L'area industriale dismessa. La spiaggia da bonificare. Il rogo alla Città della Scienza... Eppure quest'angolo di Napoli sopravvive (Foto Di Francesco Cocco)

Bagnoli, sapete, è un punto di vista. Lo è da sempre, schiacciata dalla bellezza della baia vista dall'altro versante della collina di Posillipo; oggi diremmo "mediaticamente" superata da un panorama dominato dal vulcano e dalla Penisola sorrentina, che dalla prospettiva del famoso pino, che tra l'altro non c'è più, è stato per decenni la cartolina non solo di Napoli, ma dell'Italia intera. I napoletani sanno anche come riesca a essere bellissima e disperata, Bagnoli, arrivando da via Manzoni, quando si apre alla destra di chi scende all'improvviso, con Nisida e il litorale flegreo a portata di cuore e di mano.

UN PUNTO DI VISTA
Lo è stato per chi decise, oltre un secolo fa, di inventarsi una vocazione industriale da innesto e da sovrapposizione, tanto di costa vergine ce n'era tanta e serviva un facile approdo per le navi che portavano la materia prima e si trascinavano via l'acciaio. Uno strano punto di vista, a pensarci: ma che a fronte dello stupro della costa e del tanfo che ancora è il mood del luogo ha restituito un lavoro fisso a tanta gente che forse adesso rimpiange la vita atroce di una fabbrica senza senso, mentre osserva la linea dell'orizzonte e ascolta i gabbiani nelle lunghe giornate del disoccupato.

Un altro punto di vista, anche. Quello di un piano di sviluppo articolato, cervellotico, approvato, stabilito, sancito e appaltato, ma che non si muove di un millimetro. E del rogo che ha distrutto il sogno di mille bambini e tante speranze della città intera, una città capace di volersi talmente male da ferirsi a morte. Difficile capire che cos'è oggi Bagnoli per Napoli, al di là di lunghi e purtroppo sterili dibattiti urbanistici; al di là della polemica sulla collocazione della ricostruenda Città della Scienza; al di là della bonifica dell'area industriale e della spiaggia, tornata di scottante attualità. Perché nel frattempo, mentre si discute, Bagnoli al solito sopravvive secondo la sua vera vocazione, che è quella di mostrare con furore la propria straordinaria bellezza.

Anche perché il momento coincide con le serate profumate di mare e di vento dolce, quelle che impongono un bicchiere di vino bianco freddo in mano e un posto all'aperto dove stare senza essere arrotati da utilitarie in corso di gimcana; l'altra città, quella dei vicoli bene e dei baretti collinari, non regala metri quadri sufficienti e uguale respiro, né lo stesso silenzio da riempire di musica sparata al massimo.
Anche perché qui c'è il mare nonostante, il mare piuttosto che, il mare soprattutto, che fa un piccolo rumore lento sulla sabbia da calpestare anche di sera, dove sdraiarsi un po', magari in compagnia. Anche perché qui le gambe lunghe delle ragazze in minigonna possono affondare meglio la falcata, attirando sguardi e sorrisi in un clima più disteso, senza risse o coltelli. Anche perché qui i cornetti caldi pure di notte fanno sentire il profumo senza il gasolio che distrae i nasi, fornendo anche qualche tavolino per appoggiare i gomiti per strada. Addirittura.

Un punto di vista. E anche un punto d'osservazione. Il tavolo verde dove le amministrazioni si giocano molto della credibilità e dell'audience, la ruga sulla fronte di ogni sindaco. Perché l'altra città soffoca di palazzoni e di necessità, e là non ci si può muovere più di tanto. E Bagnoli giace a pochi metri, bellissima e solitaria, pronta ad accogliere e a respingere. Là c'è spazio, panorama, bellezza. Vie d'accesso, ristoranti a prezzi ottimi e ottimi piatti a base del pesce più fresco che c'è. Una Sorrento possibile, piena di mare e di sole e di notti brave, a un minuto scarso dal centro asfissiante e asfissiato che non attira più nessuno. E quindi un sacco di soldi, proprio un sacco; di quelli terribili, pericolosissimi: i soldi potenziali. Attorno ai quali, come avvoltoi prudenti, volteggiano imprese e multinazionali, che si guardano bene dall'esporsi al rischio di una progettualità eventuale. Una bella grana, insomma, Bagnoli: sospesa tra il non poter più aspettare e il non voler ancora cominciare a ricostruire e a costruire.

Anche perché le tracce pesanti di più di cent'anni di fornace si vedono, eccome. Oltre che nell'aria, emergono dalla sabbia e costellano il terreno della colmata che sottrasse mezzo golfo agli inizi dei folli anni Sessanta, quando tutto sembrava possibile e non ci si poteva mettere di traverso sulla corsa della locomotiva Italia. Eternit, Cementir, Italsider: nomi che ora evocano malattie endemiche, tumori, eruzioni cutanee, e che per lunghe epoche hanno invece significato pane e opportunità di crescita e sviluppo per migliaia di famiglie della zona.

