Peccato il buio, e il freddo. Non si colgono gli sguardi dello strano trio sotto gli angeli della parete nord: Ludovico Gonzaga (vaga rassomiglianza con Bruno Tabacci), Barbara di Brandeburgo (un’austera Hohenzollern) e la nana di corte, quieta e bonaria, nulla a che vedere con le crudeltà fisiognomiche di un Hieronymus Bosch. Peccato, sì. Perché siamo nella Camera degli Sposi, o Camera Picta, meraviglia di Andrea Mantegna, gloria e icona di Mantova: l’equivalente del Cenacolo di Leonardo per Milano. È chiusa e inaccessibile dal maggio 2012, 20 mesi ormai. Dai giorni del grande spavento, il terremoto. Il “terremoto dell’Emilia”, come decretato dai media, ma che ha colpito anche Mantova, in Lombardia; dettaglio che i media hanno spesso trascurato. Il danno e la beffa.
Tutto chiuso, freddo, buio, da allora. Non solo la Camera degli Sposi, al piano nobile. Ma l’intero Castello di San Giorgio affacciato sul lago Inferiore, minacciato da crepe importanti su pareti e volte. E l’intero braccio della Corte Nuova, con le imponenti stanze monumentali, le Sale di Manto, dei Cavalli, delle Teste, la oblunga Galleria della Mostra con i busti romani tristemente collocati a terra sui cartoni. E in più l’Appartamento Grande di Castello e, oltre il cortile della Cavallerizza, la cosiddetta Rustica (ma erano chiusi già da prima).
Abbiamo avuto accesso a questi tesori invisibili grazie alla cortesia di Giovanna Paolozzi Strozzi, la sovrintendente di Palazzo Ducale, la reggia dei Gonzaga, un sistema labirintico di 500 stanze, e scale, e corti, e nicchie, che l’umanista Baldassarre Castiglione definì «una città in forma di palazzo». La dirigente è toscana di Arezzo, alta, capelli corti, sguardo preoccupato. Il suo ufficio silenzioso, sotto le volte rinascimentali, dà la sensazione, lo fa intendere lei stessa, di un avamposto remoto, gravato dalla solitudine come in certe narrazioni di Buzzati: la solitudine di una reggia trascurata dalle autorità di Roma; la solitudine di troppi beni culturali della nostra Italia, sempre in penuria, in ritardo, in affanno. Sensazione acuita dal lunedì, giorno di chiusura settimanale del museo di Palazzo Ducale, quello sì, di norma aperto, con ingresso da piazza Sordello. Piove così storto che sotto diverse finestre cinquecentesche si creano pozze d’acqua. La sovrintendente le indica con imbarazzo. È la città del Mantegna, di Giulio Romano, di Leon Battista Alberti, ma quando piove storto piove dentro. Da quanti secoli accade?
La chiusura del Castello e della Camera Picta ha procurato un danno serio alla comunità. Perché la città sull’acqua, che Montesquieu nel “Voyage en Italie” chiamò «una seconda Venezia», è, con Milano e Bergamo, il terzo centro d’arte di Lombardia. E negli anni il turismo, culturale e gastronomico, è diventato voce essenziale della sua economia. Per il terremoto Palazzo Ducale ha perduto 120 mila visitatori in meno di due anni: vuol dire 120 mila persone in meno che potevano pernottare in albergo, prendere l’aperitivo, pranzare a tortelli di zucca e luccio in salsa al ristorante, comprare una torta in pasticceria o un golfino nelle boutique sotto i portici. Un danno secco, che si aggiunge alle sofferenze del tessuto delle imprese. Ma di questo, più avanti. Interrompiamo il lamento con una buona notizia.
A fine gennaio la sovrintendenza regionale della Lombardia ha firmato il bando per i primi lavori di consolidamento del Castello: 750 mila euro. Altri 400 mila arrivano da fondi Arcus destinati alla Corte Nuova. Inoltre, ci confermano dai Beni Culturali, il ministro uscente Massimo Bray ha approvato, sempre nell’ambito dei fondi Arcus per il dopo-sisma, 1,5 milioni per Palazzo Ducale. «Avviato il bando, la prima tranche», spiega la sovrintendente Paolozzi Strozzi, «ci consentirà di riaprire ai turisti almeno la torre della Camera degli Sposi e il percorso di accesso. Inutile girarci intorno: è lei, la Camera Picta, l’attrazione massima di Mantova. Siamo obbligati a cominciare da lì». Lavoro delicato. Il Castello non ha subìto cedimenti strutturali alla base, ed è una fortuna. Ma il sisma ha provocato qualche movimento distorsivo. Perciò, spiega Antonio Mazzeri della Sovrintendenza ai Beni architettonici (qui Mantova, tanto per complicar le cose, dipende da Brescia) bisognerà procedere alla cerchiatura delle torri, a iniziare dalla nord, che conserva l’affresco di Mantegna.
