

Duecentoquarantaquattro persone caricate su un piccolo peschereccio alle tre di notte di sabato 28 giugno 2014 davanti alla spiaggia di Al-Khums, la terra di nascita dell’imperatore romano Settimio Severo, un centinaio di chilometri a Est di Tripoli: 244 ragazzi, molte donne, due ventenni incinte di sei mesi, un esercito di bambini, partiti nel buio e mai arrivati in Italia. Mai soccorsi. Mai più visti. Dopo quattro mesi senza notizie, non resta che pensare al peggio: il naufragio, l’affondamento, una delle tante stragi silenziose, mai registrate. Nuovi numeri che fanno salire il bilancio nel Mediterraneo: oltre quattromila morti, dall’ottobre 2013 a questi ultimi giorni di “Mare nostrum”, l’unica vera operazione di salvataggio messa in campo da un governo europeo.
E Measho, il presunto trafficante che ascolta Michael Jackson e ama i selfie? L’ha fatta franca, con tutti i soldi che ha incassato. A metà settembre ha deciso di lasciare la Libia, sempre più insicura per la guerra civile. È salito su un barcone con altre centinaia di profughi veri. Ed è stato lui dice Abas, un compagno di viaggio, a chiamare i soccorsi con un telefono satellitare, una volta finiti in mezzo al mare. Una nave della Marina militare lo ha sbarcato a Brindisi, insieme con tutti gli altri presi a bordo. In Puglia Measho Tesfamariam ha finto di essere un rifugiato. Solo per qualche giorno, però. Il tempo di comprare un cellulare e una scheda telefonica “Lycamobile”. Ed eccolo di nuovo in viaggio. In treno fino a Napoli. Poi a Bologna, dove il 19 settembre sale sull’Eurocity per Bolzano delle 11.52. Le ultime segnalazioni lo danno in Germania, dalle parti di Francoforte, dove abita il fratello Merhawi.
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Sarà un nuovo grattacapo per i rapporti tra Italia e Germania. Perché Measho, come risulta, ha potuto lasciare il centro di identificazione pugliese prima che qualcuno gli prendesse le impronte digitali. Non è l’unico: su 150 mila profughi sbarcati in Italia dal 18 ottobre 2013 al 17 ottobre 2014, almeno centomila non sono stati identificati come prevede la legge. Una prassi tollerata dai funzionari del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, per favorire la fuga dei richiedenti asilo verso altri Paesi del Nord Europa: se fossero stati schedati con le impronte nel sistema europeo “Eurodac”, tutti i 150 mila nuovi profughi sarebbero dovuti rimanere per sempre in Italia: anche se erano attesi dai familiari in Germania, Norvegia o Svezia. Assurdità della burocrazia europea. Insomma, senza impronte non sarà facile per la polizia tedesca identificare l’imprendibile Measho.
È questo che vorrebbero decine e decine di parenti dei 244 dispersi. Cittadini eritrei che vivono in Italia, Svizzera, Norvegia, Australia, Canada, Stati Uniti e, ovviamente, in Eritrea. Sono loro finora i protagonisti di una caccia all’uomo che da giugno sta inseguendo Tesfamariam a distanza, annotando ogni spostamento, ogni contatto telefonico, ogni apparizione su Facebook. Fili che l’inchiesta de “l’Espresso” ha ora intrecciato, ricostruendo tutta la storia.
«Chiedo che il signor Measho Tesfamariam sia rintracciato dalla pubblica autorità e dia spiegazione di quanto è successo», è scritto nell’esposto depositato pochi giorni fa alla Procura di Milano e indirizzato alla Direzione distrettuale antimafia di Bologna, l’ultima città italiana in cui il presunto trafficante è stato visto da altri eritrei e dove è stato probabilmente filmato dalle telecamere della stazione. La denuncia, formalmente contro ignoti, è firmata da un magazziniere di Milano, ma riporta anche le segnalazioni di una commerciante di Milano, di un operaio e di un rifugiato che vivono a Roma. Alla Procura sono state consegnate la lista di 87 dei 243 passeggeri dispersi e tre fotografie di Measho, un nome molto conosciuto tra gli esuli fuggiti in Europa attraverso la Libia.
«Il 26 giugno», racconta il magazziniere, 34 anni, in Italia dal 2008, «mia sorella Tzegereda mi chiama da Tripoli.
Era arrivata da qualche giorno. Mi dice che nel giro di poche ore si sarebbe imbarcata. Ha 30 anni mia sorella e viaggiava con uno zio materno e un cugino di 26 anni». Il 26 giugno è un giovedì. «Venerdì 27 giugno, alle 8 del mattino, richiamo il numero di mia sorella, ma risulta spento. Il giorno dopo, il 28», continua il magazziniere, «non avendo più notizie dei miei familiari, chiamo il numero libico di Measho. Il suo telefono l’avevo memorizzato quando lui in persona giorni prima mi aveva chiamato per dirmi che mia sorella e i nostri parenti erano arrivati sani e salvi nella zona di Tripoli, dopo aver attraversato il Sahara dal Sudan e le regioni in guerra. Mia sorella mi ha poi spiegato che Tesfamariam era il contatto in Libia dei trafficanti che accompagnano i profughi nel deserto, nonché l’organizzatore della traversata verso l’Italia. Sempre mia sorella mi ha raccontato che proprio Measho aveva incassato i 1.600 dollari americani che chiedeva a ciascun passeggero per l’imbarco».
