A un anno dall'uccisione per mano della camorra del suo compagno, vittima di uno scambio di persona, Rosanna Ferrigno denuncia l'assenza delle istituzioni. "Spenti i riflettori, sono spariti tutti, anche i professionisti dell'antimafia"

Quella sua energia colpì persino Giorgio Napolitano. “Lei è una che ha grinta” disse il Presidente della Repubblica quando la incontrò insieme ai genitori di Lino Romano, il suo fidanzato vittima innocente della cosiddetta “faida di Scampia”. Ucciso con quattordici colpi di pistola proprio mentre usciva da casa della sua promessa sposa a Marianella, periferia nord di Napoli.

Un anno dopo i colpevoli sono stati tutti condannati. L’assassino, Salvatore Baldassarre, ha avuto l’ergastolo. Ma lei, Rosanna Ferrigno, quella grinta non l’ha persa, nonostante il dolore e quel vuoto che proprio non riesce a colmare. «Quel giorno al Presidente dissi: non bisogna stancarsi di parlare di camorra, anche lei deve farlo di più. Non è mai abbastanza. Non lo dico per me, che figli non ne farò più, ma per gli altri bambini di Napoli» racconta oggi in esclusiva all’Espresso.

Da subito, attorno a Rosanna, alla sua famiglia e a quella di Lino, si strinse un cordone ampio di rappresentanti delle istituzioni e di cittadini. Dolore, rabbia, incredulità: sentimenti cresciuti ancor più quando fu chiaro come davvero andarono le cose quel tragico 15 ottobre 2012. La vittima designata, un uomo legato ai clan, Domenico Gargiulo, era a cena proprio al piano di sotto di casa Ferrigno. I killer avrebbero dovuto attendere il segnale, un sms inviato da una dei commensali. Ma scambiarono Lino per il loro obiettivo e spararono senza pietà. «Non bisognerà dimenticare. Lino è vivo, la camorra è morta» disse allora a muso duro Rosanna, esponendosi con coraggio. Divenne ben presto un’icona: «Non era quello che volevo ma credevo fosse giusto così. Per non dimenticare, appunto. E invece…». Il discorso si interrompe, Rosanna stringe la medaglietta che porta al collo con impressa l’immagine del suo fidanzato. Sospira e chiude gli occhi.

Invece cosa?
«Spenti i riflettori, sono spariti tutti. Quelli che dicevano “staremo sempre accanto a te”, pure i professionisti dell’antimafia. Sono rimasta da sola, con il mio dolore, le mie ansie, la mia famiglia e quella di Lino».

E il Ministro Cancellieri, che si era commosso alle tue parole quando la incontraste, l’hai più sentita?
«Vuoi sapere se mi ha telefonato? No, non sono amica di famiglia. Ma il suo dovere l’ha fatto e le sono grata, come cittadina e come donna. Mi disse che avrebbero acciuffato i killer di Lino e così è stato. E in un anno c’è stata pure la condanna».

Non è poco
«Non lo è affatto. Ma basta a “non dimenticare”?»

Cosa si sarebbe dovuto fare, secondo te?
«Parlarne nelle scuole, tanto per cominciare, piuttosto che in incontri per addetti ai lavori dove ci si parla addosso. Sai che penso? Che Lino a Napoli lo hanno ammazzato due volte: neanche una lapide lì dove gli hanno sparato. Solo una specie di sceneggiata nel giorno dell’anniversario»

Ci sei più tornata lì dopo quel giorno?
«Sì, solo per prendere alcuni effetti personali e organizzare il trasloco, l’ultima beffa»

In che senso?
«Ti spiego. Quella casa dove vivevo con la mia famiglia, a Marianella, era un alloggio popolare. Pochi giorni dopo, appena fu chiaro che il vero obiettivo dell’agguato fosse nel mio stesso palazzo, ci chiudemmo dietro la porta e andammo a vivere tra mille disagi a casa di più parenti».

Nessuno si preoccupò di aiutarvi?
«No, nessuno. Ma non importa. Quel che chiedemmo fu un normale “cambio alloggio”. Cioè, avere un’altro casa popolare, possibilmente in zona non troppo periferica. Una zona che rispecchiasse comunque canoni di sicurezza per me che, seppur convinta, in qualche modo mi ero esposta».

Cosa ti hanno risposto
«Che avrei dovuto aver pazienza ma che lo avrebbero fatto. Intanto, siamo andati a vivere a nostre spese nell’appartamento dove viveva mia nonna. Dopo un anno ci assegnano finalmente un appartamento, addirittura a Posillipo. Non pensavo ce ne fossero anche lì»

Bene. Di che ti lamenti?
«Aspetta! Ci consegnano le chiavi, sottoscriviamo i contratti di luce e gas, puliamo l’appartamento e prepariamo il trasloco. Ma appena un mese dopo ci convocano in Comune e ci dicono che si erano sbagliati, che quella casa disabitata da anni non era in realtà dell’amministrazione ma c’è un legittimo proprietario. È spuntata pure una sentenza del 2007»

Ma com’è possibile?
«Non chiederlo a me. Il Sindaco De Magistris ha pure firmato di suo pugno un’ordinanza. Ma al Comune ci revocano quell’assegnazione, ci chiedono indietro le chiavi e ci assegnano una nuova casa, stavolta a Ponticelli, a due passi da dove hanno arrestato uno del commando che ha ucciso Lino. Abbiamo rinunciato».

Qualcuno vi ha più chiamato da allora?
«Nessuno. Ho inviato un sms a De Magistris sul suo numero personale che mi aveva dato. Gli ho scritto “così non si può andare avanti”. Non si è fatto vivo».

E adesso? non vi resta che tornare a vivere a Marianella
«Torniamo a Marianella. Ma penso che ci staremo giusto il tempo per organizzarci e lasciare per sempre Napoli. Non posso vivere lì, affacciarmi al balcone e vedere il marciapiede dove hanno ammazzato il mio Lino. Non posso rischiare di incontrare ogni giorno la persona che si è tatuata sul braccio la data dell’omicidio perché per lui è un nuovo battesimo. Non posso restare in una città che ricorda Lino solo davanti alle telecamere. E sia chiaro: non voglio più niente da nessuno. Tantomeno compassione».