Preti accusati di favorire i clan. Summit all'ombra dei santuari. Processioni commissariate. Nella regione che a giugno riceverà la visita di papa Francesco il sacro si mescola troppo spesso al profano del crimine. Come indicano le ultime indagini delle procure

Per gli affiliati è “la Santa”: questo il nome con cui gli uomini di 'ndrangheta chiamano la loro organizzazione. E ci tengono a difendere l'aurea religiosa con cui legittimano il loro potere criminale. Una commistione tra fede cattolica e fedeltà mafiosa, che solo oggi le istituzioni cominciano a combattere. Lo scenario è desolante.

Processioni religiose commissariate o che si fermano davanti alla casa del boss per far entrare la statua del santo. Preti sospettati di avere favorito i clan o di testimoniare a loro favore nei processi. E un altro che vanta parentele con un esponente di una cosca. In Calabria, tra Reggio Calabria e Vibo Valentia, le cosche non pensano solo agli affari terreni. Ma puntano alla vita eterna allacciando rapporti con i rappresentanti del clero, alcuni dei quali ben inseriti nei sistemi di potere. Eppure sono passati appena quattro anni dal blitz, coordinato dalla procure di Reggio e Milano, che ha cristallizzato ciò che per molti era solo una leggenda.
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La festa della Madonna di Polsi che si tiene ogni anno in Aspromonte è l'occasione per le 'ndrine di riunirsi e decidere le cariche. Con tanto di filmato gli investigatori hanno documentato i summit all'ombra del santuario retto dal priore don Pino Stangio. Il rapporto dei capi bastone con la fede ha radici lontane. Non è un caso che per i riti di affiliazione i “battezzati” brucino l'immaginetta sacra di San Michele Arcangelo, che la 'ndrangheta considera il proprio patrono. Costretta a condividerlo con la polizia che lo ha scelto come santo protettore.

Papa Francesco tra poche settimane andrà in Calabria e visiterà Cassano allo Ionio, dove è stato ucciso Cocò, il piccolo di tre anni vittima di una faida tra clan. La visita di Bergoglio sarà l'occasione per scacciare l'ombra maligna dalle curie della regione. Intanto, uno dei parroci indagati è stato “promosso”. Il vescovo ha respinto le sue dimissioni nonostante i pesanti capi d’imputazione dell'antimafia. Ha disposto infatti solo una sospensione dalla nomina di “parroco”, soluzione intermedia in attesa che si definisca meglio il procedimento penale, forse facendo leva sul fatto che le accuse della Dda sono state ridimensionate dal giudice per le indagini preliminar che ha respinto la richiesta d’arresto del sacerdote. Rigetto a cui la procura ha reagito presentando atto di appello e ribadendo le esigenze cautelari: ora tocca ai giudici del Riesame pronunciarsi.
Un momento della processione dell'Affruntata a Sant'Onofrio


IL COLLABORATORE DEL VESCOVO E IL PRESTITO
Nei mesi scorsi uno stretto collaboratore del vescovo della diocesi vibonese è finito sotto indagine, insieme a un altro prelato, per una storia di soldi prestati. Sono stati denunciati da un imprenditore della zona in difficoltà che aveva contratto alcuni debiti. Si era fidato di loro, e soprattutto del ruolo che ricoprono. Entrambi hanno accettato di aiutarlo. E all'inizio non hanno preteso nulla in cambio. Poi però l'imprenditore si è reso conto che l'aiuto concesso si stava trasformando. Un soccorso che giorno dopo giorno, secondo il racconto del’'imprenditore, veniva contaminato da inattese pressioni e strane telefonate per ottenere il rientro del prestito. Così ha deciso di rivolgersi alla squadra Mobile di Vibo Valentia. Che qualche mese fa ha iniziato a mettere insieme i pezzi della vicenda, informando pure la Dda di Catanzaro. Il collaboratore del vescovo è messo in relazione ad alcuni esponenti del clan Mancuso. In particolare si fa riferimento a lontani parenti del prelato, coinvolti nell'inchiesta “Black Money” e a degli altri personaggi, legati alla stessa cosca, che nei documenti vengono chiamati “cugini”. «È falso», così difende il suo collaboratore il vescovo Luigi Renzo intervistato da “l'Espresso”, «non c'è nessuna parentela, con quel cognome c'è tanta gente ma non c'entrano con lui e con la sua famiglia». Sarà, ma i detective non la pensano allo stesso modo.