In sei mesi, forse meno, potrebbe riaprire almeno quella. Per tutto il resto ci vorrà molto di più; ma la sovrintendente non lo può dire. Sono una quindicina le imprese invitate, la direzione regionale invierà a Roma progetto di recupero e cronoprogramma. Ma in Italia, di solito, va così: si organizza il bando, un’impresa se l’aggiudica; un’altra impresa ricorre al Tar; si sforano le spese o si ritarda, o si rilitiga; e si rifinisce sui giornali e l’opinione pubblica finge d’indignarsi per la millesima volta: questa la trama abituale. «Più avanti», e qui madame Paolozzi Strozzi si tiene saggiamente sul vago, «potremo aprire tutto il Castello di San Giorgio, come secondo museo, separato da quello di Corte Vecchia. E in seguito la Corte Nuova, che diventerebbe il terzo percorso museale».
Brame? Illusioni? Andiamo in municipio dal sindaco, Nicola Sodano, eletto col centro-destra, stazza da torello, voce forte, ed è subito un bagno di realtà. «Il sisma per fortuna non ha colpito le famiglie. Ma i danni quantificati al patrimonio, secondo le stime, variano da 5 a 11 milioni di euro». Per cui, ad oggi, ne risultano stanziati meno di due. E non c’è solo la reggia dei Gonzaga. Sono danneggiati il patrimonio diocesano, la basilica di Santa Barbara, la chiesa di Sant’Andrea con la facciata classicista dell’Alberti. E soprattutto, ricorda il sindaco, lo è il patrimonio comunale: Palazzo del Podestà, torre delle Ore, Palazzo della Ragione, torre dell’Orologio, per dire l’essenziale. Il turista lo capisce appena s’affaccia al cuore del centro storico: i palazzi della Ragione e del Podestà, le torri, la Rotonda di San Lorenzo in piazza Erbe sono tutti transennati e impacchettati, e senza neanche un gran fervore di operai. Sconcertante. Fortuna che la Regione Lombardia ha versato 2,7 milioni, sennò chissà a che punto saremmo. È chiusa al pubblico pure la Domus Romana, coperta da un cassone di metallo bruno che i locali chiamano Toblerone: sarà smantellato. Almeno, sottolinea Sodano, il 29 marzo riapre la Biblioteca Teresiana. E grazie al cielo l’altro gioiello turistico, il polo espositivo di Palazzo Te, assai frequentato dai turisti, anche stranieri, è pienamente operativo, perché di danni ne ha avuti pochi.
Quanto al ministro Bray, prima che cadesse il governo Letta ha annunciato una visita a Mantova per il 3 marzo. A tal fine si è adoperato Matteo Colaninno, deputato mantovano del Pd, d’intesa con la giunta di centro-destra. «Nell’interesse della città», dice, e ripete che, Bray o non Bray, «il milione e mezzo di Arcus è confermato e attivo». La sensazione, ogni volta che si parla di restauri di beni dello Stato, è quella di una lotta di cani intorno all’osso. Immagine distante dagli eleganti cani da caccia e cavalli e cavalieri del Mantegna, che allietano i Gonzaga sullo sfondo azzurrino di una Roma idealizzata, come appare sulla parete ovest della Camera Picta.
E ora l’altra parte declinista della storia. Il turismo, s’è detto, ha subìto un grave calo. Attutito, per la verità, dai buoni numeri del Festivaletteratura, l’appuntamento di settembre: i 112 mila visitatori del 2013 sono anche frutto di solidarietà internazionale. Gli autori inglesi, tedeschi, spagnoli, a Mantova graziosa e mangereccia sono affezionati. Non tradiscono. Per le entrate turistiche quelle giornate di fine estate sono puro ossigeno. E però la città ha fallito un altro obiettivo a cui teneva molto, tanto che si vedono ancora in giro le affissioni beneauguranti: è stata esclusa dalla candidatura a capitale europea della cultura 2019, con l’agognato timbro stellato di Bruxelles: restano in lizza, al centro-nord, Ravenna, Siena, Perugia. Causa recessione faticano anche le librerie, che pure sono ben frequentate, Di Pellegrini, Giunti, Feltrinelli. Parecchi negozi hanno chiuso. Lugubri i “Compro oro” con le serrande abbassate.
Insomma, a Mantova tira un’aria depressiva che fino a pochi anni fa non le apparteneva. Si è sempre contato sul connubio virtuoso cultura-gastronomia-territorio. «Ma dalla provincia», riassume il portavoce del sindaco, Alessandro Colombo, «la crisi è arrivata in città. E qui non ce l’abbiamo, un Barilla, a dare ossigeno». Una battuta per dire che Mantegna forse non basta. Farebbe comodo un Barilla, un marchio forte che trainasse il settore agroalimentare, la vera vocazione, il punto di forza di questo angolo di Lombardia. Un mantovano quattro suini, dice il motto. Ma il tessuto delle imprese è frammentato. Non basta il circuito del Grana Padano e dei salumifici, o la Strada dei sapori, con vini Doc di qualità, se è in ginocchio l’industria classica, con la raffineria Ies e le storiche cartiere Burgo che stanno liquidando le ultime manciate di lavoratori. Resistono i tessili, Corneliani e la Lubiam. Ma i potenti Marcegaglia stanno a Gazoldo degli Ippoliti, a venti chilometri, è già un altro bacino. Colaninno padre ha la casa in centro ma la testa negli Emirati Arabi, a battibeccare per Alitalia. E un san Barilla, un Barilla redentore proprio non si vede.