Ma i punti di vista cambiano. Adesso che non c'è nulla tranne l'eventualità del turismo, il troncone di fabbrica che rimane è l'ostacolo principe alla salvezza possibile di un territorio seccato dalla crisi; un totem disperato, come il braccio della statua della Libertà che emerge dalla terra nel finale del celeberrimo Pianeta delle scimmie. E dalla terra emergono le pantosche, frammenti e zolle di petrolio coagulato e di carbone, e all'occhio attento di periodiche analisi che hanno gli onori dei titoli dei giornali pure arsenico, piombo, vanadio, zinco: scarti di lavorazioni antiche che richiamano a una rimozione lunga e penosa, che finirà dopo anni da un inizio che non c'è stato ancora.

E TUTTAVIA QUALCOSA SI MUOVE
Sussulti di bonifica e di riconversione ipotetica si notano, di tanto in tanto, pur al di fuori, apparentemente, di un programma lento ma univoco. Passeggiare sul pontile che si allunga come un artiglio sul mare, le gru e i cantieri, le auto blu che arrivano silenziose sui siti di mattina, lasciando giacche e cravatte a passeggio sul terreno sconnesso, fanno pensare che tutto sommato qualche cosa possa ancora accadere. E pure qualche faccia da giornale si vede, di tanto in tanto, dispensare frettolosi sorrisi ai curiosi. Poi si deve pur tener presente che non tutto è bruciato, ai piedi della discesa di Coroglio, quella notte di marzo: il palazzo dei congressi è intatto, col suo ampio parcheggio e guardiani che si sono fatti più intransigenti. Quale luogo migliore, pensa l'intellighenzia cittadina, per riunirsi a friggere aria? Da quale posto più simbolico si possono lanciare finte pietre in stagni immobili?

Però l'occhio corre inevitabilmente alle macerie del rogo, perché oggi è questo il punto di vista dominante. Ossa annerite, carne carbonizzata ancora esposta, una muta accusa al cuore. Guardare le immagini di quella che è stata la Città della Scienza, distrutta dal furore dell'ignoranza, stimola confronti e simboli che paradossalmente attraverso il fuoco agghiacciano. Sospese tra azzurro e azzurro, viste da quel mare dal quale sono arrivati, secondo l'opinione degli inquirenti, i loro distruttori, fanno più impressione del primo giorno. Sembrano una sconfitta definitiva. Sembrano dire che non si può fare niente, che non c'è modo di arginare il dominio della violenza. Sembrano il cadavere della cultura, uccisa dal nulla.

SEMBRANO, MA NON SONO
Il difficile di oggi, a Bagnoli, è forse proprio questo: lasciar capire che l'energia c'è, c'è sempre stata e sempre ci sarà, e non basta il fuoco a estinguerla. La si vede, l'energia, negli sciami di adolescenti che escono da scuola, ridendo e montando sui motorini, che invadono le viuzze antiche del posto più moderno e futuribile che c'è. Perché è questo, l'altro punto di vista di Bagnoli: la sospensione tra passato e futuro. Ci sarà un motivo, per cui non c'è antichità che venga fuori che non preveda un'antichità anteriore; per cui gli esseri umani hanno scelto proprio questo posto per sbarcare, per sistemare le proprie cose e cominciare a vivere.

Basta spostare le pietre, dicono i vecchi, per "trovare roba"; perché emergano frammenti di storia e di preistoria. Ce l'avessero gli americani, tutto questo, ci farebbero una campana di vetro sopra; e farebbero pagare un biglietto carissimo, per passeggiarci in mezzo. Fortuna che non ce l'hanno gli americani, viene da rispondere: ma se non la campana di vetro, un po' di cura sì, viene da aggiungere. E un parco archeologico flegreo, nelle pieghe e nelle piaghe di uno sviluppo sostenibile che non parte ma che prima o poi partirà, sarebbe un altro bel sogno. Un po' di mare e un po' di cielo, quella magari è ancora merce comune da queste parti. Ma Nisida, il silenzio e le rughe dei vecchi e della terra, le macerie e la speranza, pietre antiche e mattoni e vetro, la lunga passeggiata del pontile in mezzo all'acqua ferma sono qui. Solo qui.
È questo, l'altro punto di vista.

Maurizio De Giovanni, autore di questo testo, è uno scrittore napoletano. Autore del ciclo di romanzi il cui protagonista è il commissario Ricciardi ha vinto nel 2012 il premio Scerbanenco con "Il metodo del coccodrillo" (Mondandori). Recentemene ha pubblicato "I bastardi di Pizzofalcone

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