Polizia e soldati a guardia del cantiere di Chiomonte sono in allerta da giorni. È agosto il mese «più difficile». Quello dove le frange estreme dei No Tav potrebbero comparire di nuovo. «Violenti che vengono in gran parte da fuori, certo, ma che non sono infiltrati, bensì invitati. Perché in questi ultimi cinque anni il movimento è cambiato. E dopo avere contribuito a modificare l'opera, come mai era avvenuto prima, è rimasto in mano agli irriducibili: quelli che dicono no, sempre e comunque».
A parlare è il commissario della Torino-Lione, Mario Virano. Architetto, valsusino, nato a pochi chilometri dal cantiere, è uno che ha studiato i progetti, «è il mio lavoro», ma ha studiato anche il movimento No Tav. «L'ho visto nascere, crescere, cambiare slogan e strategie», dice a "l'Espresso". E oggi, alla vigilia di quello che chiama «il salto di qualità dei lavori, quando la grande talpa meccanica scaverà la montagna per 20 metri al giorno, contro i due di adesso», si prepara ad affrontare anche l'altro salto di qualità. «Quello della lotta. Che ormai è un simbolo esportato fuori dalla valle, una calamita degli antagonismi più diversi. Che rischia di far naufragare il grande lavoro di ascolto e dialogo costruito assieme ai No Tav. Quelli veri».
Architetto Virano, lei è nato in Val di Susa.
«Al confine, sì».
Non le fa impressione la "militarizzazione" della sua terra?
«Non esiste alcuna militarizzazione».
Come no? Soldati. Lince. Polizia. Sirene. Guardia 24 ore.
«La valle si estende su un milione 820 mila ettari. Di questi meno di 700 mila sono in pianura. Pensi che gli ettari protetti dall'esercito sono sette in tutto».
Lei gira libero nella sua Val di Susa?
«No, ho una scorta».
È preoccupato?
«Diciamo che sono sufficientemente irresponsabile per non pensarci. Continuo a credere e dire che la Val di Susa è fatta di persone perbene. Anche se il salto di qualità dei lavori agita l'area massimalista del movimento».
Salto di qualità anche nelle accuse dei pm. La Procura alza il tiro: terrorismo e tentato omicidio. È la strada giusta?
«Vale la presunzione di innocenza, ma la Procura che si muove è di alto livello, è la stessa che ha operato contro le infiltrazioni mafiose nel cantiere. La magistratura torinese ha sempre distinto fra singoli e massa. Non ha mai indagato per reati associativi, finora, ma sempre per atti individuali. È indubbio, però, che il tentato omicidio e il terrorismo segnano un salto di qualità. Credo corrisponda, né più né meno, che al salto di qualità fatto sul campo. All'inizio non era così. Tutti erano, anzi eravamo, convinti che si potesse migliorare. E si lavorava per questo».
Non ci dirà che lei, che qui a Susa è Mister Tav, è un po' No Tav?
« Le spiego: quello che più mi dispiace di ciò che sta avvenendo in Val di Susa è che la deriva massimalista del movimento, a cui facevo prima riferimento, anche al netto della violenza fisica ha comuque fatto un danno: ha offuscato le grandi conquiste che i 50 mila No Tav dell'inizio hanno ottenuto».
E quali sarebbero se l'opera è partita?
«Quello della Val di Susa è il primo caso in Italia in cui un progetto per un'opera del genere, finito e pronto, è stato cancellato e rifatto da capo sulla base delle richieste del territorio. E con il contributo dei sindaci e dei cittadini. E sa perché l'abbiamo rifatto?».
Perché c'era la protesta?
«No, perché avevano ragione loro. Quel progetto non andava bene. Non portava benefici alla valle. E così è stato cambiato. Non solo: le istanze dei valsusini hanno avuto, nel nuovo progetto, lo stesso peso e valore dei vincoli europei e delle prescrizioni ferroviarie. Nessuno l'ha mai fatto prima. Eppure di questo non si parla».
Ne parli lei, in concreto?
«Dalla modifica del tracciato (ne sono stati studiati 11, visto che c'è chi dice che abbiamo tirato una linea dove capitava) fino a un modello innovativo di cantiere. È il primo in Italia ad essere concepito come uno stabilimento industriale. Ogni lavorazione avviene all'interno di capannoni, nulla è all'aria aperta. Proteggiamo chi sta fuori e chi dentro. Mai fatto prima».
E l'amianto?
«Il rischio ipotetico, dagli studi, vale per soli 400 metri di roccia. Anche in questo caso non uscirebbe un milligrammo all'aria aperta. In più, tutte le movimentazioni avvengono in treno. Non passerà nemmeno un camion».
Qui dicono, invece, che avete giocato a rompere il fronte. E così ci sono i sindaci "No Tav" e "Sì Tav".
