nella zona industriale del paese.

«Abbiamo acquistato il terreno», racconta Stolfo seduto alla sua scrivania: «Un terreno agricolo contiguo alla nostra area industriale. Un lotto incluso tra due stabilimenti che mi serviva come ulteriore sfogo per ampliare il nostro capannone nel rispetto delle più civili norme sulle distanze. Avremmo occupato una parte dell'area con un magazzino di stoccaggio che non solo non sarebbe stato rumoroso, ma avrebbe attenuato il rumore prodotto dall'industria esistente. Il resto sarebbe stato coperto dal verde, migliorando così l'impatto visivo di tutta la zona industriale».

Squilla il telefono. Il proprietario della Refrion risponde in friulano. Chiude la chiamata. Continua in italiano: «Il 12 luglio 2007 consegniamo al Comune la richiesta di cambio di destinazione dell'area. Il 23 agosto 2008 presentiamo un sollecito, chiedendo un incontro con la giunta. L'incontro finalmente avviene poco dopo. E ci dicono, verbalmente, che per scelta politica hanno deciso di non trasformare quel terreno da agricolo a industriale. Impedendoci così l'ampliamento. È una giunta civica di sinistra. Ma non ne faccio una questione di colore. Esistono solo due direzioni: c'è il buon senso e c'è il non senso». Stolfo non si arrende: «Alla nostra richiesta comunque non riceviamo nessuna risposta scritta. Il no definitivo lo apprendiamo con la pubblicazione del nuovo piano regolatore. Allora presentiamo le nostre osservazioni. Siamo nel 2009. Si insedia una giunta di centrodestra. Cambiano i colori, ma il risultato è lo stesso. Alle nostre osservazioni del 2009 non ho mai, sottolineo mai, ricevuto risposta».

Non c'è solo l'ostacolo dell'ampliamento negato. Questa zona industriale è identica a quella di tanti altri Comuni italiani. Grandi e piccoli. Nessun piano coordinato. Nessuna collaborazione. Ogni municipio ha la sua rivoluzione postindustriale. La follia di mettere pochi capannoni in mezzo al granoturco. E viceversa. Il risultato è che poi mancano le infrastrutture. Anche qui a Flumignano. Dove le aziende per collegarsi on line con il mondo ricorrono addirittura a satelliti e ponti radio, come se fossero nella giungla equatoriale. «Tutta la zona non ha Adsl, la connessione a banda larga», spiega Stolfo: «È disponibile solo il vecchio sistema di collegamento Isdn. La velocità di trasmissione dei dati è bassa. Per un periodo abbiamo provato via satellite, con un'aggiunta di costi insostenibile. Ora bypassiamo la zona buia con un ponte radio. Ho dovuto installare un ripetitore sul tetto della ditta. Un servizio che pago per trasmettere i dati su banda in Fm fino al campanile di Mortegliano, il paese qua accanto. Lì c'è un'antenna di ricezione che porta giù il segnale nella rete Adsl. Solo così riusciamo ad avere una trasmissione accettabile. A Villa Santina, in Carnia, non siamo messi meglio. Hanno fatto il cablaggio in fibra ottica fino allo stabilimento. Ma da un anno e mezzo sono fermi. Perché non hanno ancora affidato il servizio a un gestore. Non possiamo nemmeno risparmiare sulla bolletta, usando Internet per le connessioni telefoniche. Allargare la banda in Fm avrebbe costi esorbitanti. E il peggio è quando salta la linea tra i nostri stabilimenti. Se succede con un cliente, va beh si riprova l'indomani. Ma se cade il collegamento tra le nostre sedi, si ferma la produzione. A Hermagor in Austria, paese di 7 mila abitanti, hanno la connessione a banda larga».

