Il commissario Bondi vuol colpire illegalità e sprechi e risanare il buco della sanità laziale, che è il più alto d'Italia. Ma la sua scure rischia di colpire anche le realtà d'avanguardia
Qualcuno lo fanno entrare di nascosto in ambulatorio. I pazienti più anziani, gli habitués dell'isola Tiberina, quelli che da anni si fanno curare nell'ospedale fondato cinquecento anni fa dai frati dei Fatebenefratelli. Dai primi di dicembre dovrebbero pagare tutti, anche gli esenti da ticket. L'ospedale ha bloccato le prestazioni non urgenti dopo l'arrivo della mannaia di Enrico Bondi, commissario della sanità laziale: che qui, dove il Tevere si allarga e i seguaci di San Giovanni di Dio ricoverano 26 mila persone ogni anno, ha tolto d'un botto quattro milioni e mezzo di euro.
E così: chiusi i ricoveri ordinari, a pagamento le attività in ambulatorio, tranne che per i malati di tumore. Lo stesso sta succedendo anche in tutti gli altri ospedali religiosi "classificati" laziali: strutture private non profit che svolgono funzioni pubbliche, ma che da qualche settimana garantiscono solo le urgenze. «Ma come si fa, a mandare via la gente? A volte li facciamo sgattaiolare dentro», racconta un'infermiera a bassa voce. È qui da venticinque anni, e mai prima aveva pensato che il suo posto di lavoro fosse a rischio. Né s'era mai visto l'intero personale dell'ospedale dei frati scendere in strada, occupare, fare presìdi. Pensare addirittura di partecipare a uno sciopero generale unitario, pubblico-privato.
Il 2013 si apre infatti in stato d'agitazione nel pianeta della sanità della capitale, alle prese con i tagli del manager che ha risanato Parmalat, e che vuole incidere il bubbone della costosissima sanità laziale (141 euro di deficit per abitante, il più alto d'Italia) con un coltello unico; togliendo il 7 per cento delle risorse a tutti, buoni e cattivi, sani e malati, profit e non profit, grandi e piccini. Ha imposto 97 milioni di tagli, divisi tra gli ospedali religiosi classificati, i policlinici universitari, gli istituti di ricerca e cura privati, gli ospedali e le cliniche in convenzione col pubblico. E non solo per il futuro, ma a partire da ieri, cioè da bilanci del 2012.
Truffa e qualitàIl colpo d'immagine - e di sostanza - più forte è arrivato dall'Idi, l'Istituto dermatologico i cui vertici sono sotto inchiesta per truffa. Seicento milioni di buco, fallimento alle porte, infermieri sui tetti. Addirittura, sotto Natale dal San Camillo è partita una colletta alimentare per aiutare i colleghi dell'Idi senza stipendio da quattro mesi. Chi l'avrebbe mai detto, che i dipendenti pubblici sarebbero corsi in soccorso dei privati? Ma attenzione: «Non si può fare di tutta l'erba un fascio», è la frase che da tutto il mondo della sanità religiosa romana si sente ripetere. «Non si possono mettere sullo stesso piano gli ospedali che fanno debiti e quelli che lavorano bene, chiudendo i bilanci in pareggio», ribadiscono all'Aris, associazione che rappresenta quasi trecento strutture sanitarie religiose, per venticinquemila posti letto e diecimila ambulatori. Un settore con 50 mila addetti che dal 1968 è a pieno titolo nel sistema sanitario pubblico: la proprietà è privata, ma assiste tutti come in qualunque altro ospedale, pagando il ticket. Per le prestazioni, le strutture religiose vengono poi remunerate secondo le direttive regionali.
Dopodiché, al contrario che negli ospedali pubblici qui non c'è nessun rimborso a pie' di lista: vale a dire che se il bilancio chiude in perdita, il deficit resta sul privato. Motivo per cui - dicono a gran voce i dirigenti delle strutture religiose - qui non arrivano direttori generali di nomina politica, piogge di primariati inutili, assunzioni pilotate. I contratti del personale sono più flessibili, l'autonomia organizzativa maggiore. Ma infiniti sono i contenziosi con le Regioni, e in particolare con quel Lazio che da solo prende la fetta maggioritaria degli ospedali religiosi: 44 strutture, per oltre 14 mila dipendenti. Tra queste, ci sono decine e decine di cliniche piccole e medie, che hanno di fatto il monopolio della riabilitazione e lungodegenza; ma i tagli maggiori sono andati a cadere sulle strutture più grandi. A partire dai due policlinici universitari, il Gemelli e il Campus biomedico (che dal budget 2012 hanno visto volar via, rispettivamente, 29 e 5 milioni); e, fuori dall'elenco dei "religiosi", un'eccellenza della riabilitazione neuromotoria come il Santa Lucia, che subisce un taglio di 3 milioni mentre vanta crediti nei confronti della Regione per 111 milioni.
