Tor Sapienza, l'assalto al grido "Bruciamoli" Ma in crisi c'è anche il sistema d'accoglienza

L'attacco alla struttura per richiedenti asilo sarebbe stato pianificato. Una provocazione, supportata però da alcuni residenti che non avevano denunciato problemi prima. Nonostante i rifugiati ci siano da tempo. Cos'è successo? È cambiato il clima politico. Ma c'è anche un problema di gestione

In viale Giorgio Morandi 153, Roma Est, quartiere Tor Sapienza, è scoppiato un dramma. Che ha due fronti.
Da una parte c'è l'embrione di una nuova guerra civile, poveri contro poveri, italiani contro immigrati, residenti contro stranieri. Una divisione fomentata da forze politiche e provocazioni mediatiche (Matteo Salvini ha dichiarato subito che verrà in missione anche qui, dopo il blitz anti-Rom di Brescia) che individua nel colore della pelle o nell'origine anagrafica il capro espiatorio di un'insofferenza generale. Pericolosa.

Dall'altra parte però c'è anche una macchina dell'accoglienza che scricchiola. Un sistema di strutture per aiutare richiedenti asilo, rifugiati politici e minori soli che vengono finanziate principalmente da fonti europee (utile ricordarlo) attraverso il ministero dell'Interno o la rete dei Comuni. Nonostante le sovvenzioni però questi centri spesso non reggono il compito assegnato. Non riescono a garantire l'assistenza che dovrebbero. Non favoriscono l'inclusione sociale. L'integrazione. Anzi: lasciando soli gli stranieri, fanno sì che aumentino i potenziali casi di scontro. Come a Tor Sapienza.

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Il sistema dell'accoglienza soffre sicuramente per il peso degli sbarchi, che con Mare Nostrum sono aumentati a livelli record, e portano continuamente nuove persone, con nuovi problemi, da nuove nazioni, in una rete già stremata. Ma c'è anche un problema raramente affrontato dalle amministrazioni: il volto concreto, reale, di questi servizi. Che in alcuni casi è tutt'altro che splendente. Cosa fanno questi ragazzi stranieri tutto il giorno? Come mangiano? Chi li segue? Cosa studiano? Come passano il tempo? Come vivono il loro ingresso in Italia? Che problemi hanno? Come sono aiutati?

Ecco, dai racconti di diversi operatori che hanno collaborato con chi gestisce il centro di Tor Sapienza, la “Cooperativa sociale Un Sorriso”, qui si potrebbe fare meglio. E non è una questione di soldi. Ma di metodo. Dalla mancanza di cure psicologiche ai pasti non adeguati, dalle attività giornaliere troppo scarse al rapporto col quartiere. Mentre mancano controlli e verifiche dell'effettiva qualità del servizio.

Potrebbe quindi risiedere anche in questo il motivo per cui l'intolleranza in questo angolo della periferia romana è esplosa solo ora. Fino a marzo nella palazzina di via Morandi c'era infatti un'iniziativa considerata un modello, su cui è stato realizzato anche un documentario. È durata due anni. Poi il sogno è finito. E questo luogo apprezzato, da cui erano stati costruiti ottimi rapporti coi vicini, con le pizzerie, gli esercizi commerciali, gli abitanti del quartiere, è diventato un obiettivo d'odio. Perché?

L'ASSALTO
Giovanni Impagliazzo, dell'assessorato politiche sociali di Roma, è sicuro che la causa sia una sola. «Il clima politico. Abbiamo subito un'aggressione strumentale», dice: «Una provocazione pianificata. I motivi dell'insofferenza dichiarati dai residenti alle tv non esistono. Sono infondati, esagerati. Qui ci sono 36 extracomunitari adolescenti e una trentina di adulti. Che pericolo possono rappresentare in un quartiere di 12.648 persone? Nessuno», sostiene. E racconta: «Il centro d'accoglienza è stato assaltato da italiani. Incappucciati. Che hanno distrutto i vetri e minacciato gli ospiti al grido di “Viva il duce” “Duce! Duce!” e di “Li bruceremo tutti”. È stato spaventoso», ricorda.
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Ma i cittadini di Tor Sapienza c'erano, poi, a dare spalla. Sono tornati l'altra notte. Hanno esposto striscioni contro gli immigrati. «Le loro paure sono infondate. A molestare quella ragazza sono stati forse due romeni che hanno fatto qualche commento. Questi giovani stranieri non c'entrano niente. Vogliono solo star tranquilli. Fumare una sigaretta. Giocare a calcio. Guardare la Tv», dice il rappresentante dell'assessorato. «La verità», continua: «È che le periferie sono in uno stato d'abbandono, d'isolamento. Ed è facile manipolare l'insofferenza. Per questo tutti quanti dovremmo abbassare i toni. Il rischio altrimenti è che risucceda quello che è avvenuto a Tor Pignattara, dove un pakistano è stato ucciso a calci da un italiano. Mentre nella nostra scuola primaria abbiamo già fra l'otto e il 10 per cento di bimbi stranieri perfettamente integrati. Non possiamo lasciar passare questi episodi».

