La traduttrice che emigra in Polonia, l'avvocato che scappa in Australia, la biologa troppo specializzata per trovare impiego. Le esperienze simbolo di una generazione destinata a vivere peggio dei propri genitori

Valentina, economista ma solo a tempo. Laureata in economia e sistemi complessi, parla inglese e spagnolo, ha studiato all'estero, ha svolto stage al ministero. Il suo sembrerebbe un curriculum perfetto, ma Valentina, quando ha finito l'università, quel curriculum l'ha mandato a decine di società, senza ricevere in risposta neppure un "no". Così, si è trasferita a Milano e per pagarsi l'affitto è diventata promoter. Poi è finita nel settore commerciale di varie società, sempre precaria e circondata da persone senza titoli. «Mi hanno promossa vicedirettore commerciale anche se avevo un contratto a progetto. Mille complimenti, anche perché i resoconti dicevano che la mia divisione procurava la metà del fatturato della società. Allora ho chiesto che mi dessero un contratto a tempo determinato. Dopo un mese mi hanno cacciato, con la scusa che li avevo diffamati su Facebook e che i miei risultati erano scarsi». Valentina si è rivolta al Nidil della Cgil di Milano, ma si capisce che è delusa del mercato del lavoro italiano: «Posti come quelli in cui ho lavorato sono pieni di stagisti della Bocconi, pagati pochissimo per ruoli non qualificati». Intanto a 29 anni è tornata per l'ennesima volta a cercare: «Non posso pensare a progetti di vita se non ho un minimo di sicurezza».

Syd, con il codice in Australia. Suo padre è arrivato in Italia dal Pakistan in cerca di fortuna e l'ha trovata. Ora lui si sta preparando a partire per l'Australia per cercare la sua. Parla benissimo l'italiano, si è laureato in giurisprudenza ed è l'esempio di quelle seconde generazioni di nuovi italiani capaci di grandi sacrifici, compreso quello di partire, per raggiungere obiettivi importanti. «Mio fratello è già a Londra. Lì cercare il lavoro per cui hai studiato è logico; qui sembra che ti debba sempre accontentare del primo che trovi». Shahzy dopo l'università ha provato a fare il tirocinio da avvocato. «Anche negli studi più rinomati mi proponevano al massimo dei rimborsi-spese che non bastavano neanche per l'abbonamento all'autobus». Offerte troppo basse, che non poteva permettersi. «Ho iniziato a lavorare con mio padre, che grazie al cielo ha una piccola azienda e fa lavori manuali, ma non c'entrano niente con i miei studi». Ed ecco l'idea di emigrare agli antipodi: «Mi dicono che in Australia i redditi sono alti e che chi ha voglia di darsi da fare è apprezzato. Ero pieno di stimoli quando mi sono laureato, adesso non ne ho più e a ventisette anni non è giusto che non ne abbia».

Maria, la grafica che disegna da casa. Quando le chiedono cosa farà adesso, che progetti ha, lei risponde che... «boh». Maria conosce bene quello che ha fatto nei suoi trent'anni, la partenza da quel di Conegliano per realizzare il suo sogno, gli studi al Politecnico di Milano, il lavoro come grafica che l'ha spinta a lasciare casa. Poi è diventata una vittima della crisi. La testata per cui lavorava si è trovata in difficoltà economiche, non le ha rinnovato il contratto e lei è tornata di diritto nella «generazione del boh». «Faccio parte di quelli che quando parlano di futuro rispondono boh, solo perché non so cosa aspettarmi». I problemi l'hanno un po' abbacchiata, ma lei è sempre sorridente e sembra continuare a sorprendersi per ogni piccola cosa. Racconta con entusiasmo la sua attività in una tipografia autogestita, insieme ad altri amici grafici: «Produciamo stampe a freddo, come si faceva un tempo.  Per ora non ci guadagniamo, ma è molto interessante». Non ha perso la voglia di provarci: «Ho qualche incarico qua e là, solo che adesso lavoro da casa e non è bello stare sempre soli. Ma, data la situazione, è meglio che niente».

