Riprendendo i dati raccolti – attraverso le agenzie di stampa – da Gabriele del Grande per il suo blog “Fortress Europe”, e incrociandoli con quelli del ministero dell'Interno e dell'agenzia europea Frontex sui controlli, gli autori della relazione, destinata a commissari ed europarlamentari, mostrano come la rotta verso l'Italia sia la più rischiosa fra tutte quelle tentate da chi scappa dalla fame o dalla guerra per arrivare in un porto sicuro.
Dal 1996 al 2013 settemila centosettantadue persone sono scomparse quando ormai mancava loro poco per raggiungere la Sicilia. Più di 13mila sono morte cercando di arrivare in Europa attraverso il mare. E la strage non ha accennato a fermarsi. Anzi, per quanto riguarda l'Italia, è aumentata drammaticamente nel 2008, poi ancora nel 2011, e nel 2013 ha coinvolto più vittime di quanto non fosse successo in tutti gli anni '90, tanto da portare gli autori a definire il viaggio verso le nostre coste «il più letale»: ogni 1000 che partono, 30 sanno di non poter arrivare.

Non sono “inevitabili” quelle morti. E soprattutto, dimostra la relazione, non sono “proporzionali” al numero degli sbarchi, come mostrano i due grafici riportati di seguito. «In contrasto rispetto agli arrivi, per i quali non si vede un trend lineare, i numeri di chi muore per mare hanno visto una crescita preoccupante negli anni 2000 e in particolare dal 2006 in poi».

Il viaggio è pericoloso dall'inizio. Coloro che cercano di raggiungere l'Italia per mare «arrivano da paesi in cui le condizioni politiche possono essere estreme (assenza di uno stato, dittatura, guerra civile etc) o lo sono quelle dei paesi vicini», scrivono i tre autori della relazione: «In entrambi i casi, le persone che vogliono emigrare o hanno bisogno di protezione internazionale spesso non hanno l'opportunità di fare richiesta nel loro paese o negli stati vicini. Non hanno altra scelta che scappare, il più delle volte con poca speranza di ottenere i documenti che permetterebbero loro di arrivare a destinazione salvi e legalmente. Inoltre, i paesi che attraversano nel loro viaggio verso un porto sicuro possono essere pericolosi quanto quelli da cui fuggono, come hanno dimostrato numerose testimonianze di migranti in viaggio verso l'Italia che sono stati picchiati, torturati o stuprati in Libia».

Cosa fare? Le soluzioni che portano avanti i tre studiosi sono varie. E partono dalle critiche che operazioni come “Mare Nostrum” e la sua estensione europea, “Eurosur”, per rafforzare i controlli e coordinare le operazioni militari tra i paesi Ue, hanno ricevuto dalle organizzazioni umanitarie, per le quali «questi strumenti forzano migranti e rifugiati a intraprendere vie sempre più rischiose, mettendo la loro vita in pericolo, e che insieme alle opportunità limitate per ottenere un visto regolare, sono esattamente all'origine dell'aumento di morti nel Mediterraneo». Ma l'interesse degli autori è concentrato sulle difficoltà che anche questo piano avrà a mettersi in pratica, se l'obiettivo fosse effettivamente quello di salvare persone e non solo respingerle: dove dovrebbero essere sbarcati i migranti soccorsi? Le leggi internazionali non sono chiare. I governi litigano fra loro. Una direttiva comune non c'è. Per cui il piano parte già con una falla.

Anche per le altri potenziali politiche “di apertura” dei confini e di “salvataggio” considerate dai ricercatori, come la proposta di introdurre visti speciali e provvisori per chi vorrebbe arrivare e chiedere asilo politico, manca, scrivono «la volontà politica per portarli avanti» davvero. Lasciando così che il mare continui a inghiottire persone.