IL PRETE ANTIMAFIA INDAGATO
Salvatore Santaguida, invece, dalla parrocchia di Stefanaconi, un paesone del Vibonese, è passato pochi mesi fa a incarico più prestigioso nella chiesa di San Sebastiano a Pizzo Calabro. Il che è stato percepito dagli inquirenti come una sorta di “promozione” di un prete notoriamente inquisito dalla distrettuale antimafia di Catanzaro. «Per motivi di cautela era stato sollevato dall'incarico», osserva monsignor Renzo «ma non dimentichiamo che è solo indagato, non è stato condannato. E dopo un anno e mezzo ho ritenuto fosse corretto dare un po' di spazio a questo giovane prete, senza per questo condizionare l'attività della magistratura».

Il pm Simona Rossi, il procuratore capo Vincenzo Lombardo e l'aggiunto Giuseppe Borrelli (ora a Napoli) ne avevano persino chiesto l'arresto. Ma per il gip gli elementi raccolti contro don Salvatore Santaguida non sono ritenuti sufficienti per mandarlo in carcere. Resta comunque in piedi l'ipotesi della procura di concorso esterno in associazione mafiosa. Nello stesso procedimento è coinvolto anche un maresciallo dei carabinieri, Sebastiano Cannizzaro (comandante della stazione di Sant'Onofrio) poi sospeso dall'incarico. Agli atti dell'indagine “Romanzo criminale” il sacro si mescola al profano del crimine.

Gli investigatori hanno raccolto i filmati delle processioni dell'Affrontata (Gesù si rivela alla Madonna dopo la resurrezione) che si tiene a Stefanaconi la domenica di Pasqua. E hanno scoperto che i vertici della cosca Patania avevano il potere assoluto sul trasporto della statua di San Giovanni. A poco dunque è servita la buona volontà di Santaguida che nel 2003 per tagliare fuori i boss dalla processione cambiò le regole del rito, decidendo di sorteggiare a caso i fedeli che dovevano portare le statue. Da allora per la sua comunità divenne il parroco antimafia. Fino ai primi mesi del 2012. Quando i carabinieri hanno bussato alla sua porta con un ordine di perquisizione. Preludio della richiesta di arresto firmata due anni dopo dai magistrati e rigettata dal giudice per le indagini preliminari. Ma la procura non si arrende e fa ricorso, rispolverando un'intercettazione ambientale in cui un membro del clan Patania dice: "Il prete ci sta aiutando, sai...".

SANTO COMMISSARIO
Come per le calamità naturali era pronta a intervenire la protezione civile. Ma i volontari non avrebbero dovuto portare acqua e primi soccorsi, piuttosto le statue durante l' Affrontata, la tradizionale processione pasquale di Sant'Onofrio e Stefanaconi. Insomma, è emergenza fede nel Vibonese. Tanto che il prefetto ha deciso di commissariare entrambi i riti pasquali per evitare che gli 'ndranghetisti locali ne prendessero le redini. Ma l'idea di far portare la Madonna e Gesù agli uomini e le donne della protezione civile (peraltro, da quanto risulta a “l'Espresso”, intimoriti dal doversi assumere tale responsabilità) non è andata giù ai parrocchiani. Così la decisione, sofferta, è stata di annullare la liturgia: la domenica di Pasqua le statue sono rimaste nelle rispettive chiese. E la tradizionale Affrontata per quest'anno è stata sostituita da una messa ordinaria. La protesta è stata condivisa dal vescovo Luigi Renzo: «C'è stata un po' di divergenza con il comitato prefettizio, perché sono intervenuti su una materia di competenza del vescovo, la gente si è rifiutata perché non ha accettato l'ingerenza dell'autorità. La decisione non è stata assolutamente presa d'intesa con noi. Io avrei trovato una soluzione alternativa all'interno della comunità». Ma il Monsignore è ottimista: «L'anno prossimo si farà, noi dobbiamo costruire cultura e creare una sinergia con prefettura e forze dell'ordine con cui c'è stata sempre una sintonia perfetta, questo è stato solo un incidente di percorso».

