"Io, scafista della morte"
Ecco come funziona il lucroso traffico di esseri umani. Che lucra sulla speranza di chi cerca di scappare dalla guerra o dalla povertà. Una mafia che si infiltra nei campi profughi turchi e libanesi, controllando le rotte che risalgono il deserto del Sahara
Il mio primo scafista l’ho incontrato una decina di anni fa a Chaffar, vicino a Sfax in Tunisia. Se ne stava seduto sulla spiaggia all’ombra di un barcone di legno, come il pescatore di Fabrizio De André. Il comandante Khaled, 27 anni, aveva gli avambracci sfregiati di certi ex detenuti di lungo corso, maglietta rossa, bermuda e grosse scarpe da ginnastica. Ha cominciato a fidarsi di me, quando ha scoperto che ero stato rinchiuso come lui nel centro di detenzione per stranieri in via Corelli a Milano. Io come giornalista infiltrato. Lui come criminale senza documenti. È così che per alcuni giorni sono diventato il suo autista personale. Khaled faceva rubare i pescherecci e li caricava di passeggeri: arabi disoccupati, esuli eritrei, oppure liberiani e somali in fuga dalla guerra civile. Li aveva portati tre volte attraverso il mare, fino alla Sicilia. Ma ora che era diventato un comandante, cioè colui che da terra organizzava le partenze, non sapeva guidare l’auto. Così accompagnandolo nelle sue faccende ho potuto osservare, seduto al volante, la giornata tipo di un trafficante di uomini. Tempo dopo altri scafisti se ne stavano agli arresti domiciliari a Lampedusa, nel recinto di filo spinato che ora non c’è più accanto all’aeroporto, dove eravamo tutti detenuti. Cherriere, era il suo soprannome, parlava cinque lingue. Diceva di essere tunisino, ma aveva la faccia da turco e una lunga carriera fin dai tempi in cui erano i curdi della Turchia ad approdare in Italia. Sherif il siriano, magro, alto, baffetti biondi, rispondeva alle domande soltanto in arabo. Come il suo collega partito da Rosetta, sul Delta del Nilo. Un egiziano al terzo sbarco in pochi mesi. Di lui però non trapelava molto. L’hanno lasciato andare via, chissà perché, in meno di ventiquattro ore. Trasferito in aereo a Crotone. E poi sparito. Con il suo zainetto pieno di soldi. Cinquemila euro in contanti. La paga per traghettare un carico di anime verso il paradiso.
Da quell’inchiesta de “l’Espresso” sono passati anni. L’Africa al di là del Mediterraneo non è più la stessa. Ma tra gli scafisti di allora e Khaled Ben Salem, 35 anni, anche lui tunisino di Sfax, arrestato con l’accusa di essere il capitano della strage del 3 ottobre a Lampedusa, nulla è cambiato. A occuparsi del futuro di profughi, esuli, emigranti sono sempre loro. Soprattutto loro. Emissari dell’unica agenzia internazionale presente ovunque, anche in Italia. L’unica in grado di offrire una rapida via d’uscita a quanti hanno avuto la vita devastata dalla guerra, da un regime o semplicemente dalla povertà: purché i loro clienti e i loro familiari in Europa o in America siano in grado di pagare. La mafia dei trafficanti ha tentacoli fin dentro i campi profughi turchi e libanesi. Riesce a gestire i vergognosi centri di detenzione libici. Controlla attraverso una rete di organizzazioni autonome le rotte che risalgono il deserto del Sahara e che ora partono pure dalla Siria.
Nell’assenza totale di corridoi umanitari e di interventi adeguati alle crisi in corso, questa mafia è la sola risposta alle necessità individuali che centinaia di migliaia di persone affrontano al di là del mare. Necessità che l’Unione Europea e i suoi singoli Stati membri non hanno voluto o potuto soddisfare nel tempo: nonostante le denunce sulle violenze sistematiche contro le donne in Libia o sui profughi sequestrati e uccisi nel Sinai egiziano per l’espianto di organi. Ecco perché ogni notte autunnale, prima delle burrasche dell’inverno, in migliaia tentano ancora una volta di raggiungere l’Europa illegalmente. Del resto, alternative legali altrettanto rapide non ce ne sono.