Il peschereccio scomparso ha reso 388.800 dollari, oltre 300 mila euro, tutti versati prima della partenza. Soldi che si aggiungono ai 1.600 dollari a testa pagati dai profughi in Sudan per attraversare il deserto. «Measho», aggiunge il magazziniere che ha firmato l’esposto, «mi dice che il barcone con mia sorella era partito sei ore prima, alle 3 di notte del 28 giugno. Lo risento il 30 giugno quando, nel primo pomeriggio, mi telefona dicendo che i miei parenti sono arrivati in Italia e per questo mi fa gli auguri».
È un fine settimana pazzesco per gli equipaggi di “Mare nostrum”. In 48 ore, dal 28 al 30 giugno, la Marina militare soccorre oltre cinquemila profughi. Trenta persone vengono trovate morte asfissiate nella stiva di un peschereccio. Il mare è calmo. Ma quella di Measho è una bugia. Il barcone, uno dei tanti con cui l’eritreo si sarebbe arricchito nel 2014, non è mai arrivato. Infatti nessuno dei passeggeri chiama i familiari in Europa. Il 2 luglio Measho dice che bisogna telefonare a Ibrahim, il sudanese che ha fornito la barca. Entrambi sostengono che c’era dell’hashish a bordo e che i passeggeri sono stati tutti arrestati a Pozzallo, in Sicilia. Ma da Pozzallo smentiscono sia la droga, sia gli arresti. È un’altra menzogna per coprire la strage. Fino al 13 luglio Measho racconta solo bugie ai parenti che lo chiamano. Quel giorno smette di rispondere al telefono e anche Ibrahim, il sudanese, scompare.
«Non so più nulla fino a settembre», spiega l’autore dell’esposto, che si è annotato tutte le date, i nomi, i numeri di telefono nella speranza di ritrovare la sorella: «Il 18 mi chiama da Israele, dove lavora, il fratello di Natsnet, una delle due ragazze incinte disperse. Lui conosce personalmente Measho. Da bambini in Eritrea abitavano nella stessa casa, vicino a Gebel Hamed. Mi dice che Measho è in Italia. È stato sbarcato, forse il 12 settembre, dalla Marina militare a Brindisi». Con un giro di chiamate, la rete internazionale dei parenti in poche ore recupera un numero di telefono italiano. Risponde Measho: «Parliamo per due ore fino all’una di notte», rivela il magazziniere di Milano: «Mi dice che i nostri familiari sono tutti morti. Oppure sono stati rapiti da un’altra organizzazione libica di cui lui sostiene di non saper nulla, ma forse anche questa è una bugia. Pretendo di incontrarlo. Decidiamo di vederci l’indomani alle 15, in stazione a Bologna. Ma la mattina del 19 settembre, quando lo chiamo per avere conferma, Measho non risponde più. Al suo posto parla un altro eritreo, suo compagno di viaggio. Dice che a Bologna hanno preso il treno delle 11.52. Hanno già passato il confine, sono in Austria». Qualche giorno fa i parenti scoprono il numero tedesco di Merhawi Tesfamariam: il fratello conferma che Measho è in Germania ma dice di non sapere dove. Poi anche Merhawi non risponde più. Come abitanti di una società liquida, nessuno ha indirizzi stabili. Soltanto numeri di cellulare e pagine Facebook: «Thanxxxs my best friend love u and miss u», grazie amici, vi amo e mi mancate, scrive Measho l’8 ottobre sulla sua pagina. A questo punto solo la polizia criminale può forse rintracciare il finto profugo che, tra post, selfie sorridenti e 244 persone mandate a morire, non ha mai pubblicato chi sia davvero.
Seduti a un bar della stazione Termini, a Roma, Grmay, 25 anni, il rifugiato in attesa di asilo, e Hagos, 41, l’operaio, mostrano l’elenco dei dispersi. Grmay sta cercando la zia più giovane di lui, Helen, 20 anni, numero 18 della lista. Hagos il fratello Kidane, 39 anni, numero 3 della lista. «Quando chiamavo in Libia, rispondeva Measho, il capo, e ti chiedeva: con chi vuoi parlare?», racconta l’operaio: «Mio fratello e tutti gli altri erano prigionieri in un capannone. Anche a me hanno detto che sarebbero partiti il 28 giugno. Adesso, quando mi telefonano dall’Eritrea, resto in silenzio perché non so che cosa dire. Mio padre mi chiede: dov’è tuo fratello? E io non rispondo».