Il successo della missione lunare. La crescita del Pil a ritmi eccezionali. Lo sviluppo tecnologico. Il paese insidia alla Cina la leadership in Asia. Ma i poveri sono ancora troppo numerosi

L’applauso è scoppiato spontaneo nel salone del nuovo Congress Center di Johannesburg dove era in corso il vertice dei Brics, all’annuncio - alle 12,32 del 23 agosto - dell’allunaggio della sonda indiana Chandrayaan-3. Con simmetria degna della miglior regia, il premier Narendra Modi stava tenendo il suo discorso tutto incentrato sulle opportunità economiche del suo Paese e dei partner riuniti in Sudafrica. 

 

L’unico a non sorridere era il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, seduto in prima fila in sostituzione di Vladimir Putin: era contrariato perché da poco era fallita la missione lunare russa e l’India ostentava la sua supremazia tecnologica. Pochi giorni prima la Golman Sachs aveva pubblicato un report sorprendente: prevede, dati e prospettive attuariali alla mano, che l’India sarà nel 2075 la seconda potenza economica mondiale (oggi è la quinta) dopo la Cina, con un Pil di 52,5 trilioni di dollari (1 trilione=1000 miliardi) contro i 57 di Pechino. Scalzerà perfino, relegandoli al terzo posto, gli Stati Uniti, che non supereranno i 51,5, e lascerà nella polvere concorrenti come Germania e Giappone. L’area dell’euro supererà appena i 30 trilioni. Oggi il Pil americano è di 25 trilioni (25mila miliardi), quello cinese di 17, quello europeo di 15 e quello indiano di 3,8.

 

Anche senza guardare così lontano, l’accelerazione dell’India è sotto gli occhi del mondo. Santanu Sengupta, che alla Goldman Sachs è il capo degli analisti specializzati in Asia, la spiega con il fattore demografico, un memento per noi che dello stesso fattore siamo vittima: «C’è un elemento in economia - dice Sengupta - che si chiama “dependency ratio”. Si riferisce al numero di cittadini in grado di produrre ricchezza in rapporto a quanti da loro “dipendono”, cioè i ragazzi e gli anziani. Visto che la forza lavoro cresce di più dei pensionati, per l’economia questo è un motore che va a mille». La matematica non basta: «Nascono tanti bambini, però bisogna che vengano adeguatamente educati, introdotti al mondo produttivo, sottoposti a training adeguati. È la strada che il governo indiano ha intrapreso: i risultati positivi saranno esponenziali». Puntualizza Sengupta: «C’è un progressivo miglioramento della produttività, ottenuto con una capillare digitalizzazione del Paese e l’affinamento di tecnologie innovative. Il tutto con l’aggiunta di un vivace mercato dei capitali che crea continuamente nuove fonti finanziarie».

 

L’efficacia del sistema educativo di base, perlomeno per l’élite, è testimoniata dal gran numero di manager indiani nel mondo. Hanno studiato nelle università americane, ma per essere ammessi a queste occorre superare severi test dove vale l’educazione precedente. Gli esempi sono tanti. Sundar Pichai, Ceo di Google, nato nell’antica città Tamil di Madurai, ha guadagnato nel 2022 - con bonus e premi azionari - 222 milioni di dollari. Satya Nadella, Ceo di Microsoft, da Hyderabad nel sud dell’India, si “accontenta” di 55 milioni. Shantanu Narayen, anch’egli di Hyderabad, Ceo di Adobe, guadagna poco meno. Non solo tecnologia: Indra Nooy, nata a Chennan (la ex Madras), è stata per 12 anni fino al 2018 Ceo della PepsiCo. Senza contare i discendenti di grandi famiglie industriali tuttora al vertice operativo: Ratan Tata, quarta generazione di Mumbai, è presidente operativo di un gruppo - dalle auto alla difesa - da 150 miliardi di dollari di fatturato e 935mila dipendenti, Lakshmi Mittal, nato in un villaggio del Rajasthan, comanda da Londra il megagruppo siderurgico ArcelorMittal. E ci sono infine gli indiani nelle organizzazioni internazionali: da Ajay Banga, originario di Pune nel Maharashtra, presidente della World Bank dopo essere stato Ceo di MasterCard e consigliere di Obama, a Gina Gopinath da Calcutta, ascoltatissima capo economista del Fondo Monetario.

 

L’India ha appena superato la Cina per numero di abitanti: ha raggiunto il miliardo e 428 milioni, una decina di milioni più di Pechino. Il Pil è salito negli ultimi dieci anni (saltando il 2020) in media dell’8% e il Fondo Monetario prevede per quest’anno, dopo il +7,2% del 2022, un aumento di un altro 6,1% (tre volte più dell’America e sei volte dell’Italia).