«È una visione errata. Nessun sindaco della Val di Susa è "Sì Tav". I sindaci si dividono in "dialoganti", spesso a loro rischio e pericolo, rispetto alle intimidazioni e alle offese che subiscono. E sindaci del "no" a tutti i costi. Si dividono fra massimalisti e riformisti. Come sempre la politica. La cosa che fa riflettere, però, è che gli unici due sindaci davvero interessati dai cantieri della Torino-Lione, vale a dire il sindaco di Susa e quello di Chiomonte, sono "dialoganti". E lo fanno con molto, moltissimo coraggio. Altri, che non vedranno un metro di tunnel nel proprio Comune sono in trincea».
Eppure i No Tav sono variegati. Dialogano con la Grecia, con la Turchia, con i paesi arabi. Parlano di democrazia e rispetto dell'ambiente. Non è un po' semplicistico il britannico "Nimby", quelli del "fatelo, ma non a casa mia"?
«Io non ho mai condiviso la lettura "Nimby" . Anzi. Il "No Tav" ha un connotato più nobile. Si afferma nel 2005, a dicembre, come movimento di massa e popolare a guida istituzionale. Dentro c'erano tutte le anime, anche quelle a vocazione guerrigliera, ma erano frange ininfluenti. Si mossero 50 mila persone, come dicevo. Ma la prospettiva era il negoziato, pur durissimo. Si cercavano alternative migliori, non la guerriglia a tutti i costi».
E ora è cambiato?
«Sì, dal giugno 2008».
Cosa è successo?
«Era la data entro la quale il Parlamento europeo aveva fissato la scadenza per i finanziamenti. O si arrivava a un risultato utile, e si ottenevano i fondi, oppure i governi avrebbero proceduto come ritenevano».
E come finì. Che fece lei?
«Convocai un incontro in un eremo».
Un eremo?
«Riunii i sindaci a 1.760 metri, a Pracatinat. Giorno e notte. Per vedere se entro il 30 giugno si arrivava o no a un'intesa. Alla fine scendemmo dalla montagna con un accordo. Così il progetto partì. Da quel giorno, chi era contrario a prescindere venne allo scoperto. E si radicalizzò la divisione fra dialoganti e non dialoganti».
Ma tantissima gente normale sventola bandiere No Tav.
«Rispetto ai 50 mila No Tav del 2005, oggi il 10-15 per cento (circa 15 mila persone) è contrario alla Tav, nel senso che ne farebbe volentieri a meno. Di questi, un 10 per cento (cioè circa 1.500 persone) si mobilita ancora, se stimolato. E ancora un altro 15 per cento (200 persone) ne ha fatto una ragione di vita. Direi che il dialogo ha funzionato. Ed è per questo che le frange del "no" estremo alzarono il tiro».
Quando?
«Nel 2011, in estate. Nell'imminenza dell'apertura del cantiere di Chiomonte, c'è stato un fenomeno interessante nell'evoluzione dei No Tav. Noi temevamo che ci sarebbe stato il bis del 2005, con i 50 mila di sei anni prima. Avrebbe voluto dire la fine del progetto, perché è ovvio che, dopo tutto quel lavoro, contro un popolo intero non si sposta una pietra».
Invece come andò?
«C'era molta meno gente, perché in quegli anni si era dialogato davvero. Il progetto era stato modificato e molti l'avevano capito. I No Tav della prima ora erano rimasti pochi, così hanno cambiato strategia. E hanno detto: "Da oggi porteremo l'Italia a Chiomonte". Attingendo, così, a tutti i gruppi antagonisti, delocalizzando la protesta».
Le infiltrazioni violente...
«Non è corretto parlare di "infiltrati", sarebbe più giusto parlare di "invitati". L'idea è stata di trasformare il cantiere in un simbolo nazionale. Così il logo "No Tav" viene esportato fuori dalla Val di Susa. Siccome il simbolo gode di buon successo, la strategia funziona e finisce per arricchire i marchi dell'antagonismo. Con una cosa certa: i sindaci del "no" non contano più molto. Mentre quel che avviene, e di cui si parla poco, sono le intimidazioni nei confronti dei sindaci che dialogano e che io chiamo "coraggiosi". Così come si parla poco delle intimidazioni nei confronti degli operai del cantiere, o delle imprese».
E il M5S? Qui ha preso una miriade di voti. Con chi sta?
«In fase elettorale è stato un punto di riferimento per i No Tav. L'endorsement è stato utile elettoralmente, ma anche foriero di divisioni.Oggi pare che alcuni slogan usati senza riflettere, come quando hanno detto che avrebbero votato in Parlamento lo stop alla Torino-Lione, stanno mostrando i loro limiti. Potrebbero, alla fine, avere un ruolo positivo nel re-istituzionalizzare il movimento».