IL PASTORE IMPUTATO
La storia di don Nuccio Cannizzaro parte dalle periferie di Reggio Calabria, passa da incarichi di peso nella diocesi cittadina e da rapporti con politici che contano, e infine approda in tribunale. Per i fedeli è persona di grande generosità. Lo hanno difeso con tanto di striscioni esposti all'entrata della chiesa di Condera, un quartiere di Reggio Calabria, contro i giornalisti che loro definiscono killer, ma che in realtà hanno semplicemente fatto il loro mestiere di cronisti. Ne sa qualcosa Giuseppe Baldessarro del Quotidiano della Calabria, che per aver riportato sul giornale le dichiarazioni di un carabiniere, testimone al processo contro don Cannizzaro, è stato additato come il male assoluto della città. Reggio non è nuova a scene di questo tipo. Ha avuto un sindaco, Giuseppe Scopelliti, che aveva persino etichettato alcuni inviati come “cricca”. Don Nuccio è imputato per falsa testimonianza nell'ambito di un'inchiesta della procura antimafia di Reggio Calabria sulla cosca Crucitti.

Il parroco ha ricoperto ruoli importanti. È stato il cerimoniere del vecchio vescovo di Reggio Calabria. E cappellano della polizia municipale. Nella stessa inchiesta anche il testimone di giustizia Tiberio Bentivoglio (imprenditore minacciato e vittima di diversi attentati) ha parlato di Cannizzaro. «Non lo capite che dovete smettere. Cosa vuoi, che ti bruciano il locale di nuovo?», fu il consiglio di Cannizzaro alla moglie di Bentivoglio, e riferito dall'imprenditore durante una delle udienze.

E sempre don Nuccio ricompare in un'altra istruttoria, questa volta relativa ai clan di Vibo Valentia. Non è indagato, ma i carabinieri lo filmano mentre sale sulla barca di un dentista della zona, Nicolino Congestrì. Che descrivono così: «Al centro di un complesso meccanismo del quale fanno parte ed interagiscono parlamentari, funzionari, burocrati, religiosi, militari, medici, templari, massoni, magistrati... che si muovono in modo occulto in diversi settori, adottando una sorta di mutuo soccorso».

IL BOSS? UNA BRAVA PERSONA
Don Carmelo Ascone è da tantissimi anni a Rosarno. Nella sua parrocchia hanno fatto la prima comunione i figli dei sovrani assoluti del paese. Li conosce e li ha visti crescere. Ha un modo tutto suo di fare antimafia. Quando un anno e mezzo fa al maxi processo contro la cosca Pesce è stato sentito come teste ha espresso le sue perplessità sull'attività dei pm. «È stato arrestato il Sindaco un po’di anni fa, poi rivelatosi innocente, è stato chiusa la sede scout per mafia, e siamo stati... siamo passati per razzisti, per cattivi contro i negri, c’è stata una serie di cose che hanno buttato fango su Rosarno e sui rosarnesi, e molti stanno pagando innocentemente penso». E su Franco Rao, poi condannato in primo grado, aveva dichiarato: «È stato sempre un elemento che ha voluto fare del bene, si è sempre adoperato per l’educazione dei ragazzi».

A quel punto è intervenuto il presidente del tribunale: «Viene qui a dire che effettivamente è una sorta quasi di persecuzione, un poco lascia perplessi questa affermazione?». «Non ho detto che è un'isola felice», ha ribattuto Ascone, «dico che c’è del nero e c’è del bianco, c’è del male e c’è del bene». Terminato il processo il parroco di Rosarno è tornato nella sua chiesa. Dove ancora oggi accoglie tutti. Anche i peccatori non pentiti.