Se questo è il Friuli del 2012, una delle regioni più avanzate d'Italia, figuriamoci il resto. «Siamo italiani al cento per cento», osserva Stolfo: «Ho sempre pensato di essere friulano e poco italiano. Ma non è così. Noi non facciamo eccezione. Anche se la nostra è una delle Regioni più virtuose. Le imprese, la ricerca ricevono finanziamenti regionali fino al 50 per cento del valore del progetto. E i soldi vanno a buon fine. Ma la burocrazia è sempre burocrazia. Nel marzo 2008 entriamo in affitto nell'insediamento finanziato dalla Regione a Villa Santina. Nel 2010 ci viene consegnato il secondo lotto. Ma mancano tuttora adeguamenti per 200 mila euro. Ne stiamo parlando da tredici mesi. Sarebbero a carico dell'ente proprietario, la Comunità montana che è stata sciolta ma di fatto esiste ancora come Unione dei Comuni della Carnia. In ogni caso noi non abbiamo ricevuto la documentazione necessaria. Perché la Comunità montana dopo anni non ci ha ancora consegnato le specifiche dei materiali di realizzazione. Non so se questo sia dovuto alla mancanza dei documenti. Oppure al fatto che vogliano coprire qualche difetto che noi non possiamo conoscere».

E poi la mazzata del fisco. Stolfo sale al volante della sua auto. Prende l'autostrada per Tarvisio. Un po' meno di due ore e saremo nello stabilimento in Carinzia. «Nel 2011», continua a raccontare, «ho maturato un credito d'Iva con il fisco italiano di 130 mila euro. Abbiamo deciso di compensarne 65 mila. E di chiedere il rimborso degli altri 65. Ecco la trafila. Vengono i vigili a vedere se esistiamo davvero. L'Agenzia delle entrate attraverso Equitalia ci chiede documenti in originale, copia di tutte le fatture del 2011 e una fideiussione bancaria di due anni per potere avere il rimborso. Cioè, io creditore devo fare una fideiussione al mio debitore, che è lo Stato. Non è pazzesco? Ci attiviamo con tre istituti di credito, ma troviamo una certa ritrosia a concedere fideiussioni. Non per demerito nostro, ma per sfiducia perché c'è di mezzo la pubblica amministrazione. Di questi tempi anche una fideiussione costa troppo. Così ho rinunciato al rimborso immediato. Ce lo possiamo permettere. Il fatturato va bene. Ma se si fosse trattato di un'azienda in difficoltà, lo Stato per 65 mila euro avrebbe determinato la sua chiusura». E con il fisco austriaco come funziona? Daniele Stolfo sorride mentre guida: «In Austria il credito viene liquidato dallo Stato ogni fine del mese. Ti ritrovi il bonifico direttamente sul conto corrente».

Ecco Gemona. I ponti sulle ghiaie bianche del Tagliamento. Tolmezzo. Il profumo di tiglio nell'aria. La Carnia dei taglialegna che un tempo fuggivano dalla fame a lavorare nei boschi della Bassa. E delle nonne di una volta, magrissime, il velo nero in testa e la scatoletta di tabacco da fiutare in tasca. Poi il muro delle montagne. Bruschi pendii modellati come mari in burrasca dall'Orcolat, il mostro friulano che fa tremare la terra. L'autostrada attraversa l'epicentro del terremoto del 1976. Un migliaio di morti e una ricostruzione che è tuttora modello di efficienza e onestà. Un lutto collettivo da cui i friulani si liberano completamente nel 1983. È l'anno in cui si ritrovano intorno ai gol della squadra di calcio, l'Udinese. E a un brasiliano, Arthur Coimbra, il bomber che chiamano Zico. L'anno in cui tutti insieme riscoprono il diritto alla gioia: «Zico è il simbolo che accompagna la trasformazione del Friuli in ciò che diventerà. Una terra ricca e industriale», dice Stolfo, «me lo ricordo bene. In quegli anni facevo io lo speaker allo stadio». Corso serale di ragioneria all'istituto Zanon a Udine. Di giorno commesso nel piccolo supermercato della mamma a Carlino, meno di tremila abitanti in riva alla laguna di Marano. Il padre, Nello Stolfo, imbarcato sulle draghe dell'impresa Taverna che aprono i canali di navigazione dal Timavo alle Valli di Comacchio. Secondo di tre figli, Daniele prende un'altra strada trascinato da un cugino. Vent'anni da dirigente commerciale e direttore generale nel settore degli scambiatori di calore: «Fino alla scelta di mettermi in proprio. Ero stufo di assumermi responsabilità e di non poter godere il frutto delle mie decisioni. Nasce così nel 2002 la Refrion, che io allora chiamai Xchange. Tre dipendenti, quattro con me, 40 mila euro di capitale, 55 mila di fatturato».

