[[ge:espresso:foto:1.162667:mediagallery:https://espresso.repubblica.it/foto/2014/04/24/galleria/balangero-la-bonifica-dell-ex-miniera-amintifera-1.162667]]
Il rapporto, ora nelle mani del neo-ministro dell'Ambiente, il commercialista del'Udc Gian Luca Galletti, non mostra null'altro che numeri. Sufficienti, da soli, a raccontare una burocrazia micidiale, dall'attività incessante quanto scarsa nei risultati. Dal 2000 ad oggi, ovvero nei 14 anni in cui 57 pezzi d'Italia, da Taranto a Sesto San Giovanni, sono stati considerati dei "siti di interesse nazionale", amministratori locali e commissari si sono riuniti 1531 volte, 821 per capire cosa fare dei veleni sotto terra o sott'acqua, 721 per prendere delle decisioni.

Questo continuo riunirsi ha prodotto 23.833 documenti inviati al ministero per avere consigli o approvazione. Fra i fogli ci sono i piani di caratterizzazione, ovvero quell'attività preventiva che serve a capire quanto è esteso l'inquinamento e da cosa è composto, ci sono i progetti per iniziare la "messa in sicurezza", ovvero gli interventi che le aziende stesse - se ci sono ancora - o i comuni possono mettere in atto per evitare che i virus si estendano ulteriormente, e infine ci sono i concreti propositi per la bonifica, che dovrebbe permettere a quelle terre una nuova vita.
Il problema è che a questo ultimo gradino, il primo che consiste veramente nel sbarazzarsi delle scorie, trovando discariche adatte o processi capaci di ripulire i rifiuti sul posto, sono arrivati in pochi. Anzi, in pochissimi. A Brindisi la zona avvelenata sarebbe estesa 5851 ettari: la luce verde è arrivata solo per 547. A Piombino su 931 ettari solo 68 sono pronti per essere puliti. A Taranto 4383 ettari, fra mare e città, sono a rischio. Solo su 633 ci sono controlli fatti. E anche i successi possono nascondere altri segreti.
Sulle macerie dell'Acna, l'impresa di coloranti che ha lasciato a Cengio, sul confine fra Piemonte e Valle d'Aosta, una pesante eredità di diossine, metalli e rifiuti tossici, la bonifica sarebbe completa: la prima in Italia, con tanto di festa e di comunicati orgogliosi da parte dell'allora ministro per l'Ambiente Stefania Prestigiacomo. Ma secondo il Wwf non è possibile parlare di vittoria. Perché benché assicurati dentro bare resistenti i veleni sono ancora tutti lì. Tanto che la possibile vendita dell'area a delle imprese interessate è in sospeso, in attesa che dal ministero indichino chiaramente cosa è rimasto da fare: sotto il tappeto sono nascoste altre scorie.

Altre vittorie potrebbero non rivelarsi tali. Per i 250 ettari dell'Ex Falck di Sesto San Giovanni, a Milano, il piano di bonifica è pronto. Tanto che nel rapporto ministeriale l'ex acciaieria è tutta verde (il colore dell'ultimo step, quello del successo): i soldi ci sono, il piano pure, e la gara per ripulire il passato industriale di Sesto è stata affidata. A chi? A una società controllata dalla famiglia di Giuseppe Grossi, mancato nel 2011, lo stesso Grossi indagato per i costi gonfiati della maxi-pulizia del quartiere milanese di Santa Giulia. A Napoli la presunta bonifica di 226 dei 945 ettari inquinati di Bagnoli ha portato la procura a indagare 21 persone, tra dirigenti, imprenditori e responsabili istituzionali, perché la rimozione delle scorie avrebbe creato piuttosto un ulteriore danno ambientale. Ma nel dossier tutta quella zona, pure, è segnata dal verde del successo.
L'elenco è lungo: riguarda 160mila ettari di terra e 130mila di mare, riempiti di veleni mortali. E quello del ministero non è nemmeno un elenco completo, perché con un decreto del gennaio 2013 il governo di Roma si è sbarazzato di 18 mega-mostri ecologici su 57: dalle mani di Stato sono passati al controllo delle Regioni, che si dovranno arrangiare da sole a ripulire la melma tossica di Cerro al Lambro, a Sud di Milano ad esempio o i detriti della Maddalena, in Sardegna, sulla cui gestione - organizzata dall'allora capo della protezione civile Guido Bertolaso - sta indagando la magistratura.