La maglietta di Renata Nel complesso di via Ardeatina, ancora se la ricordano, la Polverini che mostrava la maglietta: "Salviamo il Santa Lucia". Già allora l'istituto rischiava, perché la Regione non voleva pagarlo come una struttura di "alta specializzazione", ma come una qualsiasi clinica di riabilitazione. La futura governatrice era in campagna elettorale, e si commosse parlando con i genitori dei bambini in cura. «Poi è stata eletta, e mi ha detto: "Non pago, lei mi faccia causa se vuole"», racconta Luigi Amadio, direttore generale del Santa Lucia. Che potrebbe parlare per ore, elencando la schiera di decreti ingiuntivi ottenuti dal giudice; tutti esecutivi, per 43 milioni di euro. Oppure dando i conti di una perizia della Luiss, secondo la quale mancano all'appello 10 milioni all'anno (fanno prestazioni per 65, ne ricevono 55); o ancora spiegando la differenza tra le altre cliniche e questo istituto, per cui ogni anno ci sono quasi 4 mila richieste per 1.300 ricoveri. «Le stesse cose che facciamo noi, se erogate da una gestione pubblica costerebbero il doppio», dice Amadio; e non si riferisce solo agli ampi spazi, alle palestre, alla piscina, al personale. Fa i conti più semplici: «A noi un pasto costa 15 euro, al Policlinico dai 25 ai 35».
E poi c'è la ricerca scientifica, orientata alle neuroscienze: «È una ricerca super-specializzata, che ci vede al quinto posto tra gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico in Italia, e al primo nelle sole neuroscienze», dichiara Francesco Cecconi, professore a Tor Vergata e responsabile di laboratorio al Santa Lucia. Eppure, anche questa eccellenza è finita nel calderone dei tagli alla sanità spendacciona e corrotta. Contro la quale qualcosa bisognerà pur fare... «Certo, ma non i tagli lineari», dice Amadio. La sanità laziale ha bisogno di una sola cosa: tornare alla legalità». Ma qui gira anche un sospetto più grave e Amadio lo denuncia apertamente: «Vogliono metterci in crisi per farci comprare, far entrare soggetti più orientati a una sanità speculativa».
La stessa ipotesi viene avanzata da Roberto Lupattelli, chirurgo del Fatebenefratelli e vicesegretario del sindacato dei medici degli ospedali religiosi: «Vogliono portarci a vendere a un gruppo profit, come già è successo con altri». Per esempio al Regina Apostolorum di Albano, la cui gestione è appena passata dalle suore paoline all'Italian Hospital Group, spa meno caritatevole (fa capo a Lupo Rattazzi, dinastia Agnelli, e al suo socio d'affari in AirEurope). Possibile che l'obiettivo sia questo, i privati nell'ospedale-simbolo dell'accoglienza religiosa? Certo è che, anche in assenza di fantomatici scalatori, molti ragionano su un allargamento delle prestazioni a pagamento e intra moenia, per far quadrare i conti. Così, «i tagli si abbattono sulle categorie più deboli. Persino malati che sarebbero esenti per reddito ma sono disposti, in questo periodo di blocco delle prestazioni, a pagare per continuare a essere seguiti da noi», spiega Lupattelli. Anche qui, come altrove, il problema sembra essere il pregresso: «La tariffe sono ferme al '97, così non si riesce più ad andare avanti», sottolinea il direttore generale Carlo Maria Cellucci.
Gemelli a cinghie stretteIn tutto ciò, Bondi tiene duro. Il supercommissario pensa che nei bilanci della sanità pubblico-privata ci sia ancora grasso da tagliare. «Non su questi pazienti qui, non a spese loro», dice Lucio Catalano, caposala di un reparto di medicina dell'invecchiamento al Gemelli. Catalano racconta che nella cittadella dove si curano i papi e arrivano 95 mila pazienti ogni anno da tutt'Italia già da un po' medici e infermieri sono alle prese con i tagli. «I costi crescono perché aumentano i malati cronici, le malattie che non si possono guarire ma curare. E dobbiamo controllare, scrivere, certificare sempre di più. Adesso si fa attenzione anche al singolo prelievo, si fa solo se è proprio necessario».
In gergo sanitario-legale si chiama "appropriatezza": le prestazioni inutili o ridondanti, in teoria, la Regione non dovrebbe rimborsarle. Nella classifica del Lazio, la percentuale di ricoveri "a rischio inappropriatezza" è nella media sul 23 per cento, e non si nota una gran differenza tra pubblici e privati (anche se tra questi spicca l'Idi degli scandali, con il 26,5 per cento, e va oltre il 30 il Bambino Gesù, che però gode dell'extraterritorialità vaticana). Ma questo non ha niente a che vedere con i tagli, dichiara Maurizio Guizzardi, direttore generale del Gemelli: «Se facciamo ricoveri che poi la Regione non ci rimborsa perché li considera inappropriati, il danno è tutto nostro».
Il taglio del 7 per cento va ad aggiungersi a queste misure, e complica un percorso di risanamento iniziato da qualche anno: «Prima dell'operazione Bondi avevamo un piano di ristrutturazione, con cassa integrazione a rotazione tra gli infermieri e un taglio del 5-6 per cento sugli stipendi dei medici. Saremmo arrivati al pareggio nel 2014». Adesso, l'asticella è stata alzata, e il 2012 chiuderà con una perdita di una settantina di milioni. Il Gemelli per ora non ha sospeso prestazioni né ricoveri; ma sono bloccati nuovi servizi che erano in programma, e per i quali erano stati già spesi soldi pubblici. Per esempio il nuovo reparto di neonatologia per i nati immaturi, che è pronto ma non può aprire. O il nuovo centro per i malati di Sla. Il primo e ultimo incontro con l'ex manager della Parmalat, autore anche della spending review per la sanità, si è chiuso con un nulla di fatto. Se ne riparlerà dopo le feste. E nella campagna elettorale per il Lazio, che ancora una volta si giocherà sull'emergenza sanità.