E conclude: «Ecco, se avessero attaccato una scuola dei nostri figli, ci saremmo tutti indignati», dice: «Qui no. Qui un gruppo di incappucciati ha aggredito una struttura gridando “Immigrati di merda, vi bruceremo” e non c'è stato neanche un arresto. Ecco qual è il problema». E tutto questo, dice «mi mette grande tristezza», ma «che sia chiaro», insiste: «Questi minori stanno qui. Non torneranno indietro. Perché hanno tutto il diritto di vivere qui».

La procura di Roma adesso ha aperto un fascicolo ipotizzando reati di minacce, violenza privata e danneggiamento. Gli inquirenti proveranno ad accertare se la rivolta sia stata un atto spontaneo o ci fosse una regia.

Il resoconto della questura è chiaro: «Le due pattuglie di vigilanza al centro sono state raggiunte da circa 70/80 persone, molte delle quali a volto coperto ed armate di bastoni», hanno spiegato: «che con il chiaro intento di attaccare, hanno iniziato un fitto lancio di oggetti contundenti e bombe carta nei confronti degli agenti e del centro stesso».

UN LUOGO
Al numero 153 di viale Morandi si trova una palazzina su più piani. Su due livelli c'è un centro d'accoglienza per minori stranieri. Può ospitare fino a 80 persone. Oggi ci dormono solo 36 ragazzi dai 14 ai 17 anni. È gestito dalla "Cooperativa Un Sorriso", nata nel 2000: una settantina di dipendenti, diversi altri appalti nel sociale. Specializzata in passato in altri settori – gestisce un asilo nido e una casa famiglia per padri separati, ad esempio, e si occupa dei pasti per i pellegrini all'Abbazia Tre Fontane – dall'ottobre del 2011 è convenzionata col comune di Roma per l'accoglienza degli adolescenti scappati da guerre e povertà.

Per due anni, inoltre, "Un sorriso", insieme all'organizzazione “Fattivamente”, presieduta da una dipendente della stessa coop, ha vinto un bando della Croce Rossa per garantire i pasti, le pulizie e la guardiania ad un progetto dell'Università Cattolica di Roma chiamato “Amici”, e dedicato ai richiedenti asilo respinti dall'Europa in Italia (in gergo tecnico: dublinati, perché costretti ad applicare il regolamento di Dublino).

Per due anni famiglie e persone scappate dalla Siria, il Pakistan e l'Africa sono state accolte e curate qui. «I rapporti con il quartiere erano ottimi», assicurano gli operatori che hanno conosciuto quel progetto, e preferiscono rimanere anonimi: «Il pizzaiolo egiziano si era offerto di dare una mano con i tirocini, se fosse servito. I ragazzi giocavano a calcio coi vicini italiani. Mai un episodio di violenza». All'inizio di quest'anno il percorso, com'era previsto, è finito. E la cooperativa ha aperto nelle nuove stanze liberate un centro d'accoglienza inserito nel sistema nazionale delle strutture comunali. Così oggi hanno trovato qui un appoggio e una speranza 30 adulti che hanno chiesto protezione internazionale.

«Ho incontrato degli ospiti, adolescenti, erano esasperati», racconta un volontario: «Non avevano niente da fare tutto il giorno. Passavano il tempo nel parchetto di fronte, dove è noto che si spaccia. E loro hanno spesso problemi psicologici: hanno alle spalle esperienze terribili, fra cui quelle del viaggio per scappare dal proprio paese. Sono fragili. Se non vengono seguiti, soprattutto gli adolescenti, possono prendere una strada sbagliata».

Tutte queste testimonianze sono state rese nell'anonimato. Ma sono concordi. E riportano anche altre contraddizioni: difficoltà ad avere i biglietti dei trasporti, o i 2,50 euro al giorno previsti per le spese personali, poca attenzione alla mediazione culturale, l'elemento fondamentale per integrare questi giovani. E le richieste di parlare oggi con la presidente della cooperativa, Gabriella Errico (l'amministratore unico invece è Mauro Errico) per chiederle un confronto non hanno avuto risposta.

Intanto nell'estate del 2014 il ministero dell'Interno ha affidato a "Un sorriso" altri importanti progetti. Uno riguarda l'accoglienza di rifugiati a Venezia (finanziamento da 450mila euro). L'altro a Milano per 225mila. Mentre dovrebbe chiudere un centro d'accoglienza aperto a Cuveglio, in provincia di Varese, a 40 chilometri dall'aeroporto di Malpensa, dove sempre secondo il racconto degli operatori ci sarebbero state in passato diverse controversie, dal pagamento degli psicologi alla gestione degli ospiti, in alcuni casi arrivati ad essere ricoverati in psichiatria.

«Forse le cose si potrebbero fare meglio sì», dice dall'assessorato della capitale alle politiche sociali Giovanni Impagliazzo: «Ma ora, davvero, non è questo il problema. Se non qui sarebbe successo altrove. Ogni obiettivo è buono: stanno cercando solo di appiccare il fuoco». Come fare a spegnerlo? Per fermare il conflitto «Bisogna costruire fiducia», racconta un ex operatore: «Ci vogliono ascolto e competenza da parte di chi gestisce questi centri. Perché queste persone sono da noi. Ma stanno diventato sempre più sconosciute agli abitanti. Tanto da rendere realmente preoccupante questa separazione 'tra noi e loro'».

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