Da allora anche il prezzo è più o meno lo stesso. L’incasso dei trafficanti: dai millecinquecento dollari americani pagati nel 2003 dai liberiani ai milleseicento versati dai profughi saliti sul peschereccio di Khaled Ben Salem. Una barca fin troppo carica, quella della strage. Quando la notte di giovedì 3 ottobre dal ponte avvistano le prime luci italiane, a bordo ci sono lo scafista (sopravvissuto), il suo giovane aiutante tunisino (morto), sette etiopi (morti), due sudanesi (uno sopravvissuto, l’altro morto) e 507 eritrei (153 sopravvissuti, 354 morti). Tra gli eritrei, sedici sono bambini dai 3 ai 6 anni (morti), una decina di mamme in dolce attesa (morte), un centinaio di donne (solo quattro sopravvissute), il resto quasi tutti ragazzi. La più grande tragedia di Lampedusa: 518 a bordo, 363 annegati, 155 salvati. E non è nemmeno la più grave lungo la frontiera del Mediterraneo.
Soltanto dai passeggeri di questo peschereccio i trafficanti in Libia hanno guadagnato oltre mezzo milione di euro. Tutti in una sola notte, con una sola spedizione. Il conto è semplice. Nei colloqui con Alganesh Fessaha, che con la sua associazione “Gandhi” da anni assiste la diaspora eritrea, i sopravvissuti confermano di avere pagato milleseicento dollari americani a testa. Il prezzo della libertà. Fanno 825 mila dollari di incasso. Lo scafo, se non è stato rubato, dev’essere costato non più di ventimila dollari al mercato dell’usato. Aggiunte le somme per la nafta, il trasporto dei passeggeri con i camion, qualche tangente lungo il percorso e il compenso per Ben Salem e il suo giovane aiutante, non si dovrebbero superare i 35 mila dollari. Tolte le spese, di questa strage restano nelle tasche dei trafficanti 790 mila dollari puliti. Al cambio, quasi seicentomila euro.
Gli scafisti come Khaled Ben Salem appartengono al livello più basso dell’organizzazione. «I trafficanti, quelli che contano davvero, non salgono mai a bordo», dice l’avvocato Leonardo Marino di Agrigento. Marino è riuscito a far assolvere dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina cinque marinai e i due comandanti tunisini di due pescherecci. Li avevano arrestati nel 2007 e processati per aver condotto a Lampedusa, il porto più vicino, 44 stranieri raccolti al largo. Una vicenda che ha lasciato il segno nei comportamenti in mare: anche se un articolo della legge sull’immigrazione tutela il soccorso, da allora sono numerosi i casi in cui i migranti alla deriva vengono ignorati dagli equipaggi in transito. Nessun avviso ai naviganti ha invece spiegato che dopo quella vicenda lo Stato italiano, per colpa dell’applicazione errata delle norme da parte dei suoi magistrati, ha dovuto risarcire i marinai tunisini con novemila euro ciascuno, per i cinquanta giorni di ingiusta detenzione.
Le procure, come in questo caso, hanno spesso applicato con troppa leggerezza l’articolo che configura il reato di associazione a delinquere finalizzato all’immigrazione illegale. Anche quando si trattava di profughi costretti a guidare la loro barca perché, al momento della partenza in Libia o in Egitto, non era salito a bordo nessuno scafista. Così la Corte di Cassazione ha stabilito che in queste circostanze gli indagati non devono essere sottoposti a custodia cautelare. Una battaglia legale sostenuta e spiegata sul blog meltingpot.org da Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto di asilo all’università di Palermo. L’ordinanza della Cassazione ha evitato che decine di esuli venissero trattenuti in carcere come boss mafiosi. Ma ha inevitabilmente favorito la fuga e il ritorno al di là del mare di qualche scafista. Tra questi, secondo la squadra mobile di Agrigento, proprio Khaled Ben Salem, che sarebbe già sbarcato in aprile al timone di un barcone con 250 passeggeri. L’avevano identificato e semplicemente rimpatriato. Un arresto in più o in meno comunque non ha nessuna influenza sugli affari dei trafficanti. Più scorre il sangue nel mondo, più loro hanno profughi da traghettare. Come diceva il comandante di Chaffar: «Noi continuiamo a lavorare. Finché marocchini, tunisini, africani pagano per partire, noi siamo qui ad aspettarli».
La prima notte in cui sta navigando ignaro verso la strage, Khaled Ben Salem sicuramente sa che sarà una traversata difficile. Dopo due ore, è ancora sotto costa. Lo chiamano al telefono e lo fanno fermare. È troppo carico e la prua non riesce nemmeno a farsi largo nelle onde. Uno scafista è solo uno scafista. Non può lamentarsi con chi ha organizzato il viaggio per la presenza di troppi passeggeri. Sono i libici ad accorrere in suo aiuto. Mandano un gommone. Uno di quelli usati ore prima per trasbordare i profughi dalla spiaggia al peschereccio che li aspettava in acque profonde. Fanno sbarcare venticinque eritrei e li riportano a terra. Senza sapere di averli probabilmente salvati.