 

 «L’area di Bangalore ha superato per numero di aziende e profitti la Silicon Valley, Mumbai è uno dei primi centri d’affari del pianeta, la Tata è all’avanguardia nell’auto elettrica», aggiunge Manas Chawla, consulente del think-tank Rosa & Roubini Associates di Londra. «Le esportazioni spaziano dalla tecnologia, compresi i servizi come l’outsourcing, al tessile-abbigliamento, al farmaceutico, al chimico, alle auto, all’acciaio». Non sono tutte rose e fiori, ammette Chawla. «Restano problemi come la scarsa partecipazione delle donne al mondo del lavoro (21%, ndr) e soprattutto le spaventose diseguaglianze che portano il reddito medio pro capite a non superare i 2600 dollari l’anno contro i 13.600 della Cina, i 36.800 dell’Italia, gli 80mila degli Stati Uniti».

 

L’India, aggiunge Domenico Lombardi, direttore del Policy Observatory della Luiss, vive il suo momento di gloria perché a differenza della Cina «non si è imposta al mondo come potenza mercantile né con assertività. Non ha rubato copyright e non ha infranto le regole della concorrenza, due fattori che hanno scavato un solco intorno a Pechino nelle relazioni con l’occidente, e ha invece puntato, oltre che sull’export, anche sul mercato interno che genera, stando ai dati della World Bank, il 71% del suo Pil». Un mercato che, e qui aiuta ancora il fattore demografico, «è caratterizzato da enormi fasce di popolazione non abbiente, problema su cui si sta cercando di intervenire con programmi di intervento sociale finanziati anche da organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario, ma riesce comunque a esprimere una borghesia, in ampliamento, con la forza dei grandi numeri: se solo il 10% della popolazione si trova nella condizione di poter acquistare, parliamo di quasi 150 milioni di consumatori».

 

In questo momento più che mai il governo di New Delhi - cercando di capitalizzare le cattive relazioni cinesi con l’occidente e di imporsi come polo asiatico alternativo - sta attraendo con diverse agevolazioni quanti più investimenti diretti esteri possibile: «Nel 2022 questi investimenti hanno raggiunto gli 85 miliardi di dollari, venti volte di più quello che erano nel 2004», spiega Gabriel Debach, analista di eToro, una piattaforma social di investimenti con 30 milioni di utenti nel mondo. «Il settore del software e dell’hardware primeggia con il 25% del totale degli afflussi finanziari», argomenta ancora Debach. «Google ha creato nel 2020 il “Google for India digitalization fund” prevedendo investimenti non solo commerciali ma anche industriali per 10 miliardi di dollari in 7 anni. Facebook ha messo 5,7 miliardi in Jio Platform che investe in startup hi-tech». Non a caso gli “unicorni” indiani (startup valutate oltre 1 miliardo di dollari) sono in crescita verticale: Invest India, l’agenzia nazionale per la promozione e facilitazione degli investimenti, ne conta oggi 107, dei quali  44 hanno raggiunto lo status di unicorni nel 2021 e 21 nel 2022.

 

La proiezione globale dell’India dipende in buona misura dall’affidabilità del premier Narendra Modi, classe 1950, accreditato di progressive aperture democratiche dopo aver iniziato la carriera politica nel peggiore dei modi: con un iter che ricorda quello di alcuni membri del governo di casa nostra, militava nelle file del Rashtriya Swayamsevak Sangh, una formazione di estrema destra con frange paramilitari, dopodiché fondò il Bharatiya Janata Party con cui ha vinto le elezioni nel 2014 e, pur con diversi scivoloni sui diritti umani viene accreditato di progressive aperture democratiche. «Nel suo passato restano ombre pesantissime di scontri interetnici, ma da quando è alla guida del Paese ha indossato panni più pragmatici», ricorda Antonio Armellini, ambasciatore a New Delhi fra il 2004 e il 2008 e successivamente fondatore dell’associazione Italia-India. «Politicamente riemerge il dna dei “non allineati” che rimanda all’epoca post-coloniale di Nehru, Nasser, Tito, l’indonesiano Suharto. Da allora ci sono stati molti “gradini” di sviluppo, a partire dalle grandi riforme e privatizzazioni del 1991, per arrivare alla moderna industrializzazione». Anche Armellini riconosce i limiti del Paese: «Per lavorare in India, come fa un numero crescente di aziende, bisogna essere pronti ad affrontare una burocrazia elefantiaca e un discreto grado di corruzione».

 

Le opportunità non sfuggono a nessun Paese occidentale. E tutti sono pronti a chiudere un occhio rispetto alle debolezze del Paese. Non solo economiche: «Gli americani per esempio - spiega Stefano Silvestri, prestigioso esperto di geopolitica - accettano la non adesione alle sanzioni contro la Russia, perché vedono il Paese come polo asiatico di riferimento alternativo alla Cina e l’accesso a un mercato sconfinato». Insomma vale sempre la massima di Henry Kissinger: «Gli Stati Uniti non hanno né amici né nemici permanenti, hanno solo interessi».