Si lascia l'autostrada allo svincolo per Hermagor. Il fiume Gail. La Carinzia, che è il Mezzogiorno povero dell'Austria. Ma tutt'altra cosa rispetto al nostro Mezzogiorno. In Italia gli operai della Refrior costano 20,29 euro lordi l'ora. In Austria 22,83. Ma possono essere licenziati. Senza giustificazione. Senza giusta causa. Tranne i dipendenti anziani, le mamme con figli a carico, i disabili. È d'accordo? «D'accordo sì», dice Stolfo: «Se devo tenere tutti e tutti devono essere trattati allo stesso modo, come faccio a premiare chi merita? Come faccio a rendere più qualificata l'azienda? Non è vero che lo scopo di un imprenditore sia licenziare. I dipendenti per me sono una risorsa. L'azienda la fanno le persone. Non la fanno le macchine o i capannoni. È per questo che ho scartato l'ipotesi di trasferirmi in Romania. Lì non troverei il personale qualificato ed efficiente che ho in Italia e in Austria».

Arrivati allo stabilimento di Hermagor. Gli operai austriaci parlano tranquillamente italiano. Stolfo risponde in perfetto tedesco. È la sua visita settimanale. Al ritorno, rivela perché sia finito proprio lì: «Dopo la vicenda del terreno, ero disorientato. Un giorno vengo invitato a un convegno sulla Carinzia organizzato da Unicredit. Alla fine riesco a conversare una mezz'ora con l'allora governatore Jörg Haider. Non ho nemmeno un biglietto da visita con me. Lui si segna il mio numero su un tovagliolo di carta. Dopo qualche giorno mi telefona la Eak di Klagenfurt, l'agenzia per lo sviluppo della Carinzia. Vengono a trovarmi. Due donne molto determinate». La convenienza dell'Austria è annunciata nell'e-mail del direttore dell'agenzia, che ancora oggi precede ogni visita: "Unica imposta sugli utili al 25 per cento; non esiste Irap; non ci sono studi di settore; da 2 a 10 giorni per un permesso di costruzione; costo di costituzione di una srl, 3 mila euro compresi avvocato, notaio, commercialista; contributi per investimenti fino al 25 per cento; contributi per ricerca e sviluppo fino al 60 per cento; prezzi immobiliari da 25 euro al metro quadro per terreni dotati di tutte le infrastrutture; stabilità politica e sociale; criminalità quasi inesistente; qualità della vita molto alta".

«Non avrei lasciato il Friuli, se avessi potuto ampliarmi a Flumignano», ammette Daniele Stolfo: «Nonostante da noi gli utili siano tassati al 50 per cento. Nonostante non ci siano sconti per chi come me li reinveste tutti in azienda. Nonostante il costo dell'inefficienza italiana. Io sono friulano. Ma in Austria la pubblica amministrazione funziona. Un giorno ci fissano l'appuntamento nello stabilimento che abbiamo acquisito. Ci sono molti lavori di adattamento da fare. Si presentano tutti gli enti austriaci coinvolti. L'ispettorato, i vigili del fuoco, l'ufficio tecnico del Comune, l'azienda sanitaria. Perfino i rappresentanti delle proprietà confinanti. Di solito in Italia siamo noi a dover interpellare, contattare, scrivere, raccomandate, marche da bollo, commissioni e nessuna risposta. In Carinzia vengono loro in azienda. Con un unico numero di protocollo, un unico foglio, un unico report ci dicono cosa dobbiamo fare. Due ore e mezzo di visita. Un mese di lavori. Alla fine richiamiamo tutti gli enti. Loro, tutti insieme, tornano a controllare. Firmano il protocollo. E ci danno il via libera. Due incontri, un mese, tutto pronto. Senza sprecare tempo, senza pagare nulla».

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