La destinazione, secondo la testimonianza dei sopravvissuti, è la Sicilia. Così hanno promesso i trafficanti nelle notti di attesa quando gli eritrei sono stati ammassati in due magazzini. Ben Salem forse pensa di non farcela. E punta su Lampedusa. Dev’essere un marinaio esperto. Non è facile centrare un francobollo sperduto in mezzo al mare. Ma non perde la rotta. Il problema è ciò che accade dopo. Lo scafista non è una guida turistica. È un criminale. E lui, per prendere tempo e potersi nascondere dopo lo sbarco, chiede a tutti di buttare i loro cellulari in acqua. Vuole evitare che qualcuno telefoni dalla barca. I passeggeri si devono fidare. Non hanno alternative. Le luci di Lampedusa sono lì davanti. Sono arrivati, ormai. Tutti eseguono l’ordine e lanciano in mare l’unico contatto con il resto del mondo. L’ultima possibilità che ancora avevano di dare l’allarme. Khaled Ben Salem vuole anche che alcuni ragazzi più giovani stiano vicino a lui. In modo da far sembrare loro gli scafisti. Sembra conoscere tutti i trucchi per farla franca. Il resto, il motore spento, la coperta incendiata per segnalare la posizione, la nafta in fiamme, il panico, il capovolgimento sono l’ennesima dimostrazione della follia con cui il mondo non si occupa dei profughi.
Anche Muhamed Arafat, 33 anni, e Muhmed Fakhri, 28, tutti e due egiziani, sono finiti in carcere. Loro sono gli scafisti dello sbarco di poche ore prima. Quello a Scicli, provincia di Ragusa: 13 eritrei morti, 161 connazionali arrivati a riva, qualcuno fuggito, cinque siriani scambiati per trafficanti, arrestati e scarcerati dal giudice. E quell’immagine raccontata da un testimone che passeggiava sul lungomare: la visione di un uomo che con una corda frusta i compagni di viaggio per buttarli in acqua. Quell’uomo, come ha accertato la procura di Ragusa, non era lo scafista. Era uno degli eritrei a bordo, ma non è stato identificato. La storia di Arafat e Fakhri però è molto diversa da quella di Ben Salem. Al pubblico ministero, Serena Menicucci, e all’avvocato, Giorgio Terranova di Catania, raccontano di aver guidato il barcone per ottenere uno sconto sul viaggio: 500 dollari invece dei soliti 1.600. Se ne sono andati dall’Egitto dopo il caos, il golpe, gli scontri in piazza. Arafat se ne intende un po’ di motori e si offre come meccanico di bordo. Ma Fakhri come timoniere non sa da dove si comincia. Una sera i libici lo prendono in disparte e gli spiegano come si usa il gps portatile. Sul piccolo schermo c’è una riga luminosa da seguire. Come fosse una strada, gli dicono, lì in fondo vedrai la Sicilia. Anche il loro grosso barcone è sovraccarico. Dalla spiaggia l’hanno riempito con tre viaggi di gommone. Il motore si surriscalda. I libici hanno detto di farlo raffreddare. Si devono fermare tre volte durante la traversata. Momenti di silenzio con le onde che scavalcano la fiancata. Succede anche quando qualcuno butta un sacchetto di plastica in mare. Il cellophane viene aspirato dal bocchettone di raffreddamento. Fakhri si tuffa con un coltello a tagliare il tappo che li avrebbe trasformati in naufraghi alla deriva. Risale imprecando. Dice agli altri di stare più attenti. Hanno provviste. Hanno acqua per tutti. Il clima a bordo torna sereno. Fino alla secca di Scicli, pieno giorno, cinquanta metri dalla spiaggia di Sampieri. Lo scafo si incaglia. Fakhri si tuffa. Tocca, l’acqua gli arriva al bacino. Si buttano gli altri. Le onde sono alte. È solo una secca. Il mare intorno è profondo. Alcuni riescono ad arrivare alla spiaggia da soli. Scappano. Uno viene investito da un’auto pirata. Molti vengono salvati da un bagnino, Alberto Proietto e dal maresciallo dei carabinieri, Carmelo Floridia. Ma i due soccorritori non riescono a prenderli tutti. Tredici ragazzi eritrei annegano davanti a loro. La prima linea del mare. Come raccontava Tiziano Terzani dal fronte cambogiano: salvandoli, hanno deciso chi doveva vivere e chi morire.