SANTISSIMI APPALTI
Non sfugge niente al controllo della 'ndrangheta. Neppure i cantieri dei santuari. A Paravati, provincia di Vibo Valentia, il clan Mancuso ha messo a disposizione il cemento per realizzare Villa della Gioia, un imponente complesso religioso voluto da Natuzza Evolo, la mistica con le stimmate scomparsa nel 2009. Prima di morire aveva avuto una visione: una grande chiesa per accogliere i fedeli in pellegrinaggio. E l'aveva immaginata proprio nel suo regno, a Paravati. Così è iniziata la costruzione. La zona però è sotto lo stretto controllo del clan Mancuso. Che lì gestisce ogni moneta in circolazione. E su ogni affare reclama la propria parte. Una regola accettata da tutti.

Non ne ha fatto mistero padre Michele Cordiano, il direttore della fondazione “Cuore immacolato di Maria rifugio della anime”, responsabile del progetto. Interrogato ha fornito la sua versione, fatalista, dei fatti: «Nella scelta di assecondare il suggerimento di Pantaleone Mancuso ho inteso garantire quella che io consideravo una “tutela ambientale” al raggiungimento dello scopo finale nella realizzazione dell'opera e pertanto appariva superfluo un confronto con altre proposte di fornitura di calcestruzzo».

L'interessamento da parte del boss Mancuso per l'opera di Paravati è emersa nelle ultime inchieste della procura antimafia di Catanzaro. «Una volta gli hanno messo la bomba, ci misero la benzina con le cartucce, e alle undici della notte mi ha chiamato per andare là, sono andato là..”Che volete?”...sono andato io e gliel'ho sbrigata», il padrino intercettato ammette un suo intervento a Paravati per fermare le intimidazioni.

che insospettiscono gli inquirenti. Così decidono di sentire direttamente il prete. Che ammette di avere accettato il cemento dei Mancuso. Le gru delle cosche hanno lavorato anche in un altro santuario. A Polsi. Dove ogni anno si festeggia la Madonna della montagna, evento sacro non solo per i credenti ma anche per gli 'ndranghetisti, che lì si riuniscono per decidere le cariche dell'organizzazione. In questo caso si tratta di un opera pubblica. Il materiale l'ha messo a disposizione una 'ndrina di San Luca. Ma dalle intercettazioni ciò che emerge è una situazione ben più complessa. Anche per la strada del calvario è intervenuta la 'ndrangheta. «Ha mandato l'ambasciata qua giù don Pino che hanno bisogno di una “bitumerata”(carico di bitume) di cemento, che ha bisogno di cemento lui... la che devono gettare il coso del Cristo».

Il don Pino di cui parla nella telefonata il boss Francesco Mammoliti è, secondo gli investigatori di Reggio Calabria, il priore del santuario di Polsi, Pino Strangio. Quello di Mammoliti è un monopolio. Tra Polsi e San Luca è il fornitore ufficiale per gli appalti. «Tant'è vero che anche il rettore del santuario della Madonna di Polsi è “costretto” a rivolgersi a lui».  Le offerte del capo 'ndrangheta sono state accettate. E nessuna denuncia ha preceduto l'inchiesta dei pm di Reggio Calabria.

FRANCESCO VA IN CALABRIA

È questa la situazione che Papa Francesco troverà in Calabria durante il suo viaggio previsto a fine giugno. Per la giornata della memoria per le vittime di mafia aveva avuto parole dure contro i clan: «Convertitevi o andrete all'inferno». Parole che sono suonate come una scomunica per i padrini fedeli a San Michele Arcangelo e alla Madonna di Polsi. Accanto a lui c'erano i sacerdoti che in Calabria resistono. Come don Pino De Masi. Che nella piana di Gioia Tauro manda avanti con coraggio una cooperativa agricola. Non si è mai piegato alle minacce e alle intimidazioni. La linea del Papa è chiara. Tolleranza zero con chi è complice o indifferente. E la Conferenza dei vescovi calabresi, riprendendo l'appello di Bergoglio, ha scritto un documento in cui chiedono ai cittadini di assumersi le proprie responsabilità: «ricordiamo a tutti i calabresi un duplice ineludibile dovere, quello del coraggio della denuncia e quello della fuga da ogni omertà». E questo dovrebbe valere per tutti. Anche per chi indossa l'abito talare.