L'udienza al Colle offusca la credibilità della massima carica istituzionale. E serve solo a un ritorno mediatico per i pm. Come sostiene anche qualche magistrato contrario al "tiro al bersaglio contro il capo dello Stato"

Giorgio Napolitano
Puntare così, come stanno facendo i pm di Palermo, sul Presidente della Repubblica fa venire in mente un vecchio detto siciliano: «’U carbuni si nun tingi mascarìa», il carbone se proprio non colora almeno macchia. È come inserire un virus in grado di offuscare la credibilità della massima carica istituzionale, insinuare dubbi sulla sua sincerità, seminare sospetti sulla genuinità di ciò che dice, o non dice.

Una tecnica che venne denunciata proprio da Giovanni Falcone quando finì sotto accusa al Csm. Il bersaglio adesso è Giorgio Napolitano. E qui sta il problema, perché se a un Capo di Stato si voleva porre qualche domanda sulla trattativa Stato-mafia, non è certo all’attuale, come ben sanno i pm, ma a un suo predecessore, Oscar Luigi Scalfaro.

Il processo
Trattativa Stato-Mafia, i giudici di Palermo: ecco perché Napolitano dovrà testimoniare
25/9/2014
Più alto è il nemico più valoroso è chi lo persegue? Il valore sta nella capacità di provare processualmente gli addebiti. I giudici sono chiamati ad accertare se vi sia stata violenza o minaccia a un corpo politico «per impedirne o comunque turbarne l’attività». È la tesi della procura che accusa imputati mafiosi, politici, ex ministri ed ex carabinieri: è il processo alla trattativa Stato-mafia. Un processo che per risvolti mediatici e istituzionali è destinato a passare alla storia del Paese, spostando addirittura dentro il Quirinale un’intera sezione di corte d’assise.

Per la prima volta un Presidente sarà sentito come testimone in un “pubblico” dibattimento, anche se non ci saranno spettatori e nemmeno gli imputati verranno ammessi. I pm hanno convocato come teste Napolitano per rispondere solo di una frase contenuta in una lettera del giugno 2012 scritta dal consigliere giuridico del Colle, Loris D’Ambrosio: una missiva in cui si definiva amareggiato per le polemiche sulle telefonate intercettate tra lui e Mancino, rassegnando le dimissioni. In quella occasione D’Ambrosio scrisse di aver avanzato «ipotesi, solo ipotesi» facendo accenni criptici a una stagione di bombe, veleni e misteri, dal “corvo” di Palermo al fallito attentato a Falcone all’Addaura, fino agli omicidi eccellenti e alle stragi del ’92 e ’93, accompagnate da episodi poco chiari sia all’interno delle istituzioni sia della mafia, preceduti da un «lei sa», riferito a Napolitano. 

Il presidente ha già comunicato ai giudici con una lettera che non ebbe da D’Ambrosio nessun «ragguaglio o specificazione» sulle «ipotesi enucleate», ma ciò non è servito a escludere la sua deposizione. Napolitano ha sottolineato che non sa altro. I pm però lo vogliono vedere a tutti i costi davanti a loro, per farsi ripetere «non so». E la loro irruzione al Quirinale crea uno sfregio istituzionale. 

Anche all’interno della magistratura c’è chi sostiene che i pm di Palermo a questo punto avrebbero potuto rinunciare al teste. Come Giuseppe Di Lello, ex giudice istruttore del pool, che alla “Stampa” ha parlato di un «tiro al bersaglio contro il Capo dello Stato». L’ex magistrato ritiene che abbia «preso vigore una campagna contro il Presidente» e dopo la distruzione delle intercettazioni telefoniche fra Napolitano e Mancino «la “compagnia di giro” ha aggiustato il tiro sul bersaglio, spostandolo sulla lettera che  D’Ambrosio inviò a Napolitano. Purtroppo D’Ambrosio è morto».

Di Lello chiede «perché mai il Capo dello Stato dovrebbe sapere quali fossero questi ipotetici indicibili accordi, quando ha già fatto sapere di non avere null’altro da aggiungere? Di sicuro però, il danno è stato fatto perché il coinvolgimento nel processo del Capo dello Stato è interpretato dal popolo antimafia duro e puro come la conferma che Napolitano sia depositario di tutti i segreti della trattativa e, di conseguenza, delle stragi». Ma la deposizione oltre che uno sfregio istituzionale potrebbe rivelarsi anche un errore processuale. Che rischia di minare l’intero dibattimento. Perché, vietando la presenza degli imputati, si apre la strada a più di un ricorso sulla validità del giudizio. Certo, il magistrato deve sempre tendere alla ricerca della verità. Ma deve anche evitare che certe azioni spazzino via il lavoro di ricerca che ha come obiettivo quello di accertare se lo Stato si è piegato alla mafia e capire se tante vittime innocenti come Dario, Caterina, Nadia, Fabrizio, Angela possano essere state uccise nel ’93 in via dei Georgofili da una bomba destinata a sostenere una trattativa inconfessabile. 

I vuoti da colmare sono ancora tanti e sarebbe bastato rinunciare al teste e andare spediti verso la fine del dibattimento per ottenere una verità giudiziaria. La sensazione è che questi pm siano saliti a bordo di un’auto che viaggia a forte velocità imboccando una strada che sembra essere un vicolo cieco. «Ci vorrebbe un po’ più d’equilibrio da parte di tutti», scrisse Norberto Nobbio nel 1992, quando un sistema politico affondava anche sotto i colpi delle stragi e quando sicuramente vennero imbastiti dei tentativi di dialogare con le mafie. Ma quell’appello non ha ancora trovato ascolto

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