Ai bambini cibo razionato e niente vestiario, come in tempi di guerra. Alla loro mamma minacce di morte. Per costringerla a interrompere la collaborazione con la giustizia avevano fatto forti pressioni psicologiche su di lei e i tre figli minori. E per raggiungere l’obiettivo avevano persino pianificato e realizzato una campagna mediatica, con il sostegno di un giornale, per rendere pubblica e portare a conoscenza degli ambienti mafiosi della Piana di Gioia Tauro l’avvenuta interruzione della collaborazione con i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria.
Un calvario senza fine per Giuseppina Pesce, 34 anni, la figlia del boss di Rosarno Salvatore Pesce, che nel 2011 aveva deciso di ribellarsi alle regole mafiose della famiglia. Una donna di ‘ndrangheta che si pente è una macchia che soltanto un familiare può “lavare”, con il sangue naturalmente. La protezione dello Stato le ha salvato la vita per due volte e le ha aperto le porte di una normale quotidianità. Ieri il pm della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, ha firmato l’avviso di conclusione indagine nei confronti di otto familiari: il marito Rocco Palaia, il suocero Gaetano Palaia, la cognata Angela Palaia e il marito di quest’ultima Angelo Ietto, i cognati Gianluca e Giovanni Palaia, la madre Angela Ferraro e la sorella Marina Pesce.
Tutti sono finiti in carcere il 4 ottobre del 2011 per associazione mafiosa, anche grazie alle rivelazioni di Giuseppina. Adesso il suo calvario verso una nuova vita ha segnato un primo punto fermo. Per la procura ognuno ha giocato la sua parte per convincere Giuseppina a interrompere la collaborazione con la giustizia. Con le buone o con le cattive. E il risultato era stato raggiunto nell’aprile del 2011. Dopo le pressioni, i ricatti, le offerte di danaro e le violenze sui tre figli minori la donna cede e non collabora più. Poi il colpo di scena e le verità sul dietrofront. Giuseppina ritorna a pentirsi nell’agosto dello stesso anno. E scatena un terremoto giudiziario.
La campagna mediatica del clan
“Poi ci sono stati i giornali e quello che è stato detto per giorni e giorni, mi hanno fatto apparire come la vittima di quella che invece era stata la mia decisione, la lettera che ho dovuto spedire al giudice, e lì sì mi sono sentita ancora peggio, tutta quella falsità, il personaggio che si era creato non mi apparteneva ma ho dovuto mandare giù anche quello”. Nella lettera del 23 agosto 2011, Giuseppina spiega ai magistrati antimafia motivi e dinamiche che hanno portato alla missiva, scritta il 2 aprile 2011, in cui la donna accusava la Dda di Reggio di pressioni indebite sulla sua persona, lamentando anche condizioni di salute non compatibili con il regime carcerario. Una lettera prodromica alla scelta, formalizzata alcuni giorni dopo, di interrompere la collaborazione con gli inquirenti: “I contatti con la famiglia Palaia nel periodo della mia collaborazione li tenevo dapprima con la mia utenza; dal mese di marzo 2011 anche attraverso un altro telefonino che mi era stato consegnato da mia cognata Angela Palaia, durante un incontro avuto con lei, il marito e il fratello Palaia Gianluca, durante il mese di marzo”.
Una lettera di cui la Pesce, alla ripresa del proprio rapporto di collaborazione, ha smentito ogni affermazione: “Per quanto attiene le dichiarazioni di essere stata costretta a collaborare, si è trattato di una mera tecnica difensiva. Tutto quello che ho riferito sino alla data 11 aprile 2011 è stato spontaneo e ciò che ho dichiarato corrisponde a verità”. Nell’interrogatorio dell’8 settembre 2011, la Pesce, peraltro, lancia accuse piuttosto precise circa la lettera del 2 aprile, quella per infangare i magistrati reggini all’epoca guidati dall’attuale procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, che trovò grande eco soltanto su un organo di stampa: “La lettera è stata trasmessa alla stampa dal mio ex difensore, l’avvocato Giuseppe Madia (del foro di Roma, ndr). Lui teneva i contatti con il quotidiano Calabria Ora, a cui passava le notizie e, in particolare, con il giornalista Sansonetti (all’epoca direttore del quotidiano, oggi alla guida de “Il Garantista”, nda), che è andato a sentirlo presso il suo studio. La lettera è stata data a Sansonetti perché l’avvocato diceva che era l’unico disposto a pubblicargliela e a sposare la nostra causa”.
Secondo quanto emerge dall’avviso di conclusione delle indagini notificato ieri agli indagati gli “organizzatori della campagna mediatica” furono Gianluca Palaia e Gaetano Palaia (che aveva persino stipulato un contratto di locazione di un appartamento a Vibo Valentia Marina per ospitare la nuora “ribelle” all’atto della cessazione della collaborazione). A provvedere al pagamento dell’avvocato Madia era stato, invece, Giovanni Palaia. Il legale avrebbe dovuto assistere Giuseppina Pesce nella fase dell’interruzione della collaborazione con l’autorità giudiziaria e nel processo “All inside” (il procedimento penale contro la cosca Pesce in cui Giuseppina era imputata per associazione mafiosa), “al fine esclusivo di condizionare le scelte della pentita”, come sottolinea il pm Cerreti.
Le violenze sui minori
Nel 2011 avevano 15, 9 e 5 anni i figli di Giuseppina. Hanno subito di tutto appena la mamma ha deciso di passare dalla parte della giustizia. Erano affidati temporaneamente ai familiari del marito. Una prigionia per i piccoli. Niente colloqui con la mamma nella località segreta, niente vestiario, cibo al contagocce. Pressioni psicologiche per inculcare nella testa dei piccoli che quella condizione di sofferenza era causata da una mamma indegna e cattiva. Per la privazione di cibo la piccola di 5 anni aveva persino subito un progressivo deperimento fisico e un calo del ferro nel sangue tale da provocarle forti crampi alle gambe e insonnia. Squallidi i metodi utilizzati anche nei confronti del maschietto di 9 anni. Oltre a subire percosse dal nonno, Gaetano Palaia, anche con l’uso di una cintura, un giorno il bambino era stato accompagnato dallo zio Gianluca Palaia, all’interno di una sala giochi di Rosarno, e davanti a costui, senza che lui intervenisse, era stato sottoposto a percosse da 3-4 ragazzi più grandi. La ragazza più grande, infine, era stata costretta a scrivere sotto dettatura una missiva alla madre, mentre si trovava in una località protetta della provincia di Roma, per stigmatizzare il suo comportamento e la ripresa della collaborazione con la giustizia.
“Una complessa strategia posta in essere dai familiari di strumentalizzazione dei minori al fine di indurre Giuseppina a recedere dalla collaborazione” scrive il pm nell’avviso di conclusione delle indagini. Per la procura i protagonisti dell’articolata strategia sono Gaetano Palaia, Angela Palaia, Gianluca Palaia e Rocco Palaia. Tutti sono accusati di associazione mafiosa con l’aggravante (ad eccezione di Rocco Palaia) di aver commesso il fatto con abuso di relazioni domestiche, essendo i minori affidati alle loro cure.
Mafia14.03.2013
Vivere e morire di 'ndrangheta