Diego, precario ma felice. Precario è precario, ma non si piange addosso. Anzi, quasi sorride di gusto: «Se ci penso, devo ammettere che non ho nessuna certezza per il futuro. Domani potrebbero dirmi "ciao, è stato molto bello, ci vediamo". Però la mia condizione non è brutta, soprattutto rispetto a quella di altri coetanei». Diego ha 33 anni, sta a Milano ed è uno di quei giovani che vive con tranquillità una realtà che i genitori sperano non capitino mai ai propri figli . «Faccio il video maker freelance per uno studio di produzione, però ci lavoro da cinque anni. Un contratto fisso mi darebbe stabilità, ma così posso trovare altre piccole cose da fare e non ho limitazioni. Mi sento un precario, certo, un precario atipico». Quando racconta la sua situazione, ride ricordando quelle che erano le aspettative della sua famiglia: «Non ho aperto una partita Iva per vocazione, i fatti e le richieste mi hanno spinto a farlo. Però ho rifiutato anche un contrattino in Rai perché non mi piaceva quello che avrei dovuto fare. Ancora oggi i miei rimangono senza parole quando ripensano a quella scelta. Era un lavoro a scadenza come tutti gli altri, ma per loro la Rai è sempre la Rai. Cioè, il posto pubblico».

Silvia, quando la speranza si chiama Polonia. Tra qualche settimana Silvia partirà e andrà a lavorare in Polonia, al Parlamento di Varsavia. Uno stage come traduttrice, però ben retribuito, «non gratis come quelli in Italia», racconta con un'ironia amara. Mai si sarebbe aspettata di dover scappare a ventisei anni in un Paese più povero: «Sono laureata in lingue, polacco e francese, credevo che con una specializzazione così di nicchia avrei trovato qualcosa. Invece in un anno ho lavorato in tutto due mesi, trenta giorni per il consolato polacco e altri trenta per la Sapienza. Neanche dal centro per l'impiego mi hanno mai chiamata». Ha mandato curriculum, ma le hanno presentato solo offerte che definire strane sarebbe riduttivo: «Mi hanno proposto di tutto, addirittura di fare l'intermediaria per portare qui lavoratori polacchi da impiegare nel turismo. Quando ho chiesto del contratto, uno mi ha proposto di fare tutto in nero, altri di concordare lo stipendio a fine mese». Anche se era alla prima esperienza, ha annusato l'aria di fregatura: «Tutti i miei amici emigrati stanno meglio, hanno meno di trent'anni e già acquistano casa. In Italia è impossibile se non guadagni 3 mila euro. Spero che la Polonia, che cresce del 5 per cento l'anno, dia anche a me questa possibilità».

Gianna, il problema di aver studiato troppo. Una supertesi di laurea in biologia, una specializzazione come antropologa fisica, quella che interviene nei cantieri quando si scoprono resti antichi. Anni e anni di contratti di collaborazione occasionale a rimborso spese, poi incarichi con enti pubblici come consulente, a partita Iva. Ma i soldi sono pochi e allora Gianna inizia a dare una mano in uno studio di radiologia odontoiatrica: «Non serviva certo una laurea, era pieno di colleghe che non avevano frequentato l'università, però pagavano», ammette. Poi altri lavoretti qua e là. Infine, ecco arrivare la crisi, quella pesante: «Prima hanno smesso di contattarmi per gli scavi, perché non c'erano più soldi. Dopo anche lo studio medico mi ha detto che non c'era più lavoro». Adesso Gianna ha trentasei anni, un compagno, tanta voglia di fare e pochissime speranze: «Ho il terrore del futuro». Anche cambiare lavoro non è facile: «Quando mi sono proposta nei laboratori mi hanno detto che sono troppo specializzata e che sono vecchia. Temono anche che rimanga incinta. E poi lasciare il mestiere che sognavi e per cui hai tanto studiato è come lasciare un marito».

Foto di Riccardo venturi, Contrasto