Secondo le norme rimaste in vigore solo le famiglie eterosessuali possono avere figli grazie alla procreazione medicalmente assistita. E questo mantiene in piedi tutte le inquità e le disciminazioni che i giudici costituzionali avrebbero voluto togliere. Parla la docente di filosofia Caterina Botti

Caterina Botti insegna Bioetica alla Sapienza di Roma. Da esperta di temi bioetici non ha dubbi: nonostante i divieti smantellati dai giudici costituzionali, la legge che regola la fecondazione artificiale in Italia rimane tuttora iniqua. Ancora lontana dal garantire, come richiesto dai magistrati della Corte Costituzionale, «il diritto all'autodeterminazione» e «la non discriminazione economica». Perché? La risposta, dice, è nell'articolo cinque della legge 40 del 2004, ancora indiscusso e in vigore, che recita: «Possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».

«Eccolo, l'inganno: coppie, eterosessuali, di una certa età»

Dove sta l'iniquità?
«Nell'imposizione di un unico modello di famiglia. I giudici hanno deciso di abolire il divieto alla fecondazione eterologa perché, tra le varie cose, creava una discriminazione economica fra chi si poteva permettere di fare l'operazione all'estero e chi no. Bene: la stessa iniquità rimane ancora in piedi. Per le donne single, ad esempio. Per le coppie gay o lesbiche. Chi può sborsare decine di migliaia di euro va altrove e torna con un figlio. Gli altri, niente. Come avveniva per l'eterologa»

Che c'entra con la famiglia?
«Con l'articolo cinque, il Parlamento stabilisce che è accettato, “normale”, solo un certo tipo di famiglia: quella nucleare borghese. Questo mentre ormai anche in Italia i modelli presenti sono moltissimi, come ha dimostrato nei suoi studi Chiara Saraceno. Se oggi una donna può avere un figlio in modo naturale per crescerlo da sola, con la compagna, con gli amici, con i fratelli, in una famiglia allargata, perché non dovrebbe poterlo fare anche concependolo in vitro?»

Perché non è in coppia...
«E arriviamo al problema-chiave della legge: l'idea che ad esercitare il diritto sia la coppia eterosessuale. E non la donna»

Si spieghi meglio.
«So che può sembrare un cavillo filosofico. Ma è una questione cruciale. Riconoscere il diritto di accedere alla procreazione medicalmente assistita alla singola donna sarebbe da una parte un modo per liberalizzare le forme di famiglia: quella persona infatti potrebbe poi avere o meno un compagno, una compagna o dare il proprio bambino a una coppia gay. Dall'altra sarebbe un modo per affrontare un nodo importante che riguarda la stessa libertà femminile»

Libertà femminile?
«Sì. Perché parlando di coppia diamo per scontata un'asimmetria tra uomo e donna che ha conseguenze dolorose sulla salute femminile. Non si riconosce cioè il fatto che il coinvolgimento nella riproduzione è forzatamente diverso»

Ma come? La responsabilità della scelta non è di entrambi?
«Certo, la responsabilità può e dev'essere condivisa, ma non va negato che il coinvolgimento femminile è diverso da quello maschile. Il corpo, la pancia, la testa, il cuore che devono sopportare principalmente punture, profilassi e controlli, di chi sono? Della donna. Non siamo di fronte a due coscienze che decidono sullo stesso corpo, come se questo fosse neutro, indifferente»

Addossare tutto il peso della maternità alla donna però non significa costringerla di nuovo al solo ruolo materno?
«Al contrario. Significa riconoscerle libertà sul proprio corpo. Significa attribuirle la capacità di scelta e di responsabilità. Considerare la coppia invece come un blocco unico, indivisibile, rischia di portarci a considerare le due individualità come se fossero all'unisono, un'unica voce compatta che agisce sul corpo della donna, asservendolo»

E qual è il problema?
«È un problema di libertà. Significa dare o no la possibilità alle donne di decidere su di sé. Non voglio negare che l'infertilità sia una fonte di sofferenza enorme, e che la felicità di fare figli è totale e legittimo desiderarla, ma pesano ancora sulle donne condizionamenti pesanti in merito al loro destino e alla maternità. Quindi non va sottovalutato quanto questi condizionamenti agiscano in decisioni che hanno un impatto decisivo, come quella di iniziare il lungo percorso della procreazione medicalmente assistita, spesso ripetuta più volte»

E scrivere “donna” anziché “coppia” cosa cambierebbe?
«Cambierebbe moltissimo. Significherebbe riconoscere che è e dev'essere la donna il motore della scelta. Che è lei a doverlo volere veramente. E non perché condizionata dalla madre, dalla suocera, dallo zio, dal marito e da tutti quelli per cui “deve dare un figlio al suo uomo”. Solo riconoscendo un'asimmetria di partenza potremo ricostruire un vero equilibrio nella coppia: è chiaro infatti che non significherebbe negare uno spazio di interlocuzione e condivisione con gli uomini, ove ci siano, quanto riconoscere alle donne la prima parola e l’ultima parola, come si diceva per l’aborto»

Questo principio vale anche per altri aspetti della salute riproduttiva?  Nel suo ultimo libro – Prospettive femministe – parla appunto più di aborto che di fecondazione assistita ad esempio …
«Perché su quel piano l'Italia riproduce ogni giorno, negli ospedali pubblici, delle ingiustizie che non sono solo dolorose. Sono immorali»

Immorali?
«Sì. Immorali. Perché impedire a una donna di abortire in un ospedale perché il 97 per cento dei medici è obiettore significa non riconoscere la sua capacità di decidere con responsabilità. Significa ridurre le donne a conigli. A contenitori. Atte a riprodurre e riprodursi, non importa come e con quali esiti».

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